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In cammino verso la XVIII Assemblea nazionale

Sab, 16/03/2024 - 07:00

L’Azione cattolica italiana ha intrapreso il percorso verso la celebrazione della sua XVIII Assemblea nazionale, lo sta facendo in primo luogo attivando un processo autenticamente sinodale di partecipazione da parte di tutti soci, ragazzi giovani e adulti, in quasi tutte le diocesi italiane e in oltre 4500 realtà parrocchiali e interparrocchiali. Un processo possibile grazie all’impegno quotidiano dei suoi oltre 38.000 responsabili associativi e dei circa 7000 assistenti presenti ad ogni livello della vita associativa.

Abbiamo avuto modo di incontrare persone sinceramente coinvolte in una perseverante ricerca di sintesi creativa tra la novità della buona notizia del Vangelo e una vita quotidiana che appare spesso non solo sempre più frammentata e dispersa in contesti sociali precari, dominati da una competizione estrattiva delle risorse e dalla logica performante del successo a qualsiasi costo, ma anche “allucinata” (1) e distratta da un discorso pubblico sempre più artificiale e astratto. Una sorprendente rete di persone concrete, generose e appassionate, che hanno imparato a generare relazioni significative di cura e di promozione di vita buona a servizio degli altri, che imparano a tessere amicizie ecclesiali e sociali e che animano una progettualità formativa e culturale talvolta rassicurante e rituale ma molto spesso innovativa e capace di intercettare il bisogno profondo di cambiamento che viene espresso dalle persone nei diversi territori.

Volti e vite lungo tutto il paese

Un tessuto associativo fatto di volti che abbiamo incontrato da vicino, di storie che abbiamo accolto, di fatiche che abbiamo abbracciato, di interrogativi con cui ci siamo misurati, lo abbiamo fatto insieme a tutta la Presidenza nazionale nei tanti incontri avvenuti lungo tutto il paese. Sono state occasioni preziose in cui abbiamo contemplato con stupore la resilienza di una vita associativa che sa ripensarsi proprio come cura di persone e di relazioni, sfuggendo alla tentazione del funzionalismo e alla trappola di un efficientismo privo di anima e di prospettive.

Vivere l’esperienza associativa comporta oggi, più che nel passato, la fatica di convocare e tenere insieme le persone, la complessità di mettere a fuoco obiettivi che “accomunano”, che non si limitino a perseguire finalità settoriali promuovendo iperspecialismo e tecnocrazia. La sfida associativa è quella di promuovere la partecipazione di ciascuna persona alla vita democratica prima ancora che alle sue forme istituzionali ed ai suoi organismi. Ciò comporta la pratica paziente e sincera dell’ascolto reciproco, il gusto per il confronto e l’amore per la ricerca di ciò che unisce più che di ciò che divide (2), ma anche un allenamento interiore a riconoscere il valore delle decisioni che accomunano e a misurarne la loro qualità dal grado di condivisione e di cooperazione che esse sanno realizzare.

La Settimana sociale di Trieste: al cuore della democrazia

La prossima Settimana sociale che si terrà a Trieste, la cinquantesima nella storia di questa esperienza di partecipazione con cui si esprime il pensiero sociale cristiano e si raccoglie la varietà delle forme partecipative del movimento cattolico, mette a fuoco proprio l’urgenza di una buona manutenzione della vita democratica ritrovando il suo cuore, ossia la partecipazione: «partecipazione è sempre un campo di azione plurale, collettivo, comunitario, vitale, generativo, espressione di un “noi comunitario”. È un campo accessibile, dove nessuno deve sentirsi escluso dalla possibilità di incidere nei processi cruciali per la difesa e la promozione del bene comune; dove nessuno può chiamarsi fuori dalle responsabilità condivise, ma deve poter mettere in gioco i suoi talenti per il bene del suo quartiere, della sua città, del suo paese»(3).

Una vita associativa “convessa”

Accogliendo proprio tale prospettiva, sentiamo che l’itinerario assembleare può essere oggi un vero e proprio laboratorio di formazione alla vita democratica attraverso una partecipazione ad una vita associativa “convessa” che educa a non indugiare troppo nelle questioni organizzative interne, anzi sbilancia continuamente l’impegno associativo verso la costruzione della città di tutti, alla ricerca di una estroversione che spinge ad un lavoro insieme agli altri. È il desiderio originario e fondativo dell’Azione cattolica, presente sin dai suoi albori: testimoniare in modo luminoso il Vangelo della vita che dà forma a pazienti ma profonde tessiture di amicizia sociale che si aprono progressivamente in modo fraterno alla generazione della grande famiglia umana, come amava definirla Giorgio La Pira. Riconosciamo in questa dinamica ciò che ha ricordato papa Francesco nella sua lettera enciclica Fratelli tutti a proposito dell’amicizia sociale che «all’interno di una società è condizione di possibilità di una vera apertura universale» (99).

“Voler bene a tutti” e “volere il bene di tutti” si saldano evangelicamente nell’esperienza associativa come ci mostrano i suoi tanti testimoni credibili in ogni stagione della storia associativa. Tra questi vi è certamente Vittorio Bachelet, che nel saluto conclusivo alla prima Assemblea nazionale dopo il nuovo Statuto del 1969, definiva l’associazione una realtà spirituale e comunitaria tesa a convergere in «uno spirito comune […] essendo sempre più un cuor solo e un’anima sola» e orientata a promuovere quel «servizio che ci è chiesto per tutti i fratelli». Il brano di Atti 10, 34-38 illumina l’intero itinerario assembleare incoraggiandoci a dire insieme a Pietro che «Dio non fa preferenza di persone» e incoraggiandoci a promuovere una autentica e inclusiva partecipazione di tutti. «Todos, todos, todos!» (4).

Vita ecclesiale e vita civile e politica si intrecciano

La partecipazione piena alla vita ecclesiale, in virtù del battesimo, s’intreccia con la partecipazione piena alla vita civile e politica.
La prima esprime quel dinamismo che fa crescere la persona nel dono di sé e nel servizio generoso e gratuito agli altri senza fare distinzioni o preferenze; la seconda esprime un dinamismo altrettanto efficace di maturazione nella consapevolezza di essere portatori di diritti e doveri verso gli altri intesi nell’accezione più ampia di vita della società e dell’ambiente.

Proprio per questo l’itinerario assembleare è un’esortazione ad allargare la partecipazione oltre le forme tradizionalmente previste e animare il coinvolgimento di tutte le comunità ecclesiali, dei tanti simpatizzanti, delle amiche e degli amici delle altre aggregazioni ecclesiali e civili con cui stabilisce alleanze per il bene comune, per raccontare, proprio attraverso il cammino assembleare, il sogno di un’associazione che si sente chiamata a ripensarsi in modo accogliente ed inclusivo e a rigenerarsi attraverso la pratica quotidiana dell’ascolto e del dialogo. È un’associazione consapevole e umile, la nostra Ac del 2024, che ha vissuto, e vive ancora, l’attraversamento della complessità di questo tempo post-pandemico che ha rivelato, con ancora maggiore chiarezza, numerose criticità che già da tempo la secolarizzazione aveva posto ai credenti e alle comunità cristiane.

Sono le stesse questioni evidenziate da tutte le persone che sono state consultate e coinvolte nel cammino sinodale delle chiese che sono in Italia e, analogamente, in ogni parte del mondo in cui la Chiesa cattolica è presente; nodi e problemi che alimentano e stimolano una ricerca comune che incoraggia «ad uscire dalla prospettiva della “scelta giusta per me” ed entrare in quella della “scelta giusta per il bene della comunità”, a passare dalla logica dell’io a quella del noi» (5) .

Verso “noi”

La complessità oggi chiede più spazio alla logica comunitaria nella ricerca di soluzioni a sfide che sempre più ci accomunano: di fronte a tale complessità non vi possono essere scorciatoie individualistiche e solitarie. La vita comunitaria richiede il riconoscimento della pluralità e della varietà come valore più che come problema, occorre pertanto ripensare meccanismi e dispositivi sociali che siano più in grado di sostenere la capacità di tenere insieme il pluralismo senza per questo rassegnarsi ad immaginare la vita in comune come composizione di differenze esposta alla violenza, alla barbarie, alla lotta per la sopravvivenza.

Il ben-vivere delle comunità è ordinato ad una regolazione condivisa all’accessibilità e alle risorse per poter vivere; ogni forma di concentrazione, sia delle risorse sia del potere di regolazione, diventa una minaccia per il buon vivere di tutti, creando disuguaglianze e mettendo sempre più in contrapposizione le persone. Tanto la tecnologia quanto la finanza sono indubbiamente dei dispositivi sociali che influiscono pesantemente nella produzione di disuguaglianze, divenendo sempre più determinanti di conflitti sociali.

Crisi delle democrazie e potere umano

La crisi delle democrazie è oggi indubbiamente connessa alla questione del ripensamento del potere umano, accresciuto in modo impensabile sino a qualche decennio fa proprio grazie al combinato effetto della crescita tecnologica e della globalizzazione finanziaria (6) .

L’associazione avverte l’esigenza di investire ancora di più sul piano culturale e su una formazione autenticamente spirituale, volendo così interpretare in questo tempo la sua scelta religiosa come sollecitudine verso tutte le persone ad immergersi nella complessità e a non difendersi da essa, piuttosto abilitando ciascuno ad assumerla secondo lo stile esigente del discernimento personale e comunitario, riproponendo con creatività e innovazione percorsi di cura e accompagnamento, di ricerca e di impegno nutriti quotidianamente dall’ascolto della Parola e ritmati dalla celebrazione dell’Eucaristia.

È un dinamismo sinodale e missionario, che riconosce l’azione dello Spirito che continuamente rinnova e rigenera la vita ecclesiale e dona al mondo la Chiesa di cui esso ha bisogno.

(Articolo pubblicato sulla rivista Dialoghi n.1-2024)

Note

1 È un termine che allude ai rischi di distorsione del reale o di cattiva interpretazione dei dati che possono emergere nelle esperienze virtuali di Intelligenza artificiale.
2 Dal Testamento di san Giovanni XXIII.
3 Documento preparatorio della 50a Settimana sociale, pp. 15-16.
4 Papa Francesco, GMG Lisbona 2023.
5 Cei, Si avvicinò e camminava con loro, 2023, p. 5.
6 «Abbiamo compiuto progressi tecnologici impressionanti e sorprendenti, e non ci rendiamo conto che allo stesso tempo siamo diventati altamente pericolosi, capaci di mettere a repentaglio la vita di molti esseri e la nostra stessa sopravvivenza», Laudate Deum, n. 28.

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Laudato Si’: innamorati, cura, trasforma

Ven, 15/03/2024 - 12:00

Il Movimento Laudato Si‘ annuncia la riapertura del Programma Animatori Laudato Si’. Una formazione che unisce, in una comunità globale di preghiera e azione e per incoraggiare le proprie parrocchie, comunità locali, associazioni e movimenti ad impegnarsi per la spiritualità ecologica, per stili di vita sostenibili e per la difesa della giustizia climatica ed ecologica.

In Italia, la novità di quest’anno è l‘opportunità di formazione sia on demand in modalità mista (link al programma in partenza l’ 8 aprile 2024), sia in presenza a Roma ed online grazie alla collaborazione con la Pontificia Università Lateranense (link  al programma, iscrizioni entro 20 marzo 2024).

Un ciclo di tre seminari per prendersi cura della Casa comune

La cattedra Unesco sul Futuro dell‘educazione alla sostenibilità della Pontificia Università Lateranense, insieme al ciclo di Studi in ecologia e ambiente – Cura della nostra Casa comune e Tutela del Creato, che attiverà nell‘anno accademico 2024/2025 la Laurea triennale in Scienze sociali per la cooperazione, lo sviluppo e l’ecologia (L-37), organizzano nel periodo marzo-maggio 2024 un ciclo di tre seminari dal titolo: “Prendersi cura della nostra casa comune: la necessità di un cambio di rotta. Accompagnare e accelerare la transizione verso un paradigma etico-socio-economico basato sulla sostenibilità integrale”.

Grazie alla collaborazione con il Movimento Laudato Si’, al termine del ciclo di seminari gli studenti potranno ricevere il Certificato di Animatore Laudato Si’, previa partecipazione ad un incontro online (9 aprile 15.00-17.30), coordinato dallo stesso Movimento e la realizzazione di un “seme di speranza”: un’iniziativa concreta di sensibilizzazione sulla Laudato Si’, nel proprio ambito di appartenenza (familiare, lavorativo, parrocchiale, associativo, religioso…).
Questa metodologia di formazione in collaborazione con le Pontificie Università ed Atenei di Roma è già sperimentata nell’ambito del Joint diploma in Ecologia integrale, ora in corso e che dopo l’estate riaprirà le iscrizioni.

Per agire con urgenza e insieme

Dichiara Cecilia Dall’Oglio, Italian programs manager del Movimento Laudato Si’: «Questa collaborazione con la Pontificia Università Lateranense è segno dell’importanza della complementarietà della formazione didattica con quella sul campo, nell’impegno di animazione e per agire con urgenza ed insieme, come ci chiedono la Laudato Si’ e la Laudate Deum ed il cammino sinodale in atto». 

Le lezioni saranno disponibili dall’8 aprile (4 moduli). In più, ci saranno opportunità di vivere la dimensione comunitaria tra i partecipanti provenienti dalle diverse 36 realtà partner del Movimento (associazioni e movimenti, ordini religiosi, giovani animatori Progetto Policoro, parrocchie, diocesi…): un incontro introduttivo il 9 aprile (15.00-17.30) ed in occasione degli incontri che mensilmente si tengono tra gli Animatori Laudato Si’ italiani. Maggiori informazioni sul programma qui.

L’attenzione alla Laudate Deum e i relatori coinvolti

Un’altra novità del 2024 sarà anche l’opportunità di seguire un nuovo modulo sull’esortazione apostolica Laudate Deum, pubblicata lo scorso 4 ottobre, nella quale papa Francesco ci chiama nuovamente all’azione, con molta urgenza, nella cura della nostra casa comune.
Tale lezione sarà tenuta da mons. Luigi Renna, arcivescovo di Catania, presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, presidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei Cattolici in Italia, in diretta online la sera del 22 aprile, Giornata Mondiale della Terra e poi disponibile on demand.

Tra i relatori della formazione: il prof. Antonello Pasini, fisico climatologo del Cnr; mons. Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi, che ormai da sempre accompagna la formazione di tutti gli Animatori italiani presentando la Spogliazione di Francesco come modello di conversione all’ecologia integrale; mons. Armando Cattaneo, incaricato diocesano per la sensibilizzazione alla Laudato Si’ che sta coinvolgendo molto attivamente parrocchie, Animatori e Circoli Laudato Si’ della diocesi di Milano; Cecilia Seppia, giornalista di Vatican news, coordinatrice del Progetto “Storie per la Laudato Si’” del Dicastero per la Comunicazione”, Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli;  Ilaria de Bonis, giornalista professionista, redattrice del mensile Popoli e Missione, Fondazione Missio, Organismo Pastorale della Cei e giovani animatori.

Una risposta alla chiamata della Chiesa a tutti i fedeli

Il “Programma di formazione Animatori Laudato Si’” è una risposta alla chiamata della Chiesa a prendersi cura del Creato da parte di tutti i fedeli. Gli Animatori Laudato Si’, in tutto il mondo, sono 16.000.
In Italia, il programma è stato avviato nel 2019 e la rete italiana conta 3.500 Animatori e 200 Circoli Laudato Si’ attivi. Sono 233, gli Animatori che sono stati certificati nel 2023.
Anche quest’anno, gli Animatori e i Circoli Laudato Si’ hanno contribuito attivamente alle celebrazioni del Tempo del Creato. Sono stati promossi 353 eventi locali, con circa 70 diocesi coinvolte. Sempre in collaborazione con Organizzazioni membro e partner (tra cui i responsabili diocesani per la pastorale sociale ed il lavoro della Conferenza episcopale italiana). Più di 170 gli eventi supportati ed appoggiati da vescovi. Si stima in 15.500 le persone direttamente coinvolte.

Al termine del programma, con il completamento e la presentazione di un “progetto semi” che promuove la cura del Creato, gli animatori riceveranno un certificato ufficiale.
Da quel momento in poi potranno essere coinvolti in modo continuativo nella costruzione di una comunità: un circolo o qualsiasi altro tipo di comunità legata alla missione del Movimento Laudato Si’.

Le iscrizioni sono aperte sul sito laudatosianimatori.org, dove sono disponibili maggiori informazioni sulla proposta formativa 2024.

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I vescovi di Sicilia e l’autonomia differenziata

Gio, 14/03/2024 - 07:00

Toc Toc! Ancora una volta, i vescovi di Sicilia bussano alle “porte” della classe politica per fare sentire la propria voce. Infatti, mentre è in corso l’iter parlamentare relativo alla proposta volta ad introdurre il c.d. “regionalismo differenziato” (in questo momento il d.d.l. S615, superato l’esame del Senato, è approdato alla Camera), i pastori siciliani sono tornati a farsi sentire con un comunicato, che segue quanto già osservato nel maggio 2023, nel quale esprimono non poche preoccupazioni sulle conseguenze che potrebbero aversi se si giungesse all’approvazione della legge. Sembra opportuno soffermare l’attenzione su talune delle osservazioni che vengono svolte nel comunicato in discorso.

Chiesa e politica

Per prima cosa, preme anticipare una facile (e scarsamente consapevole) critica che potrebbe essere indirizzata ai prelati da parte di qualche poco avveduto commentatore: perché la gerarchia ecclesiastica si interessa di politica? Non dovrebbe forse “stare al suo posto” e limitarsi a trattare le cc.dd. “cose di Chiesa”? Chi fa queste considerazioni, con ogni evidenza, sconosce o sottovaluta lo stretto rapporto che sussiste tra fede e politica. Quest’ultima, infatti, secondo il senso etimologico del termine e l’insegnamento di Aristotele, è da intendersi come virtù al servizio del bene comune, che non è certo da intendersi come la somma dei “beni” (o, se si preferisce) degli interessi individuali, ma la sintesi degli stessi.

Come il Concilio Vaticano II ci ha insegnato, in uno straordinario e noto passaggio che fa da mirabile sintesi di quanto si sta ora dicendo, “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et spes 1).

Una maniera esigente di vivere l’impegno cristiano

D’altra parte, è a tutti nota l’affermazione di Paolo VI per la quale la politica è da considerare “una maniera esigente […] di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri” (Ocotegesima adveniens 46). Anche Francesco ha osservato che “la politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune” (Evangelii gaudium 205). Non a caso, infatti, il Santo Padre ha invitato l’Azione cattolica italiana, il 30 aprile 2017, riunita in p.zza S. Pietro per festeggiare i suoi 150 anni di storia, a “mettete[rsi] in politica, ma per favore nella grande politica, nella Politica con la maiuscola!”.
Non è possibile soffermarsi sul punto, che pure merita primaria attenzione, essendo ora necessario entrare nel merito delle considerazioni dei vescovi.

Partiamo dalla fine: l’unità nazionale

Propongo di partire dalla fine del comunicato. In chiusura, i pastori fanno presente che “preoccupanti spinte secessioniste istituzionalizzate” mettono a rischio l’unità nazionale. Possiamo considerare davvero fondata tale paura? Per rispondere, conviene accennare un attimo al concetto di unità nazionale che, in estrema sintesi, si concreta in “quei principî nei quali si sostanzia l’idem sentire de re publica delle forze politiche che hanno dato vita all’ordinamento” (secondo le parole di T. Martines, compianto costituzionalista messinese); essa, infatti, fa (ed è) sintesi dei valori che stanno alla base dell’etica pubblica repubblicana. È allora da precisare che, a tal proposito, non si può fare riferimento solo all’“unità territoriale dello Stato, ma anche, e soprattutto, [al] senso della coesione e dell’armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, che compongono l’assetto costituzionale della Repubblica” (Corte cost. n. 1 del 2013).

Non v’è dubbio che l’introduzione di forme differenziate di autonomia, se non adeguatamente predisposte, possano insidiare valori come quello di eguaglianza e di solidarietà, ma anche quello di unità ed indivisibilità della Repubblica ed altri ancora che appaiono preziosi al fine di favorire la coesione sociale ma, in generale e soprattutto, per preservare (e quindi non tradire) lo spirito della Costituzione italiana.

Il mancato richiamo all’art. 2 Cost. e la (nuova) “questione meridionale”

Inoltre, commentando il d.d.l., i prelati rilevano che “manca un esplicito e necessario richiamo all’art. 2 Cost.”, considerato “fonte del dovere di solidarietà sociale in favore dei soggetti meno abbienti”. Un riferimento a quest’ultima (fondamentale) previsione sarebbe stato molto utile e importante (anche se non indispensabile, perché potrebbe ritenersi implicito), ma non solo perché essa discorre dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. A norma dell’art. 2, principale fondamento del principio personalista che permea l’intera Carta del ’48, “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, che sarebbero minacciati da forme differenziate di autonomia che non fossero bene equilibrate.      

Infatti, il rischio che si accentui il divario tra Nord e Sud (in particolare) sul piano della tutela dei diritti fondamentali, generando un Paese “a due velocità” anche nel godimento degli stessi, è tutt’altro che peregrino.

Si ripropone in nuovi termini (e la ripropongono anche i vescovi) la “questione meridionale”, proprio nel tempo in cui la Costituzione, recentemente revisionata sul punto, promuove l’insularità (come ricordato nel comunicato che qui si discute).

A proposito dell’art. 5 Cost.

Una cosa, però, conviene chiarirla da subito: i valori di “unità e indivisibilità della Repubblica”, che sono espressi in un inciso dell’art. 5 Cost. (invero non richiamato dai vescovi) e che non sono da intendere solo in modo “fisico”, non si pongono in contrasto con il principio autonomistico, anch’esso alla base della Carta del ’48. Anzi, nel principio in parola si specifica che la Repubblica deve “riconosce[re] e promuove[re] le autonomie locali”, “attua[re] nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo” e “adegua[re] i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.

I vescovi, opportunamente, osservano che l’autonomia differenziata è concessa dalla stessa Costituzione. Infatti, la possibilità di attribuire alle Regioni, con legge, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” è prevista all’art. 116, III comma, Cost. Tale previsione si pone in diretta attuazione dell’art. 5 Cost. ora cit., ma finora è rimasta “lettera morta”. Com’è chiaro, non ci si può dolere (e ci si dovrebbe rallegrare) del fatto che la Carta costituzionale venga attuata, ma purché non se ne deformino i tratti essenziali e non se ne tradisca lo spirito.

Sui LEP

Un altro punto messo in luce dai pastori siciliani è relativo ai livelli essenziali delle prestazioni (i cc.dd. LEP), che dovrebbero essere definiti con decreto legislativo e aggiornati con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (v. art. 3, VII comma). A quest’ultimo proposito, effettivamente, un conto è ricorrere all’uso di tali decreti in caso di emergenza, come accaduto durante la pandemia (anche se pure al riguardo si potrebbe discutere), altro è fare ricorso a tale fonte in condizioni di “normalità”. Ragioni di economicità e di tempo non sembrano infatti sufficienti a giustificare una esautorazione del Parlamento dalla procedura di aggiornamento in discorso.

In conclusione

Purtroppo non c’è spazio per affrontare gli altri aspetti messi in risalto dai vescovi siciliani, ma quanto detto pare sufficiente a rilevare che le preoccupazioni messe in luce dagli stessi sono tutt’altro che infondate. L’auspicio, allora, è che questa voce non rimanga inascoltata, ma soprattutto che ad essa si unisca quella del laicato cattolico che, per i motivi che si sono fugacemente esposti, non può stare ai margini del dibattito pubblico, ma ad esso deve partecipare con senso di responsabilità ed in spirito di servizio, al fine di vivere una fede “incarnata” e non intimista capace di leggere i “segni dei tempi” e di accogliere (e, possibilmente, superare) le sfide che gli si presentano (cfr. Evangelii gaudium 109).

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Ambivalenza delle frontiere

Mar, 12/03/2024 - 09:05

Il confine delimita uno spazio dove le diverse identità si incontrano e si riflettono l’una nell’altra, ed è in tal senso che esso è anche frontiera. Proprio in quanto implicano la relazione ad altri, le frontiere possono essere uno spazio di arricchimento e di sviluppo oppure luogo di respingimento e di umana miseria. Il senso dell’umano e delle relazioni si gioca nel modo in cui le concepiamo e le viviamo. Su questa Ambivalenza delle frontiere riflette il “dossier” proposto da «Dialoghi» (n.1-2024) e curato da Pina De Simone e Carlo Cirotto.

I contributi del dossier sono, nell’ordine: Porosità dei confini tra biologia, architettura e geopolitica forum con Maria Antonietta Crippa, Pietro Ramellini, Luciano Tosi; Le frontiere nella storia e nel tempo presente di Sandro Calvani; Rive, periferie e altri muri: la violenza della frontiera di Marta Cariello; Membrane. Gli incredibili confini della vita di Carlo Cirotto; Ambivalenza delle frontiere nelle relazioni intersoggettive di Donatella Pagliacci; Dal dialogare “frontale” all’intrattenersi di Annalisa Caputo.

Oltre al “dossier”, scorrendo l’indice del trimestrale culturale promosso dall’Azione cattolica italiana troviamo l’editoriale Quando le frontiere diventano porose diPina De Simone. La porosità si addice alle frontiere perché è propria della vita, che non sopporta separazioni o settorializzazioni troppo nette. Saper abitare le frontiere, attraversandole, è quello che ci è chiesto nella comprensione della realtà e perché l’umano fiorisca.

Seguono i contributi di “primo piano”:
In cammino verso la XVIII Assemblea nazionale di Giuseppe Notarstefano. L’itinerario assembleare dell’Azione cattolica si presenta come un laboratorio di vita democratica attraverso la partecipazione a una vita associativa ed ecclesiale che promuove l’impegno nella costruzione della città.
Il multilateralismo: una bussola per l’era globale di Lucia Capuzzi. La crisi climatica globale mostra le interconnessioni tra i paesi e acuisce il problema delle disuguaglianze. La via d’uscita da percorrere, come è apparso chiaro a Dubai, non può che essere quella del multilateralismo.

Per la rubrica “eventi e idee” troviamo:
Alla ricerca di regole condivise per governare l’IA diLuca Grion. Lo sviluppo dell’IA e la sua rapida diffusione in molti ambiti della nostra vita hanno imposto una riflessione profonda ai massimi decisori istituzionali. Appare essenziale pensare la governance di tali strumenti, in modo da garantire i diritti della persona, diminuendo o eliminando distorsioni, sbilanciamenti di poteri, scarsa equità.
Formare alla relazione. Una sfida non solo per la Scuola di Erminia Foti, Alfonso Lanzieri, Luca Micelli. La cronaca, spesso, provoca la società a rivedere il proprio sistema educativo e l’opinione pubblica interpella la Scuola affinché preveda attenzioni specifiche attorno ad alcune questioni, tra le altre quella dell’affettività e della relazione. Giusto, ma solo se non si pretende di educare aggiungendo ore e se si pensa la Scuola in una rete più ampia di agenzie educative generative.

Interessante e ricca di inviti alla lettura la sezione “il libro & i libri” con i testi:
Per un umanesimo rigenerato di Vincenzo Di Pilato, recensione a E. Morin, L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera.
Tensione escatologica e ordine politico di Fabio Mazzocchio, recensione a O. Cullmann, Dio e Cesare.
Il populismo pregiudica la democrazia di Gian Candido De Martin, recensione a A. Scurati, Fascismo e populismo. Mussolini oggi.
Per narrare bene occorre educarsi bene di Lorenzo Pellegrino, recensione a N. La Sala, L’universo narrativo dei social media. Racconto e responsabilità al tempo della rete.

Chiude il numero la rubrica “profili” con il contributo Sulla soglia con Simone Weil di Ilaria Vellani. A ottant’anni dalla sua morte, Simone Weil parla ancora alla nostra intelligenza, provoca la nostra partecipazione, ci convoca sulle tante soglie sulle quali attendere: come quella della possibilità di una piena giustizia, quella della fascinazione del potere e del suo depotenziamento, quella di un pensare il femminile in modo aperto e decentrato.

Per ulteriori info e per abbonarsi visita il sito rivistadialoghi.it o scrivi a abbonamenti@editriceave.it tel. 06 661321 – fax 06 6620207

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L’Europa e quel cammino da riprendere

Sab, 09/03/2024 - 09:59

Il futuro dell’Europa ci interessa e ci appartiene, come cittadini e come credenti. In particolare, siamo coscienti che le prossime elezioni europee (6-9 giugno 2024) rappresentino uno sparti acque nella costruzione della casa comune degli europei. I “lavori” sono in stallo e occorre farli ripartire al più presto, così che l’Europa unita non resti una incompiuta (senza una fiscalità unica, senza una difesa comune, senza una vera politica estera unica, senza una costituzione ma figlia di trattati), alla merce degli interessi di parte che ciascuno degli inquilini si si trascina con sé.

È il pensiero di fondo che ha attraversato il convegno “Cittadini e credenti nell’Europa che verrà” tenutosi ieri a Roma, presso l’Università Lumsa, e promosso da Azione Cattolica, Meic, Mieac e Fuci, per ragionare su quello che gli americani chiamano “stato (di salute) dell’Unione”; in questo caso a ragion veduta, essedo gli Usa una federazione di Stati, cosa che – lo ricordiamo – non è l’Unione europea, essendo ad oggi (più o meno) solo il frutto di accordi (trattati) tra Stati che hanno accettato di rinunciare a pezzi di sovranità nazionale (ad esempio quella monetaria).

Un federalismo europeo compiuto: l’unica via possibile

Di fronte alle sfide che attraversano il vecchio continente, guerra e crisi economica su tutte, risaltano ancor di più i limiti di una Unione tra 27 Paesi che tale non è ancora. Bloccata da lacci e lacciuoli primo tra tutti un “criterio di unanimità” delle decisioni che porta a nessuna decisione o a compromessi che ai più paiono pezze peggiori del buco (pensiamo al “ricatto” messo in atto dal governo ungherese, e non solo, sulla politica di gestione dei migranti). Andare, verso il federalismo europeo compiuto è dunque l’unica via possibile per uscire dal pantano, facendo dell’Unione un soggetto politico autonomo e svincolato dai mal di pancia dei singoli Stati membri.

Oltre l’incompiutezza, la disillusione e la tecnocrazia

Superando quella che il sociologo Mauro Magatti ha definito “l’Europa incompiuta”, denunciando la disillusione come «il sentimento prevalente oggi, perché viviamo il dramma della guerra in un continente che nasceva su un’idea di pace, e per il dramma della logica dei muri con cui affrontiamo il tema migratorio».
Secondo il sociologo dell’Università Cattolica, «la legislatura europea che si è conclusa ha molti punti positivi, nella capacità che ha avuto di rispondere tempestivamente a molte emergenze, dalla pandemia alla guerra in Ucraina», tuttavia «la lentezza con cui stiamo discutendo il tema della difesa comune è problematica quanto ingiustificata». Magatti riconosce che l’“obiezione tecnocratica” degli antieuropeisti ha un suo fondamento «e con essa – pur da europeista convinto – bisogna discutere e dare risposte», e la risposta non può che essere «un di più di politica e non di norme». E fa un esempio concreto: «Tutti siamo per la sostenibilità, ma la transizione ecologica è stata posta in modo tale che i costi sono a carico delle parti più deboli della società». È stata “pensata” in modalità tecnocratica e non politica.

Mons. Crociata: la secolarizzazione indebolisce la base popolare di tutte le Chiese in Europa

Il convegno è proseguito sul tema del contributo religioso alla costruzione europea. Mons. Mariano Crociata, presidente della Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea (Comece), ha voluto ricordare le parole di Romano Guardini: «L’Europa, ciò che è, lo è attraverso Cristo […] Se l’Europa si staccasse totalmente da Cristo allora, e nella misura in cui questo avvenisse, cesserebbe di essere».
Il presule ha quindi sottolineato la necessità che «cultura ed ethos si poggino su una radice profonda per poter sopravvivere». Portato all’oggi del vecchio continente, ne deriva da un lato «la difficoltà a dialogare con una Europa che non è più quella dei democristiani Schuman, De Gasperi e Monnet, ma anche a fare i conti con una secolarizzazione che indebolisce la base popolare di tutte le Chiese in Europa».
«Non dimentichiamo che le fedi sono il retroterra plurisecolare da dove nascono i Paesi dell’Europa. E che il cristianesimo è un elemento fondamentale all’idea di un’Unione dei Paesi europei», ha osservato mons. Crociata. Denunciando: «Oggi ci troviamo immersi in un paradigma consumistico e tecnocratico che produce una riduzione privatistica di ogni istanza etica».

Prodi: il futuro dell’Europa passa dalla Francia

A dar manforte al presidente della Comece l’intervento di Romano Prodi, che della Commissione europea è stato presidente. Guardando ai fenomeni di stravolgimento della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta fino ad ora e all’allontanamento progressivo tra Stati Uniti ed Europa, Prodi nel sull’intervento ha richiamato alla responsabilità uno dei Paesi che maggiormente ha peso negli assetti dell’Unione: la Francia. Anche se posizioni come quella assunta dalla Francia sull’aborto in Costituzione – decisione approvata pochi giorni fa – «non fa che allontanare la Francia e dividere l’Europa».

A partire dalla difesa comune

Eppure, per Prodi, «nell’ottica di una difesa comune e di un riequilibrio in seno alla Nato, la Ue dovrebbe parlare con una voce sola». Questo, però, può avvenire solo con l’aiuto della Franci. Del suo arsenale nucleare e del suo seggio con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu». Dunque, solo partendo dalla Francia è possibile, attualmente, costruire una politica di difesa comune in Ue. Così come una prospettiva unitaria di politica estera comune, che riconsideri un riequilibrio delle forze nel Patto Atlantico. Prodi ha ricordato: «La Nato è un patto, non una obbedienza», sottolineando che oggi la posizione dell’Europa è fin troppo subordinata ai desiderata di Washington».

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Il lavoro per la partecipazione e la democrazia

Gio, 07/03/2024 - 07:00

Di certo è con il pensiero alla prossima Settimana sociale dei cattolici in Italia, in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio venturo (con a tema “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”), che quest’anno i vescovi italiani rivolgono al Paese il loro tradizionale Messaggio per la Festa dei Lavoratori (1° maggio 2024). Mettendo in relazione una delle pagine più intense della dottrina sociale della Chiesa, l’enciclica Centesimus annus, vergata da San Giovanni Palo II, con l’articolo 1 della Costituzione italiana.
La “res pubblica”, cioè la “cosa pubblica”, ma potremmo tradurre anche la “casa comune”, è frutto del lavoro di uomini e donne che hanno contribuito e continuano a contribuire a un Paese democratico: «Senza l’esercizio di questo diritto e l’assicurazione che tutti possano esercitarlo, non si può realizzare il sogno della democrazia».

La povertà più grande è la mancanza di lavoro

Un altro passaggio particolarmente significativo del Messaggio prende spunto dalla Fratelli tutti di Francesco, dove il pontefice ricorda come il lavoro sia “il grande tema” che può davvero migliorare la politica. Scrive Bergoglio: «Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze». I vescovi, allora, ribadendo come non esista peggior povertà di quella che priva del lavoro, invitano a «investire in progettualità, formazione e innovazione» aprendosi alle nuove tecnologie «che la transizione ecologia sta prospettando» per creare condizioni di equità sociale. Per i presuli, è necessario guardare anche agli scenari di cambiamento che può innescare l’intelligenza artificiale «in modo da guidare responsabilmente questa trasformazione ineludibile».

Diritti e dignita per i lavoratori precari e i lavoratori immigrati

Alle istituzioni i presuli ricordano come un lavoro dignitoso esiga anche «un giusto salario e un adeguato sistema previdenziale» per colmare i divari economici tra le generazioni e anche tra uomini e donne, altrimenti «non si potrà parlare di una democrazia compiuta nel nostro Paese». Il Messaggio non dimentica le gravi questioni del precariato e dello sfruttamento dei lavoratori immigrati e ,allo stesso tempo, una particolare attenzione è dedicata alla sicurezza sui luoghi di lavoro, questione urgente cui porre attenzione «dato l’elevato numero di incidenti che non accenna a diminuire». Se da una parte i vescovi si rivolgono agli imprenditori chiamati a questi «compiti di giustizia» di generare occupazione, assicurare contratti equi e sicuri, dall’altra ai lavoratori raccomandano di sentirsi «corresponsabili del buon andamento produttivo e della crescita del Paese».

Il testo del Messaggio dei vescovi italiani per la Festa dei Lavoratori
Il lavoro per la partecipazione e la democrazia (1° maggio 2024)

Lavorare è fare “con” e “per”

«Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Gv 5,17). Queste parole di Cristo aiutano a vedere che con il lavoro si esprime «una linea particolare della somiglianza dell’uomo con Dio, Creatore e Padre» (Laborem exercens, 26). Ognuno partecipa con il proprio lavoro alla grande opera divina del prendersi cura dell’umanità e del Creato. Lavorare quindi non è solo un “fare qualcosa”, ma è sempre agire “con” e “per” gli altri, quasi nutriti da una radice di gratuità che libera il lavoro dall’alienazione ed edifica comunità: «È alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana» (Centesimus annus, 41).
In questa stessa prospettiva, l’articolo 1 della Costituzione italiana assume una luce che merita di essere evidenziata: la “cosa pubblica” è frutto del lavoro di uomini e di donne che hanno contribuito e continuano ogni giorno a costruire un Paese democratico. È particolarmente significativo che le Chiese in Italia siano incamminate verso la 50ª Settimana Sociale dei cattolici in Italia (Trieste, 3-7 luglio), sul tema “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”. Senza l’esercizio di questo diritto, senza che sia assicurata la possibilità che tutti possano esercitarlo, non si può realizzare il sogno della democrazia.

Il “noi” del bene comune: la priorità del lavoro

Come ricorda Papa Francesco in Fratelli tutti, per una migliore politica «il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze» (n.162). Le politiche del lavoro da assumere a ogni livello della pubblica amministrazione devono tener presente che «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro» (ivi).
Occorre aprirsi a politiche sociali concepite non solo a vantaggio dei poveri, ma progettate insieme a loro, con dei “pensatori” che permettano alla democrazia di non atrofizzarsi ma di includere davvero tutti (cfr. Fratelli tutti, 169). Investire in progettualità, in formazione e innovazione, aprendosi anche alle tecnologie che la transizione ecologica sta prospettando, significa creare condizioni di equità sociale. È necessario inoltre guardare agli scenari di cambiamento che l’intelligenza artificiale sta aprendo nel mondo del lavoro, in modo da guidare responsabilmente questa trasformazione ineludibile.

Prenderci cura del lavoro è atto di carità politica e di democrazia

“A ciascuno il suo” è questione elementare di giustizia: a chiunque lavora spetta il riconoscimento della sua altissima dignità. Senza tale riconoscimento, non c’è democrazia economica sostanziale. Per questo, è determinante assumere responsabilmente il “sogno” della partecipazione, per la crescita democratica del Paese.

Condizioni di lavoro dignitose

Le istituzioni devono assicurare condizioni di lavoro dignitoso per tutti, affinché sia riconosciuta la dignità di ogni persona, si permetta alle famiglie di formarsi e di vivere serenamente, si creino le condizioni perché tutti i territori nazionali godano delle medesime possibilità di sviluppo, soprattutto le aree dove persistono elevati tassi di disoccupazione e di emigrazione. Tra le condizioni di lavoro quelle che prevengono situazioni di insicurezza si rivelano ancora le più urgenti da attenzionare, dato l’elevato numero di incidenti che non accenna a diminuire. Inoltre, quando la persona perde il suo lavoro o ha bisogno di riqualificare le sue competenze, occorre attivare tutte le risorse affinché sia scongiurato ogni rischio di esclusione sociale, soprattutto di chi appartiene ai nuclei familiari economicamente più fragili, perché non dipenda esclusivamente dai pur necessari sussidi statali.

Un giusto salario e un adeguato sistena di previdenza

Un lavoro dignitoso esige anche un giusto salario e un adeguato sistema previdenziale, che sono i concreti segnali di giustizia di tutto il sistema socioeconomico (cfr. Laborem exercens, 19). Bisogna colmare i divari economici fra le generazioni e i generi, senza dimenticare le gravi questioni del precariato e dello sfruttamento dei lavoratori immigrati. Fino a quando non saranno riconosciuti i diritti di tutti i lavoratori, non si potrà parlare di una democrazia compiuta nel nostro Paese. A questo compito di giustizia sono chiamati anche gli imprenditori, che hanno la specifica responsabilità di generare occupazione e di assicurare contratti equi e condizioni di impiego sicuro e dignitoso.

La salvaguardia dei diritti di tutti

I lavoratori, consapevoli dei propri doveri, si sentano corresponsabili del buon andamento dell’attività produttiva e della crescita del Paese, partecipando con tutti gli strumenti propri della democrazia ad assicurare, non solo per sé ma anche per la collettività e per le future generazioni, migliori condizioni di vita. La dimensione partecipativa è garantita anche dalle associazioni dei lavoratori, dai movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e con gli uomini del lavoro che, perseguendo il fine della salvaguardia dei diritti di tutti, devono contribuire all’inclusione di ciascuno, a partire dai più fragili, soprattutto nelle aziende.

Ciascuno deve essere segno di speranza

Le Chiese in Italia, impegnate nel Cammino sinodale, continuano nell’ascolto dei lavoratori e nel discernimento sulle questioni sociali più urgenti: ogni comunità è chiamata a manifestare vicinanza e attenzione verso le lavoratrici e i lavoratori il cui contributo al bene comune non è adeguatamente riconosciuto, come anche a tenere vivo il senso della partecipazione. In questa prospettiva, gli Uffici diocesani di pastorale sociale e gli operatori, quali i cappellani del lavoro, promuovano e mettano a disposizione adeguati strumenti formativi. Ciascuno deve essere segno di speranza, soprattutto nei territori che rischiano di essere abbandonati e lasciati senza prospettive di lavoro in futuro, oltre che mettersi in ascolto di quei fratelli e sorelle che chiedono inclusione nella vita democratica del nostro Paese.

Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace

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Concorso: Inno ACR 2024/2025

Mar, 05/03/2024 - 10:19

Cerchiamo l’autore che farà cantare e saltare tutti i ragazzi dell’ACR nel prossimo anno associativo!
Pensi che potresti essere tu?

Ebbene sì, il momento tanto atteso è arrivato: il contest dell’inno sta per cominciare!
È finalmente possibile iscriversi al Concorso per il nuovo Inno Acr che accompagnerà i bambini e i ragazzi di tutta Italia per l’Anno Associativo 2024/2025!

Vi invitiamo a mettere in moto la vostra creatività e a dedicare il vostro talento musicale e le vostre energie per realizzare il testo e la musica del prossimo inno. Il Tema del Concorso trova origine e riferimento nell’Iniziativa Annuale dell’ACR per l’anno 2024/2025 che ha come slogan: È
la tua parte!

La modalità di partecipazione è semplice e veloce: basta cliccare sul pulsante

Partecipa al concorso

fare il login o registrarsi al sito se si è nuovi utenti, e compilare i dati richiesti.

Compilati tutti i campi, cliccate “INVIA”. Nella pagina successiva potete scaricare il regolamento con tutto il materiale e le indicazioni necessarie per completare la vostra partecipazione al concorso e cimentarvi nella composizione!

La scadenza di presentazione dell’inno è fissata al 16/04/2024.

Non vediamo l’ora di ascoltare le vostre proposte musicali,
buon lavoro!

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La politica non resti sorda alle domande della società civile

Mar, 05/03/2024 - 07:00

Negli ultimi quindici anni le esportazioni di armi nel nostro Paese sono aumentate in modo considerevole. La vendita si è quintuplicata fino a oggi: ciò è avvenuto per una serie di accordi dei Governi di vario colore con i Paesi che ne hanno fatto richiesta. In particolare le armi sono andate a finire nei Paesi in guerra, quelli che non rispettano i diritti umani. Nel 2022 le autorizzazioni per la vendita e l’acquisto di armi in Italia hanno raggiunto un valore superiore ai 6 miliardi di euro, di cui quasi 5,3 miliardi in uscita dal nostro Paese. Le autorizzazioni per le esportazioni di armamenti sono cresciute del 15 per cento rispetto al 2021. I dati sono terribili. Questo è avvenuto perché la legge 185/90 aveva un piccolo comma che dichiarava che i Paesi con i quali l’Italia aveva preso accordi di cooperazione militare erano esclusi dalle restrizioni.

Chi si è mobilitato: l’appello alla coscienza dei parlamentari

Numeri e preoccupazioni crescenti sono stati presentati ieri durante una conferenza stampa (L’impegno dei cattolici a favore della legge 185/90. Un appello alla coscienza dei Parlamentari contro il falso realismo della guerra), in cui alcune associazioni della società civile – Azione Cattolica Italiana, Acli, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Movimento dei Focolari Italia, Pax Christi Italia, Agesci – e rappresentati del mondo del disarmo, tra i quali Alex Zanotelli, missionario comboniano, tra i promotori della legge 185/90, Maria Elena Lacquaniti, coordinatrice Commissione globalizzazione e ambiente della Federazione Chiese evangeliche in Italia  e Maurizio Simoncelli, cofondatore dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, hanno presentato alcune riflessioni in merito a due punti fondamentali della legge 185/90.

In particolare la preoccupazione che questo Governo voglia eliminare di fatto la legge attraverso delle modifiche che vanno ad emarginare innanzitutto l’Uama, Autorità nazionale-Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento, a favore di un comitato governativo che può deliberare tranquillamente senza alcuna restrizione o controllo in merito. E soprattutto la possibilità che venga eliminato l’elenco delle banche che investono in armi.

Un po’ di storia: la legge 185/90

La legge 185 del 1990 che regola l’esportazione di armi è una grande conquista della società civile italiana che ha visto parte dell’associazionismo cristiano impegnato in prima fila nella campagna Contro i mercanti di morte. L’appello lanciato partiva da un realistico dato di fatto: le armi italiane uccidevano (e uccidono) in tutto il mondo. Ed era facile esportare armi a tutte le parti in conflitto. La normativa è stata speso aggirata in tanti modi, durante questi oltre 30 anni di vita, ma è rimasta costantemente sotto attacco. 

Sono tanti gli interessi trasversali che la considerano un ostacolo all’espansione di un settore produttivo in forte competizione su scala planetaria nel contesto della guerra mondiale a pezzi. Lo testimonia la folta presenza delle aziende italiane nelle expo di armi come il “World Defense Show” che si è tenuto ad inizio febbraio in Arabia Saudita. 

Non smantelliamo la 185/90. E la politica riconosca le domande della società civile

«Il tentativo di procedere al progressivo smantellamento della legge 185/90 – dicono nel comunicato stampa le associazioni – sembra ormai avviato a compimento con il voto del Senato dello scorso 21 febbraio come denuncia Rete italiana pace e disarmo che ha avanzato proposte migliorative rimaste senza riscontro. Purtroppo siamo davanti ad uno scenario che avevamo previsto con la Conferenza stampa promossa alla Camera lo scorso 4 ottobre 2023 per affermare che salvare questa legge vuol dire applicare la Costituzione». 

«Alla vigilia del voto della Camera, che cambierebbe in peggio la legge, a cominciare dalla trasparenza sulle banche che finanziano il settore delle armi, sentiamo il dovere di rivolgere un ulteriore appello alla coscienza dei Parlamentari invitandoli a salvare e migliorare la legge 185/90 in nome della comune umanità che ripudia la guerra».

Il presidente di Ac: «la politica non resti sorda alle domande della società civile»

Per Giuseppe Notarstefano, intervenuto alla conferenza stampa, è fondamentale unirsi con tutte le nostre forze a chi cerca un’interlocuzione con il Governo per difendere il riferimento formativo «a cui non possiamo rinunciare nel nostra cammino di ricerca di una democrazia reale. Il contrario della guerra non è solo la pace, bensì la democrazia. Facciamola funzionare con presidi civici, etici, formativi, giuridici, politici».

Per Notarstefano il disarmo è un percorso che chiede di rinunciare all’utilizzo della guerra e a tutti gli strumenti che la favoriscono. Diamo voce a tutti quei giovani, ai gruppi, alle associazioni che si impegnano ogni giorno nell’artigianato della pace, come fa l’Azione cattolica.

È inaccettabile, conclude Notarstefano, «che la politica non resti sorda alle domande della società civile che arriva dal basso. La politica deve ritornare a battere un colpo. Papa Francesco ci ha chiesto di immaginare nuove revisioni del futuro. Questo è il momento. Proprio quando la speranza sembra vana, è importante portare avanti iniziative come queste».

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Europa, un progetto per il futuro

Lun, 04/03/2024 - 10:55

Settecentoventi deputati, provenienti da 27 Paesi, con 24 lingue differenti. Due sedi (Strasburgo e Bruxelles), circa 7mila dipendenti, 2mila assistenti parlamentari, un migliaio di funzionari dei gruppi politici. È un ritratto, in pillole, del Parlamento europeo, che gli elettori rinnoveranno dal 6 al 9 giugno (in Italia si voterà solo domenica 9). Dal 1979 l’Assemblea dell’Unione europea viene eletta a suffragio universale, mentre prima gli eurodeputati venivano nominati dai rispettivi parlamenti nazionali. 

Il prossimo giugno saremo chiamati dunque a plasmare il futuro della democrazia europea attraverso le elezioni, un momento importante in cui sarà possibile decidere collettivamente del nostro futuro europeo.

Per un voto consapevole

Quanti cittadini conoscono realmente (o almeno a grandi linee) le competenze del Parlamento europeo e il suo peso reale all’interno dell’architettura politica comunitaria? Quanti sanno le materie sulle quali può, e quelle su cui non può, legiferare l’Euroassemblea? Chi sa la differenza tra un regolamento, una direttiva o una risoluzione del Parlamento europeo? Chi ha idea di quale sia il bilancio (ovvero le risorse a disposizione) dell’Ue?

Ci si domanda se i cittadini chiamati alle urne possiedono gli elementi essenziali per esprimere un giudizio consapevole, dando il proprio voto a un partito piuttosto che a un altro, la preferenza a un candidato piuttosto che a un altro, sulla base della propria “idea di Europa” e di quella espressa e perseguita dai partiti e dai candidati in lizza.

Un evento dell’editrice Ave: Europa, un progetto per il futuro

È importante arrivare preparati a questo appuntamento democratico. L’Editrice Ave, in collaborazione con Indialogo, organizza per giovedì 7 marzo, alle ore 18, a Roma presso la Libreria San Paolo Conciliazione un incontro dal titolo Europa, un progetto per il futuro.

Partendo da due testi editi dall’Editrice – Scegliere l’Europa a cura di Gianni BorsaSalvare l’Europa di Enzo Romeo – sarà possibile riflettere sul significato di questa importante e necessario organismo politico.

All’evento saranno presente gli autori dei libri, con la moderazione di Vania De Luca, giornalista e vaticanista del Tg3.

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Un “noi” sempre più grande

Sab, 02/03/2024 - 07:00

Siamo ormai immersi nel cammino che ci sta portando alla XVIII Assemblea nazionale che celebreremo dal 25 al 28 aprile dopo aver incontrato con tutta l’associazione papa Francesco in Piazza San Pietro. Stiamo vivendo il cammino assembleare dentro il più ampio cammino sinodale che anche attraverso le nostre riflessioni e scelte vorremmo aiutare a tradursi in concretezza favorendo l’apertura a orizzonti di speranza. Abbiamo cercato di concretizzare nei nostri cammini particolari la traccia di riflessione, verso un “noi” sempre più grande, in sinossi alle indicazioni per la fase sapienziale del cammino sinodale che i nostri vescovi ci anno consegnato negli scorsi mesi.

Un cammino iniziato qualche mese fa

Quello iniziato qualche mese fa è stato un cammino in cui l’associazione ha cercato di ascoltare tutti i soci valorizzando l’unitarietà e la partecipazione anche ai simpatizzanti e a coloro che si sono un po’ allontanati dall’associazione, provando anche ad aprire il cammino ad altre aggregazioni con cui costruire alleanze sul territorio, nel desiderio di rispondere alla richiesta di papa Francesco di prenderci cura della costruzione di «noi sempre più grande».

Con questa riflessione desideriamo prenderci cura di questo nostro tempo e della vita comune di tutti, attraversare le sfide che siamo chiamati a vivere cercando di leggerne insieme i segni e provare a dare risposte alle domante “giuste” come già gli orientamenti di questo triennio ci invitavano a fare. È anche un cammino nel quale desideriamo ribadire con franchezza all’associazione e con propositività alla Chiesa e alla società come la vita associativa oggi possa essere capace di corrispondere alle sfide pastorali, culturali e sociali che stanno caratterizzando questo cambiamento d’epoca.

Il cammino assembleare: verso un “noi” più grande

Il nostro cammino assembleare sta cercando di essere un cantiere di formazione spirituale e progettazione associativa e lo fa partendo da tre punti che abbiamo individuato come basilari: parola e discernimento, ascolto e dialogo, missione e generatività.

Queste dimensioni sono fondamentali per essere Ac in questo tempo, sono i modi che abbiamo per stare nel mondo e le chiavi di lettura di tutto ciò che facciamo o che siamo chiamati a fare, le “lenti” necessarie per fare discernimento prima di fare scelte operative


La Parola ci aiuta nel discernimento e nella capacità di essere accoglienti e inclusivi. L’ascolto della Parola e il discernimento alla luce dello Spirito ci condurranno a intraprendere percorsi per essere aperti alle novità e alle potenzialità di bene e di inclusione: se lasciamo che lo Spirito “danzi” in mezzo a noi sapremo rappresentare una metafora vivente di Chiesa che accoglie e ama.

Questo sarà possibile attraverso l’ascolto e il dialogo che diventano per noi laici di Ac un atteggiamento contemplativo fondamentale con cui abitare il tempo e nel quale saper sentire la voce del Signore e prenderci cura dei fratelli che ci sono affidati.

Lo stile che in tutto questo siamo chiamati a vivere è quello della missione e della generatività consapevoli che una missione che si fa generativa educa alla responsabilità, al dialogo e all’incontro, ci fa essere significativi nel contesto sociale, ci invita a coinvolgere più persone possibili nell’«organizzare la speranza» (don Tonino Bello) verso una conversione pastorale profonda.

Altre aree di impegno

A partire da queste chiavi di lettura ci sono le aree di impegno che sentiamo prioritarie oggi e che vorremmo leggere alla luce di questi punti di partenza: persone e comunità, comunione e responsabilità, formazione e cultura, spiritualità e sinodalità.

Pensando alla comunità e alle persone che la costituiscono nostro compito è quello di creare relazioni significative che ci permettano di aiutare le nostre parrocchie a essere volto della comunità credente nel territorio. In questo rinnoviamo l’impegno a sostenere la vita comunitaria e lo slancio missionario perché la Chiesa sia casa per tutti.

Prendersi cura gli uni degli altri

Come discepoli missionari il nostro modo di vivere è caratterizzato dalla correlazione di comunione e responsabilità che ci chiama a vivere la responsabilità non come un ruolo passeggero ma come méta e che diviene uno stile che ci rende più responsabili anche altrove, in ogni ambiente di vita, rendendo viva un’associazione di persone che si prendono cura le une delle altre.

Vivendo pienamente ogni ambiente di vita siamo pronti a confrontarci con le istanze sociali e culturali del nostro tempo, cercando di condividere degli strumenti concreti e accessibili, utili a cercare delle risposte ai bisogni effettivi del territorio in un contesto frammentato, fragile e in continuo cambiamento.

Non in fondo ma alla base di tutto questo c’è il bisogno di coltivare la spiritualità laicale. Desideriamo che l’Ac sia un luogo in cui, attraverso la cura costante della fede e l’affidamento profondo all’azione allo Spirito, ogni persona riesca a trovare i mezzi che permettano di guardare agli ostacoli, non come limiti, ma come sfide di crescita e testimonianza. In questo senso, la stagione sinodale che stiamo attraversando è particolarmente proficua perché ci abitua a fare l’esercizio di camminare insieme sotto la guida dello Spirito. 

Questi ingredienti, insieme alla generosità di tanti soci nel mettersi a disposizione con spirito di gratuità nei diversi servizi di responsabilità per il prossimo triennio, caratterizzano questo cammino assembleare che vorremmo consegnare a papa Francesco e a tutta la Chiesa in A Braccia aperte, l’incontro nazionale del prossimo 25 aprile. 

*segretario generale di Ac

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Boccate di ossigeno all’Azione cattolica

Gio, 29/02/2024 - 07:00

Finiti gli anni dell’Acr (Azione cattolica dei ragazzi) non ebbi molti dubbi, e iniziai a frequentare l’Azione cattolica. In realtà la mia parrocchia offriva anche l’alternativa della Gi.Fra., la Gioventù Francescana, ma era con l’Ac che potevi diventare animatore, e questo per me fu decisivo.

All’epoca ero al ginnasio, e imparai abbastanza presto che non era opportuno sbandierare questa mia appartenenza. Non si trattava più delle prese in giro grossolane delle medie perché avevo i piedi a banana, a quelle lì tutto sommato ci avevo fatto il callo. Non ero però pronto a certe frecciatine, sottili e taglienti, di qualche compagno o compagna, e soprattutto di qualche docente, sul mio essere cattolico. «Basabanchi» era l’appellativo meno scottante. Una volta dovetti portare al professore della prima ora la giustificazione per un’assenza: la motivazione, scritta nella grafia ordinata di mio padre era: «Adunata Azione cattolica». Il professore lesse, poi mi chiese se mi avevano fatto cantare O bianco fiore. Io non sapevo di cosa stesse parlando, e rimasi zitto. Ma il tono della domanda presupponeva una risata, e tra i banchi ci fu qualche risolino. Non pago, mi chiese se sapevo la differenza che corre tra basilica e cattedrale. Di nuovo scena muta da parte mia, di nuovo risatine tra i banchi.

Non biasimavo i miei compagni, tiravano a campare, e anch’io, al loro posto, avrei assecondato le richieste implicite del docente. Mi stupiva invece capire che l’insegnante stava facendo dell’ironia su di me. Mi feriva, certo, ma prima di tutto mi stupiva, perché non avrei mai pensato che un adulto potesse perdersi dietro a queste cose. Mi sbagliavo. Ho conosciuto parecchie persone che si sono allontanate della fede, o comunque dalla pratica religiosa, negli anni delle scuole superiori. Alcune di queste persone, nel dirmi come a un certo punto avevano «aperto gli occhi», si dicevano addirittura grate ai loro professori per averle «svegliate fuori».

Non credo di aver mai corso questo rischio, e non perché la mia fede fosse particolarmente salda, tutt’altro, il dubbio è sempre stato un compagno fedele. Molto semplicemente: all’Ac stavo bene, avevo degli amici, avevo, talvolta, l’impressione di fare del bene agli altri. A scuola me la facevo sotto. Il momento del gruppo settimanale mi offriva delle boccate di ossigeno, ma, e me ne resi conto solo anni dopo, non era tanto per quello che facevamo. Si discuteva di tematiche adolescenziali, talvolta si facevano progetti di piccolo volontariato. Cose belle, certo, ma non così rilevanti. La cosa davvero importante per me era lo stare assieme, lì.

Ricordo distintamente che un mattino, in quinta ginnasio, passando davanti alla cattedra alla quale stava seduta la professoressa di Greco, provai l’impulso naturale di genuflettermi. Mi dovetti trattenere, ma la cosa mi preoccupò parecchio. Non era stata una mossa ragionata, mi era venuta d’istinto. Paradossalmente quel fatto segnò un punto di maturazione. Sì perché se ci ripensavo, mi veniva da ridere: insomma, con tutta la paura che mi faceva, la prof non era certo Geova, mica poteva mandarmi le piaghe d’Egitto, al massimo poteva bocciarmi, che sì, era una cosa brutta, ma mica la più brutta del mondo.

Quel fatto cambiò un po’ le prospettive a mio favore, perché mi rendevo conto che la scuola, con le sue verifiche e i suoi voti, era in realtà una parentesi rispetto ai momenti nei quali mi sentivo realizzato, ossia l’incontro con i miei coetanei e, ancora di più, l’animazione dei bambini dell’Acr. Credo che sia stato quello una delle svolte più importanti della mia adolescenza.

Al sabato sera uscivo con gli amici, come tutti, ma al sabato pomeriggio giocavo con i bambini, spiegavo loro le regole, cercavo di farli ridere. Mica tutto rose e fiori, all’epoca ci buttavano dritti nella fossa dei leoni senza alcuna preparazione, e ho commesso tanti errori. Inoltre c’erano sì animatori più grandi di me con capelli lunghi e orecchino, che suonavano in gruppi musicali, facevano sport… Ma c’erano anche animatori che, per il loro linguaggio controllatissimo e l’abbigliamento castigatissimo, e l’insopprimibile capacità di attaccare delle lunghe omelie in ogni occasione, non andavano proprio a nozze con le prospettive di un adolescente. Mia madre diceva «li xe pì preti del prete», e così io e alcuni amici li avevamo definiti «iperpreti». Ma non provavo antipatia nei loro confronti, anche se possibilmente mi tenevo alla larga da loro: erano parte del contesto, interpretavano un ruolo previsto, riconosciuto, che dava stabilità al fondale su cui ci muovevamo. Insomma al gruppo ci stavo bene, e frequentarlo mi permetteva di vivere meglio le fatiche del ginnasio.

L’aspetto centrale per me non era la preghiera: certo c’erano i momenti di raccoglimento e spiritualità, ma li vivevo come la preghiera prima dei pasti, una cosa da fare velocemente mentre con lo sguardo e le narici sei già agli spaghetti fumanti davanti a te. La cosa bella per me era lo stare assieme, e il poter dire la nostra, anzi, l’essere incoraggiati a farlo, cosa che a casa e a scuola non sempre riusciva facile.

Ma c’era una differenza ancora più importante tra il ginnasio e il gruppo dell’Ac: come credo sia capitato a tanti studenti liceali, anch’io mi sono dovuto sorbire, in più occasioni durante i cinque anni, discorsi mirati a inculcarci la convinzione di essere una sorta di «crema» della società. Tra di noi sarebbero emersi i «quadri» dirigenti del Paese, noi eravamo «il meglio» della scuola italiana. Le parole virgolettate sono esattamente quelle usate da alcuni tra i miei insegnanti.

Per fortuna avevo ogni settimana un contraltare che mi teneva coi piedi per terra: al gruppo c’erano ragazze e ragazzi impegnati in ogni percorso scolastico. Uno dei miei più cari amici dell’adolescenza è stato bocciato per due anni di fila all’istituto professionale, e non mi sono mai sentito «superiore» a lui, anzi: quando prendevo cinque mi pareva che mi crollasse il mondo addosso, lui passava attraverso i suoi insuccessi scolastici con spavalderia e noncuranza, e la cosa mi suscitava invidia. Beh, all’epoca lui aveva la ragazza e io no. Ecco, anche questo mi suscitava invidia.

Oltre alle aule del liceo, l’unica altra occasione nella quale mi è stato fatto un discorso che aveva a che fare con «la crema» e con «il meglio» è stato dopo la visita militare, quando noi abili «di prima» fummo raccolti in una saletta appartata della caserma, e un ufficiale, dopo averci fatto scattare sull’attenti, ci fece un lungo discorsetto su quanto fossimo importanti per le forze armate.

Da qualche parte devo aver tenuto le tessere dell’Ac, ma devo dire che gli aspetti strutturali dell’associazionismo, le adunate diocesane o vicariali non mi interessavano più di tanto. Per me, e credo per molti ragazzi della mia età, l’Ac era il posto degli amici, le due ore a settimana in cui tirare il fiato, parlare tra pari, stare con degli adulti che ti accompagnavano senza giudicarti. Due ore in cui non avere paura. Non è cosa da poco quando hai quindici anni.

Articolo pubblicato su L’Osservatore Romano del 24 febbraio 2024

Il sito ufficiale di Paolo Malaguti

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Con i manganelli non c’è futuro

Mar, 27/02/2024 - 11:07

Non c’era niente da capire. Vogliamo partire dicendo questo: la responsabilità in merito alle vicende che hanno visto coinvolti gli studenti e le forze dell’ordine a Pisa e Firenze è chiara e quanto abbiamo visto e sentito attraverso le testimonianze dei presenti ci porta a esprimere la nostra ferma e condivisa condanna per l’accaduto. L’esercizio del diritto a esprimere la propria opinione in maniera pacifica non può in alcun modo rappresentare un pretesto per la violenza, soprattutto da parte di chi è chiamato a garantire la sicurezza di tutti i cittadini. 

Con i manganelli non c’è futuro

In questi giorni sono state dette molte cose, molti si sono stretti attorno agli studenti e alle studentesse vittime di quanto accaduto. Su tutti il Presidente della Repubblica ha ricordato che «con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento»: parole che rispecchiano ancora una volta con forza e lucidità il nostro pensiero. 

Richiesta di giustizia, impegno nell’educazione

Ma oggi, che è cominciata una nuova settimana e tutti andiamo avanti con le nostre vite, cosa ne sarà di quanto successo? Viviamo in un mondo in cui il consumismo sfrenato ha divorato anche l’informazione e già oggi nelle nostre bolle social e sociali degli ingiustificati scontri di Pisa e Firenze sentiamo parlare meno.

Domani saranno spariti dalle notizie, oppure verranno relegate al sesto servizio del Tg o a un trafiletto di pagina ventiquattro di un quotidiano. 

È per questo che scriviamo proprio ora, perché desideriamo rilanciare e rileggere quanto successo, perché dopo la rabbia e l’indignazione resti qualcosa: richiesta di giustizia, assunzione di consapevolezza, impegno nell’educazione.

Il nostro Appello

Vogliamo cogliere l’occasione di queste vicende per fare un appello come giovani all’Italia, e a chi ha la responsabilità politica dei fatti degli ultimi giorni. 

Chiediamo, intanto, che non ci si dimentichi di quanto successo e che si continui, insieme, a chiedere giustizia.

Chiediamo giustizia perché chi detiene il monopolio dell’uso legittimo della forza deve essere pienamente consapevole della responsabilità che esercita. 

Occorre assumere la consapevolezza che qualsiasi giustificazione di fronte all’accaduto (e in questo caso affermiamo con certezza che non ce ne sia nemmeno una) perde di significato, perché la democrazia è l’unico sistema di governo in cui la forma dell’esercizio del potere è parte integrante del suo contenuto e della sua sostanza.

Chi ha sbagliato, paghi. Perché con i manganelli non c’è futuro

Allora oggi condanniamo chi, anziché custodire l’ordine pubblico, l’ha turbato, commettendo un atto intollerabile che deve essere sanzionato.

Occorre che il nostro Paese si assuma l’impegno di mettere in discussione il sistema educativo anche delle forze armate. Il loro addestramento, infatti, deve tornare alle fondamenta della democrazia ed essere in grado di sapere respingere psicologicamente e fisicamente qualsiasi forma illegittima di esercizio della forza.

Sarà necessario che questo impegno educativo non venga utilizzato come bandiera di posizionamento partitico ma come serio impegno per il futuro del Paese. 

Grazie a chi era in piazza

Ai giovani feriti, doloranti, spaventati dalla violenza subita, rivolgiamo la nostra vicinanza, il nostro incoraggiamento e il nostro ringraziamento.

Sì. Ai nostri coetanei che erano in piazza vogliamo dire grazie perché ci hanno ricordato quanto sia importante esprimere pacificamente le proprie idee, nonostante tutto. Auspichiamo che questo evento non sconforti il loro e il nostro desiderio di partecipazione e di giustizia, affinché possano essere esempio per la nostra generazione verso un continuo impegno per un mondo più giusto e umano. 

L’Italia riscopra sempre più il senso dell’essere comunità

Sogniamo un’Italia in cui la partecipazione dei giovani venga accompagnata dalle Istituzioni, un’Italia in cui lo Stato non svigorisca mai il pensiero critico che fa discernere e prendere una posizione, aiutando a scegliere da che parte stare.

Sogniamo un’Italia che riscopra sempre più il senso dell’essere comunità, in cui giovani e adulti, siano capaci di vibrare per la sofferenza del mondo. Oggi più che mai occorre sentire la responsabilità per il bene di ogni essere umano. La violenza non è e non deve mai essere l’ultima parola, e noi ci crediamo ancora.

*Emanuela Gitto, Lorenzo Zardi, Carmen Di Donato, Tommaso Maria Perrucci, Lorenzo Pellegrino, Ludovica Mangiapanelli

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Fra vangelo e umano

Lun, 26/02/2024 - 10:05

L’anniversario dell’evento/convegno passato alla storia come “sui mali di Roma”, ma che in realtà intendeva riflettere sulla responsabilità dei credenti nei confronti delle attese di carità e giustizia della diocesi del Papa, sta costituendo un pre-testo, onde poter avviare un processo di ascolto, dialogo e confronto su tematiche particolarmente significative e che, insieme a motivi di preoccupazione per le loro criticità, possono offrire anche motivi di speranza.
Dopo un momento introduttivo, celebrato in vicariato il 19 febbraio scorso, che ha visto come protagonisti Andrea Riccardi, Giuseppe De Rita, Luigina Di Liegro e Giustino Trincia, si intraprenderà un cammino, a scadenza mensile, con assemblee in diverse zone periferiche della città e in luoghi significativi intorno alle tematiche della scuola, della sanità, della casa e del lavoro. Il tutto si concluderà in autunno con un momento sintetico a carattere culturale, nella basilica di San Giovanni in Laterano, dove si sono svolte riunioni di carattere generale del convegno di mezzo secolo or sono.
In tal modo si intende attuare quanto papa Francesco in più occasioni ha sottolineato: piuttosto che celebrare eventi e occupare spazi, bisogna attivare processi.

Una Chiesa che sa immergersi nei processi della città

A tal proposito, dall’incontro del 19 febbraio è emersa la necessità per la Chiesa di Roma di immergersi nei processi in cui è coinvolta la città nelle sue diverse componenti, piuttosto che farsi interlocutrice di istituzioni socio-politiche, capaci di promettere, ma molto raramente di mantenere, propositi di soluzione delle problematiche.
Le iniziative sono pensate e coordinate in un tavolo di lavoro, che vede partecipi la Caritas romana, la fondazione don Luigi Di Liegro, la comunità di S. Egidio e i diversi servizi pastorali del vicariato che si occupano delle singole tematiche da affrontare. L’intenzione è quella di proporre il coinvolgimento dell’intera comunità diocesana in un cammino certamente arduo, ma anche decisamente ricco di fascino, in modo che non siano le singole realtà ad accaparrarsi le iniziative, ma si attui fra loro un’autentica sinergia, nello spirito della sinodalità.

Il carattere di “Chiesa locale” della diocesi di Roma

Come ho avuto modo di sottolineare in diverse occasioni, e in particolare nella conferenza stampa che ha preceduto il primo evento e in una lettura teologica proposta sulla rivista on line “Settimana news” (https://www.settimananews.it/chiesa/cinquantanni-dal-convegno-sui-mali-di-roma/), il carattere di “Chiesa locale” della diocesi di Roma, che rischia di diluirsi nei meandri dell’universalismo, emerge con chiarezza (e forse per questo è risultato a molti presbiteri e vescovi ostico) nella riforma che è stata avviata con la costituzione apostolica In ecclesiarum communione, promulgata il 6 gennaio 2023 e che con notevole fatica si sta cercando di attuare.
Le obiezioni, prevalentemente di carattere giuridico, avanzate nei confronti delle scelte che questo documento propone, svaniscono di fronte alle istanze innovative, che si possono scorgere nel testo e in particolare riguardo al ruolo dei vescovi (vicegerente ed ausiliari), cui viene riconosciuta per il territorio cui sono preposti (e per il vicegerente per l’intera diocesi) potestà di giurisdizione. Si tratta di un notevole passo avanti anche rispetto agli esiti di febbraio ’74. In questo senso il cammino intrapreso nell’attuazione della riforma e queste iniziative potranno, e direi dovranno, risultare paradigmatici per l’intera comunità ecclesiale a livello mondiale e nazionale.

Esempio di Partecipazione e sinodalità

Questa opzione fondamentale esige la comunione fra i vescovi, che dovrebbe esprimersi nel consiglio episcopale e richiama la sinodalità. Questa attitudine il convegno di cinquant’anni fa l’ha vissuta pienamente, vedendo tra gli altri la partecipazione attiva di personaggi quali Luciano Tavazza, Pietro Scoppola, l’abate Franzoni, don Roberto Sardelli, Vittorio Bachelet ecc. La grande libertà e onestà intellettuale che si è espressa in quella occasione è stata motivo di diffidenza sia da parte delle forze politiche che all’epoca governavano la città, sia da parte della Segreteria di Stato, la cui figura determinante era il sostituto Giovanni Benelli.

I mali di ieri e di oggi da contrastare con spirito profetico

La determinazione del cardinale Ugo Poletti, che si avvaleva della collaborazione di don Luigi Di Liegro e padre Clemente Riva, con il sostegno di Paolo VI, ha consentito non solo la celebrazione di un evento, ma l’assunzione di uno stile di dialogo, discussione, ascolto, successivamente presto dimenticato o archiviato.
Nella famosa opera Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa il beato Antonio Rosmini indicava, fra l’altro, nella separazione del clero dal popolo (prima piaga) e nella divisione dei vescovi fra loro (la piaga letale del costato) due profonde criticità o “mali” della comunità credente che dobbiamo ahinoi riscontrare particolarmente attuali e che richiedono impegno di riflessione e di azione onde non rassegnarsi a quella che più volte nell’incontro del 19 febbraio è stata denominata la “cultura del declino”, che siamo chiamati a contrastare con rinnovato entusiasmo e spirito profetico.

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Una testimonianza «da scrivere col sangue»

Dom, 25/02/2024 - 07:00

Gli studi più o meno recenti che hanno posto al centro della loro indagine la partecipazione dei cattolici alla Resistenza concordano nell’affermare che il contributo offerto dal laicato cattolico organizzato al movimento di liberazione fu di assoluto valore. Visto che, come dimostrano anche cifre e testimonianze raccolte, naturalmente per difetto, nella documentazione archivistica, decisamente considerevole fu il numero di soci, socie e assistenti che si spesero attivamente nella lotta partigiana e che persero la vita nel corso dei mesi di occupazione nazifascista.

Per giustizia e per amore

Se dopo la ratifica dell’armistizio dell’8 settembre in molti contesti divenne pressoché impossibile per l’Azione cattolica continuare a svolgere ufficialmente le proprie attività e rispettare gli appuntamenti associativi senza cadere nella perniciosa vigilanza nazifascista, i soci si impegnarono per rinsaldare i vincoli associativi e per consolidare i legami assicurati dalla comune adesione agli stessi ambienti e ai medesimi valori culturali e religiosi. In diversi casi, a dare al loro processo decisionale una spinta verso l’opzione armata contro l’occupante fu proprio questa nuova rete associativa .
L’esponente democristiano Benigno Zaccagnini, ricordando la sua esperienza e quella del gruppo che ruotava intorno alla sua carismatica figura, delineava brevemente i dubbi e le paure che avevano colpito molti soci dopo l’8 settembre: «Cominciammo a tessere le nostre file […]. Ma quante discussioni! Potevamo essere dei ribelli? Era lecita la rivolta? Era lecita quella particolare forma di guerra che era la guerra partigiana? Noi non potevamo agire né per vendetta, né per calcolo, né per odio, ma solo per giustizia e per amore. Si poteva entrare in quella bufera scatenata di vendetta, di delazioni, di sabotaggi, di distruzioni con la divisa dell’amore? Si poteva essere, come la preghiera diceva, ribelli per amore? La necessità dell’azione, dell’organizzazione, dei collegamenti soverchiavano spesso in pratica questi nostri tormenti, ma le domande ci tornavano insistenti in fondo alla coscienza» (La resistenza fu sacrificio e rischio affrontati per giustizia e amore, in «Ricerca», 11 (1955), 8-9, pp. 1-2).

La tela associativa e l’opera nella Resistenza

Il dato della comune militanza nell’associazione, quindi, fu un elemento che alcuni soci utilizzarono come grimaldello per forzare la propria coscienza e superare i propri indugi ad entrare tra le file delle formazioni partigiane. I gruppi di giovani legati dalla condivisione di spazi, legami, educazione e riflessioni propri della formazione ricevuta nei circoli dell’Azione cattolica vennero strutturando, in molti contesti, delle vere e proprie collettività ristrette che reagirono in maniera consequenziale all’elaborazione fatta tra la cerchia degli aderenti. La tela associativa svolgeva dunque una funzione protettiva verso il singolo e forniva un forte e preciso elemento identitario a cui aggrapparsi per iniziare (o continuare) la propria opera nella Resistenza.
In questo senso, sembra opportuno dare ulteriore rilevanza a tutte quelle testimonianze di adesione ideale verso l’associazione che molti giovani decisero di fissare negli ultimi scritti al momento della loro condanna a morte o, addirittura, poco prima di morire in battaglia. L’ultimo atto di lealtà, compiuto di fronte al sacrificio più estremo, era in fondo un modo per sottolineare quella comunanza di valori che essi ritennero di aver assorbito durante gli anni di formazione nei circoli associativi della loro città e di aver ricondotto, riadattandoli alle esigenze dei tempi, anche nel loro impegno nella lotta contro l’occupante nazifascista.

Ti ringrazio per avermi chiamato a far parte dell’Azione Cattolica

Tra le storie più note, in questo senso, vi fu quella di Luigi Pistoni, detto Gino, nato a Ivrea il 25 febbraio 1924 e cresciuto nel circolo Giac «Contardo Ferrini» interno al collegio «San Giuseppe» di Torino. Fin dalla giovinezza, distintosi per capacità e dedizione, venne chiamato a collaborare con il Centro diocesano della Gioventù cattolica di Ivrea. Del quale divenne successivamente segretario, avendo la possibilità di lavorare a stretto contatto con il presidente Giovanni Getto, che diverrà il suo primo biografo nel dopoguerra, e l’assistente don Mario Vesco.
Non ancora ventenne, nel gennaio del 1944 venne richiamato per il servizio militare da uno dei bandi di reclutamento emessi dalla Rsi. Prima di recarsi in caserma per arruolarsi nella Guardia nazionale repubblicana ebbe modo di partecipare ad Asti al ritiro regionale della Giac per i dirigenti piemontesi, dove conobbe Carlo Carretto che lo invitò a prendere parte alle attività della Società operaia, un sodalizio di speciale consacrazione laicale fondato nel corso del 1942 da Luigi Gedda, nella quale entrò il 7 aprile di quello stesso anno, in occasione del Giovedì Santo. Nella preghiera che compose per l’ingresso, tra l’altro, ebbe a scrivere: «Ti ringrazio per avermi chiamato, due anni fa, a far parte dell’Azione Cattolica, e di aver dato alla mia vita, prima di allora veramente vuota, uno scopo che la rendesse degna di essere vissuta».

Il no all’esercito repubblichino e la lotta partigiana

Dopo un brevissimo periodo di formazione militare e aver prestato servizio al distretto di Ivrea dal 30 aprile al 26 giugno del 1944, decise di abbandonare il proprio posto tra le fila dell’esercito repubblichino perché contrario ai valori che esso rappresentava e propagandava e di raggiungere le formazioni della Resistenza. Si unì quindi al battaglione «Caralli» della 76ª brigata della VII divisione Garibaldi, assumendo il nome di battaglia di «Ginas» e operando nella zona del Mombarone.
Il 25 luglio, mentre partecipava a un’azione nella valle di Gressoney, il suo reparto dovette ingaggiare un duro combattimento contro le truppe nazifasciste che ripiegavano dopo aver fatto saltare il ponte di Tour D’Héreraz. Durante la battaglia, mentre i suoi uomini cominciarono ad arretrare, Pistoni si attardò per aiutare un milite della Rsi ferito. Nel conflitto a fuoco che ne scaturì, una scheggia di mortaio lo raggiunse e gli recise l’arteria femorale mettendo fine alla sua esistenza dopo pochi minuti di agonia. Nel brevissimo lasso di tempo che ebbe a disposizione in attesa della morte, Gino volle scrivere sulla tela del suo tascapane un ultimo messaggio con il sangue che perdeva copiosamente: «Offro mia vita per Azione cattolica e per Italia, Viva Cristo Re».

La consapevolezza di dover operare per la salvezza del prossimo

Si trattò, forse, di un caso limite in cui la consapevolezza di dover operare per la salvezza del prossimo spinse al sacrificio personale per dare aiuto al proprio nemico sul campo. Ma fu, in verità, la rappresentazione di quello che significava per un cattolico scendere in battaglia dimostrandosi pronti persino a morire pur di non derogare al sentimento di pietà verso il prossimo.
La sua testimonianza in punto di morte getta ulteriore luce anche sull’apporto dato dalla più grande associazione laicale presente nel paese in quel periodo, nonché l’unica ufficialmente attiva in Italia fuori dalle organizzazioni fasciste, al processo che portò i suoi aderenti a definire una specifica coscienza resistenziale anche attraverso un costante e determinante richiamo a quanto appreso nei circoli associativi. Non era raro, infatti, che i soci, anche negli ultimi momenti che precedevano la loro morte in battaglia o nei campi di concentramento, sentissero il bisogno di dover esprimere ai cari la propria riconoscenza per quanto ricevuto negli anni trascorsi nei circoli dell’Azione cattolica o il desiderio di dare un ultimo segnale della propria appartenenza all’associazione.

Gino Pistoni: un uomo di Ac, un “ribelle per amore”

Del sacrificio di Gino Pistoni venne fatta memoria anche nel dopoguerra. Nella stampa associativa, dove venne ricordato come uno degli assertori più convinti della necessità di combattere senza odiare il nemico, anche fino al sacrificio della propria vita. Luciano Tavazza ne descriveva in questo modo gli ultimi istanti di vita: «Distese il sacchetto su una pietra, fino a farne un bianco fazzoletto, intinse un dito nella ferita aperta e cominciò a scrivere col suo sangue: “Offro mia vita per Azione Cattolica. Italia”. Gli si annebbiavano gli occhi. Aggiunse: “Viva Cristo Re” e si accorse d’aver scritto per traverso, malamente, ma non gli importava più nulla.
Aveva scritto l’ultima sua lettera, una delle tante della resistenza, senza una parola di odio. Perciò aveva usato il verbo “offro”, perciò era sceso al ponte a salvare il “marò”, perciò aveva scelto la via dei monti e della libertà» (Gino Pistoni. Caduto per la libertà, in «Il Vittorioso», 18 (1954), 17, p. 6). Un “ribelle per amore”, dunque, che preferì scegliere l’estremo sacrificio pur di dare testimonianza dei valori e insegnamenti introiettati anche nel percorso formativo e di militanza in Azione cattolica.

Per conoscere e approfondire il contributo dato alla Resistenza dai soci, dalle socie e dagli assistenti di Azione cattolica si consiglia il portale Biografie Resistenti. Lanciato dall’Isacem-Istituto per la storia dell’Azione cattolica e del movimento cattolico in Italia Paolo VI il 25 aprile del 2020, in occasione del 75° anniversario della Resistenza.

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Ucraina. È l’ora di aprire alla pace

Ven, 23/02/2024 - 09:38

L’invasione russa dell’Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022 ha compiuto due anni. Sono passati invece dieci anni dall’invasione e annessione della Crimea nel febbraio 2014. La guerra ha lasciato una scia incommensurabile di vittime, soprattutto civili innocenti, ma anche di soldati morti e gravemente feriti, oltre a grandi fenomeni di sfollamento e rovina economica impressionante. Che speranze ci sono di trovare una soluzione al conflitto o almeno di dare speranza alla pace?

I fatti e gli effetti del conflitto in Ucraina che passeranno agli annali delle tante guerre “inutili” del nostro tempo sono tristemente deplorevoli. Il numero delle vittime civili, dei morti e feriti militari nei due eserciti, degli sfollati interni e dei rifugiati all’estero si sommano agli altri “danni collaterali” in gran parte intenzionali.

Le stime della Banca Mondiale suggeriscono che la devastazione dell’economia ucraina è stata imponente. Il Pil dell’Ucraina si è contratto di oltre un terzo (35%) già nel primo anno. La distruzione delle infrastrutture, l’interruzione della produzione e del commercio e lo sfollamento di massa della popolazione hanno paralizzato l’economia nazionale.
La Kyiv School of Economics stima che il costo totale dei danni infrastrutturali abbia superato i 130 miliardi di dollari alla fine del 2022. Queste stime suggeriscono che gli sforzi di ricostruzione dopo la guerra richiederanno ingenti risorse per diversi decenni. Il conflitto, combinato con le pesanti sanzioni economiche occidentali contro la Russia, ha causato un esplosivo effetto domino su molti altri settori economici a livello internazionale, compresi forti aumenti dei prezzi globali dell’energia e una grave crisi della sicurezza alimentare, soprattutto nei paesi poveri. Di contro, si è registrato un flusso senza precedenti di aiuti militari occidentali alle forze armate ucraine e grandissime spese di armamento dell’esercito russo, con un totale stimato superiore a 150 miliardi di dollari andati in fumo.
I più importanti centri internazionali di studi sui conflitti hanno realizzato ricerche sulle possibili soluzioni del conflitto Russia-Ucraina. Alcuni di essi, tra i quali il Friends Committee della Chiesa Quacchera, la Chatam House e il Woodrow Wilson Centre, pur ricordando che tutte le invasioni in epoche recenti sono finite presto o tardi con il ritiro degli invasori, fanno notare che nessuna delle soluzioni più comuni che si sono viste in altre invasioni armate sembra avere buone probabilità di realizzarsi. Allo stato attuale delle cose, risulta estremamente improbabile un’affermazione militare di uno dei due contendenti; un congelamento di una divisione del territorio sul modello del “cessate il fuoco senza pace” (come in Corea) avrebbe l’unico risultato di rendere multi-decennale il conflitto.

Sono state proposte diverse altre soluzioni che si potrebbero realizzare attraverso un ampio lavoro di negoziati diplomatici. Tra tali proposte sono comprese un nuovo assetto condiviso della sicurezza in Europa, che sostituisca progressivamente quello attuale che vede due blocchi contrapposti, l’ipotesi di un libero referendum nelle zone contese dopo tre anni dal ritorno di tutta la popolazione che vi abitava, con una amministrazione Onu provvisoria, una dichiarazione di neutralità dell’Ucraina, e altre idee simili, come il disarmo e l’autonomia delle zone contese con l’interposizione dei caschi blu delle Nazioni Unite. La difficoltà più grande sarebbe quella di dare credibilità a questi processi, che richiederebbero comunque un tribunale sui crimini di guerra e un’affidabile rassicurazione russa della rinuncia a una nuova iniziativa militare in caso di nuovi dissensi che potrebbero emergere.
Quale buona pratica rimane dunque fattibile per costruire la pace o almeno tenere viva la speranza di accelerarne l’avvento? L’apertura di negoziati ufficiali presso la sede Onu di Ginevra o in un altro Paese terzo offrirebbe spazi concreti alla speranza di pace. Permetterebbe un dialogo su tutti i punti che finora sembrano ostacoli insuperabili e aiuterebbe a identificare tutte le mosse possibili. Inoltre, il valore esemplare di tale pratica a livello internazionale, potrebbe replicarsi anche in altre aree. Anche se forse tali negoziati potrebbero durare anni, sono sempre preferibili allo status quo, in cui parlano solo le armi.

Il dibattito politico, che crescerà nei prossimi mesi, in occasione delle elezioni del Parlamento europeo, del Presidente e del Parlamento degli Stati Uniti e del Parlamento britannico, dovrebbe dare un segnale forte e unanime nel richiedere l’apertura di tale negoziato di pace. In particolare, sia l’Unione Europea sia gli Stati Uniti potrebbero offrire forti incentivi economici e politici per convincere Russia e Ucraina a partecipare al negoziato di pace, cercando ad un tempo il coinvolgimento e l’appoggio della Cina. Siamo consapevoli che l’orientamento politico che nascerà da queste tre grandi consultazioni democratiche avrà un impatto decisivo sulle risoluzioni che prenderà la Comunità internazionale su questo conflitto ormai decennale, ma riteniamo che non sia più rinviabile l’attivazione coraggiosa di una nuova stagione di cooperazione e dialogo internazionale che promuova una nuova architettura di pace che ponga al suo cuore la scelta della democrazia.

In tale direzione come laici credenti, impegnati particolarmente a livello ecclesiale, sentiamo il dovere di svegliare le coscienze, appellarci alle istituzioni e operare quotidianamente per la fraternità e l’amicizia sociale. Come Francesco, nel suo discorso al Corpo diplomatico dello scorso 8 gennaio, crediamo che «il dialogo dev’essere l’anima della Comunità internazionale»; e «per rilanciare un comune impegno a servizio della pace, occorre recuperare le radici, lo spirito e i valori» che hanno originato gli Organismi internazionali «creati per favorire la sicurezza, la pace e la cooperazione».

«La guerra è una sconfitta: ogni guerra è una sconfitta!», ha gridato al mondo papa Bergoglio. Lo è per coloro che la combattono, senza trovare altre vie se non quella delle armi, ma è tale anche per tutti coloro che restano a guardare, vi si rassegnano impotenti, facendo poco o nulla per fermarla.

Articolo pubblicato su Avvenire del 23 febbraio 2024

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Cittadini e credenti nell’Europa che verrà

Gio, 22/02/2024 - 08:19

Se pensiamo all’Europa, il fatto probabilmente più significativo di questa fase storica è rappresentato dalla coscienza che l’Unione si trova ad attraversare un passaggio molto delicato, se non propriamente critico. Guardando alle prossime elezioni (6-9 giugno 2024), sorge la domanda: ci sarà ancora un’Unione europea per come è stata sognata, pensata e costruita dai suoi padri fondatori.

Le sfide all’Unione: populismi e crisi economica, guerra e disamore

I populismi sembrano essere ancora la minaccia più grande alla sua integrità e permanenza. Alimentati, a loro volta, da una lunga stagione di difficoltà economiche che colpisce il vecchio continente e i suo cittadini e dalle conseguenze della guerra in Ucraina. Di fatto, tra i cittadini europei si acuisce la sensazione di smarrimento, che semina inquietudine e insicurezza, che spinge all’isolamento individualistico e a una mancanza di senso, e che produce una disaffezione e un disamore per l’Unione che va oltre i confini elettorali delle stesse forze populiste.

Tutto ciò non fa bene alla salute dell’Unione. Le stesse prospettive di sviluppo tecnologico aperte dal rapido evolversi dell’Intelligenza artificiale (AI) appaiono, ai più semplici ma anche ai più indifesi dei cittadini europei, foriere di sventure più che di opportunità.

Le religioni: una risorsa per rilanciare il sogno europeo

Innanzi a questo quadro a tinte fosche, ma, ahinoi, tristemente vicino alla realtà di un continente sempre più vecchio e sempre più marginale nello scacchiere mondiale, le religioni tutte e le confessioni cristiane possono rappresentare una risorsa unica per rilanciare la condivisione del progetto europeo.
Senza in nulla sminuire la missione propria di ciascuna e l’autonomia della loro distinta organizzazione e azione, nonché delle loro reciproche relazioni, esse di fatto costituiscono un fattore determinante di coesione sociale perché sono convinte della bontà e della necessità del progetto di una Unione tra i popoli e le nazioni europei, a cominciare da quelli nel cui seno sono nate l’idea e le figure che hanno dato la prima origine a quella che all’inizio era denominata Comunità economica europea.

Un convegno per guardare avanti con speranza

Di questo e di altro ancora si discuterà al Convegno pubblico Cittadini e credenti nell’Europa che verrà, promosso dall’Azione cattolica italiana, dal Movimento ecclesiale di impegno culturale (Meic), dal Movimento di impegno educativo di Ac (Mieac) e dalla Federazione degli universitari cattolici italiani (Fuci), in programma venerdì 8 marzo 2024, a Roma presso l’Aula Giubileo dell’Università Lumsa, in via di Porta Castello 44. Questo il programma dei lavori, diviso in due sessioni:

Sessione del mattino: Per un’Europa dei cittadini

Ore 10,30 Saluti dei Presidenti:
Giuseppe Notarstefano, Ac
Luigi D’Andrea, Meic
Giovanni Battista Milazzo, Mieac
Carmen Di Donato, Fuci
Introduzione: Francesco Bonini, rettore della Lumsa
Ore 11,00 Il difficile cammino verso un’autentica sfera pubblica europea
Relazioni:
Mauro Magatti, professore ordinario di Sociologia – Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Michele Nicoletti, professore ordinario di Filosofia politica – Università degli Studi di Trento
Elena Grech, vicedirettrice della Rappresentanza in Italia della Commissione europea
Coordina: Marco Iasevoli, giornalista di Avvenire.
Dibattito
Ore 13,00 Pausa pranzo

Sessione pomeridiana: In Europa da credenti

Ore 14,30 Il contributo delle fedi religiose alla costruzione della cittadinanza europea
Relazioni:
Mons. Mariano Crociata, vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno, presidente della Commissione delle conferenze episcopali della Comunità Europea (Comece)
Sihem Djebbi, politologa franco-tunisina, docente di Scienze politiche – Università Sorbona di Parigi
Giuseppina De Simone, docente di Filosofia della religione e coordinatrice della Specializzazione in Teologia Fondamentale presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sez. San Luigi
Coordina: Marco Iasevoli
Dibattito
Ore 17,00 Conclusioni: Romano Prodi, presidente Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli

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Don Costa. Amare il proprio tempo

Mar, 20/02/2024 - 07:00

La Fondazione Fuci per la formazione della gioventù universitaria, in occasione dell’apertura agli studiosi dell’archivio “Fondo Mons. Franco Costa” custodito presso l’Istituto per la storia dell’Azione cattolica e del movimento cattolico in Italia “Paolo VI” – ISACEM, organizza la mattina di venerdì 1 marzo 2024, dalle 9 alle 13 presso la Sala Pia dell’Università LUMSA (via di Porta Castello 44, Roma) un convegno aperto al pubblico dal titolo Amare il proprio tempoL’azione di don Franco Costa nella formazione di universitari e universitarie a servizio del Paese.

Dopo i saluti del presidente della Fondazione Fuci, Michele Nicoletti, del Rettore dellUniversità LUMSA, Francesco Bonini, del presidente nazionale di Ac, Giuseppe Notarstefano, e dei presidenti nazionali Fuci, Carmen Di Donato e Tommaso Perrucci, la relazione introduttiva di Renato Moro, dal titolo Profilo del rapporto tra Costa e la FUCI: dagli anni del fascismo agli anni cinquanta.
Seguirà la tavola rotonda con a tema Spunti di studio offerti dall’archivio di don Franco Costa. Partecipano Guido Formigoni (Don Costa, cattolici e politica, presenti e attivi nella vita del paese), Maria Malatesta (Etica e professione nel ’900) e Giovanni Bachelet (Don Costa, una sapienza amica). Coordinata la tavola rotonda il giornalista Marco Damilano.

L’incontro terminerà con: la presentazione del lavoro di riordino e inventariazione dell’Archivio Costa, donato dalla famiglia alla Fondazione Fuci e curato dall’archivista Federica Gargano; a seguire lintervento di Tiziana Faitini Linee di una ricerca sulle professioni del 900.

È inoltre prevista durante il convegno la proiezione di un video con fotografie e scritti di don Costa.

Don Costa e le sue case: la FUCI e l’AC

Don Franco Costa (1904-1977) rappresenta una delle figure più significative della storia  dell’Azione cattolica e della FUCI: presidente del circolo di Genova dal 1925 al 1927, è stato assistente centrale della FUCI dal 1955 al 1963. Nel ’63 fu per breve tempo vescovo di Crema; poi tornò di nuovo a Roma come assistente generale dell’Azione Cattolica Italiana 1963-1972). Alla coppia Vittorio Bachelet e mons. Franco Costa, per espresso desiderio dell’amico Giovanni Battista Montini, eletto Paolo VI, tocco l’impegnativo compito di traghettare l’Azione cattolica dal pre al post Concilio Vaticano II.

Un prete del Concilio che amo il suo paese e la sua gente

Quella di don Franco Costa è, in breve, una singola figura sacerdotale e spirituale, di cui resta un segno profondo nella storia dell’associazionismo cattolico e della Chiesa italiana.
Dalla militanza giovanile nel Partito Popolare di don Sturzo, alla presenza attiva e vivace nella Fuci, al suo convinto antifascismo, testimoniato da una adesione non solo formale alla Resistenza, al suo impegno e al suo ruolo morale e civile nel secondo dopoguerra, nell’Azione cattolica, nel rapporto diretto con i giovani, nel suo impegno teso a mobilitare le coscienze, a indicare le strade della cultura e dell’impegno sociale e civile, ma anche a guidare i cattolici impegnati ai vertici della vita pubblica, soprattutto nei momenti più cruciali e delicati della politica nazionale.
Ma soprattutto: una eccezionale figura di prete, guidato da una tensione e da una sofferta apprensione per l’uomo e per la sua anima, di fronte al quale appare sorretto da profonda fiducia e grande rispetto.

A questo link è disponibile il video promozionale del convegno.

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Fare Ac, in sicurezza

Lun, 19/02/2024 - 07:00

Il tema della copertura assicurativa per infortuni, specie per chi è impegnato nelle parrocchie e nei gruppi associativi, è uno dei temi più importanti per la tutela della salute personale e pubblica. Se ne è fatta carico anche l’Ac, con una polizza assicurativa particolare – Assicuraci, proposta dal Gruppo Gastaldi di Generali Cattolica – che copre ogni socio di Azione cattolica in regola con il tesseramento, durante lo svolgimento delle attività associative, sia in sede che fuori sede. La riunione in parrocchia come anche il pellegrinaggio o la partita di calcetto, se organizzati dall’Ac. Fare Ac in sicurezza, dunque, è un’opportunità che viene proposta al socio di Ac per svolgere le proprie attività in tranquillità.

Anche i non soci possono attivare la polizza infortuni seguendo una breve procedura, trovate maggiori informazioni a questo link.

L’incontro nazionale del 25 aprile

Il popolo di Ac si sta organizzando per venire a Roma e incontrare papa Francesco. Ecco perché il tema della copertura assicurativa è davvero centrale per la serena riuscita di un evento di tale portata.

Si propone pertanto di seguire gratuitamente online tre brevi webinar (qui la locandina) in cui saranno approfonditi alcuni aspetti e durante i quali sarà possibile chiarire dubbi o sottoporre una questione specifica. Si può inoltre rivolgere domande tramite e-mail all’indirizzo info@assicuraci.it, dove saranno date istruzioni durante la sessione di lavoro.

Fare Ac in sicurezza. Gli appuntamenti del webinar

Il primo dei tre appuntamenti sarà su Le Garanzie Responsabilità civile e tutela legale (mercoledì 21 febbraio, dalle ore 21.00 alle opre 21,45; seguitelo qui).

Il secondo appuntamento su Le Garanzie infortuni e assistenza (mercoledì 6 marzo, dalle ore 21.00 alle ore 21.45).

Il terzo e ultimo appuntamento su L’assicurazione del Terzo Settore (mercoledì 20 marzo, dalle ore 21.00 alle ore 21.45)

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Sarà come tornare a casa

Ven, 16/02/2024 - 07:00

La conosciamo bene l’attesa e la trepidazione per l’arrivo del giorno della partenza, la sensazione che senti quando prepari lo zaino, e mentre lo fai ti prepari anche il cuore. Realizzi che il tuo battito sarà sintonizzato con quello di altre migliaia e migliaia di persone. In quei chilometri da macinare nella notte o alle prime luci dell’alba, intravedi già la scena, il momento in cui arriverà il Papa, già pregusti le parole che avrà da dire, fatte apposta anche per te. Chiami i tuoi amici della parrocchia, senti quella persona che avevi conosciuto magari ad un campo nazionale per responsabili diocesani. Sarà proprio come tornare a casa, in un luogo che è casa per l’Associazione e per tutta la Chiesa universale. Ecco, è solo il 16 febbraio, ma hai già ben chiaro in mente che lì, in Piazza San Pietro il 25 aprile, ci sarà il mondo, tutta l’Azione cattolica italiana sarà lì.

Una festa attesa e desiderata

Per molti di noi, “A braccia aperte” sarà il primo grande incontro nazionale a cui partecipiamo insieme a tutta l’Associazione, per altri forse avrà il sapore di un ritorno a quelle sensazioni belle: sentirsi parte di qualcosa di immenso e profondo. Per tutte e tutti i giovani d’Italia, sarà una festa attesa, desiderata.

Incontrarci nel momento clou del percorso assembleare, alle porte della XVIII Assemblea nazionale, ha un significato ancor più particolare. Insieme a tutti i giovanissimi e i giovani soci, ci saranno anche i nuovi responsabili parrocchiali, con i vicepresidenti diocesani per il Settore giovani e gli incaricati regionali appena eletti nei diversi organi. Nella staffetta associativa di questo percorso assembleare, ci immaginiamo tutte le associazioni parrocchiali prima, diocesane poi, cedere il passo alla grande assemblea nazionale, che segnerà un nuovo inizio per l’Ac. Questo momento sarà l’occasione anche per fare sintesi degli anni vissuti insieme. Celebrando l’impegno di tutti i ragazzi, i giovani e gli adulti di Azione cattolica sulle sfide del nostro tempo: in primis la pace e la cura del creato, a partire dagli ambienti dove viviamo quotidianamente il nostro tempo.

Per non dimenticare il cammino fatto insieme

Se gli anni del Covid sembrano ormai alle spalle, non vogliamo dimenticare il cammino fatto insieme, anche nella condivisione della fatica. La chiusura e la distanza, per noi giovanissimi e giovani, sono stati veri terreni per mettersi in gioco, in una vera sfida: quella di trovare un nuovo modo di sintonizzarci con il mondo. Ci siamo sentiti anche noi dentro quella barca dalla direzione incerta, in mezzo alla tempesta. Eppure, abbiamo trovato le energie giuste per rimetterci in moto, fabbricando in maniera creativa forme diverse per pensarci insieme, nonostante tutto.

Per dire grazie…

Il 25 aprile in piazza San Pietro ci saremo innanzitutto perché vogliamo esprimere il nostro grazie all’Associazione. Che è per noi lo strumento per farci arrivare meglio al Signore. In un cammino condiviso con persone di altre età con cui ci sentiamo liberi di condividere le nostre domande di senso, la ricerca appassionata del Bene che abita la nostra vita, e il desiderio incessante di raccontarla con chi incontriamo sui nostri passi.

Per continuare a impegnarci…

Il 25 aprile in piazza San Pietro ci saremo anche per ribadire la nostra voglia di impegnarci. Che – a dispetto di quanto spesso si senta dire in giro – non è mai venuta meno. Sappiamo che l’Associazione rispetta i tempi della nostra vita. E sappiamo che ci chiede di tirare fuori il meglio di noi stessi anche quando siamo i primi a non crederci. Siamo la forza pulsante della nostra associazione e vogliamo condividere con il mondo la nostra energia e la nostra passione instancabile per la vita!

Per stare con Francesco…

Il 25 aprile in piazza San Pietro, inoltre, ci saremo per far sentire la nostra vicinanza a papa Francesco. Che sempre ci fa sentire compresi e ci spinge a trovare nuove vie per sperare in questi tempi difficili. In quella piazza vogliamo fargli sentire il nostro abbraccio. E dirgli che anche se spesso la Chiesa non parla linguaggi molto familiari ai nostri, vogliamo mettercela tutta per renderla un luogo aperto, davvero casa per tutti.

Allora, noi il 25 aprile ci saremo! E tu?

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Formazione come cura della vita buona

Gio, 15/02/2024 - 07:00

La formazione come cura della vita buona delle persone, che è tale se si sviluppa attraverso legami fraterni, solidali e gratuiti. Questo è l’orizzonte in cui il laicato cattolico organizzato dovrà sempre più muovere i suoi passi.
Ciò comporta, innanzitutto, resistere alla frammentazione e alla precarietà delle relazioni indotta dal prevalere di logiche efficientiste e funzionaliste, tipiche dell’ordine tecnocratico che pretende di organizzare la vita materiale della persona e spesso pretende di farlo anche con la sua dimensione immateriale.

Una resistenza spirituale, interiore e profonda

È una resistenza spirituale, interiore e profonda, quella cui ci esercita la vita cristiana; che ci sfida ad affrontare la complessità cercando sempre nuove e ulteriori sintesi volte a tenere insieme: connettere, riunire, mettere in relazione diventano i verbi attivi del paradigma comunitario con cui ci sentiamo chiamati a rigenerare lo spazio pubblico.
In tal senso, è lo stesso cammino sinodale che ci invita ad una conversione innanzitutto di stile ecclesiale; costituisce uno straordinario xairòs a condizione che si sappia viverlo senza astrattezza né autoreferenzialità, come ci insegna il magistero di Francesco. Vale a dire radicando la sinodalità nella concretezza dell’esperienza ecclesiale e della vita comunitaria, riconoscendo e incoraggiando la traduzione culturale e civica di questa postura ecclesiale.

La formazione come “atto di responsabilità sociale”

A partire da due evidenze, che domandano una formazione come “atto di responsabilità sociale”.
In primo luogo, in questi ultimi anni – per certi versi in modo sorprendente se pensiamo agli anni critici della pandemia – si percepisce un desiderio di maggiore partecipazione e di impegno alla vita sociale e civile delle nostre comunità e nei diversi territori che si allarga anche verso un maggiore interesse alle grandi sfide globali di questo tempo, e questo per tutte le età: dai più giovani agli adulti; una sorta di “tensione” associativa, condivisa e diffusa, a spendersi ancora di più per il bene comune con la consapevolezza di poterlo fare oggi in forme plurali e articolate, un autentico desiderio di partecipazione e impegno che chiede di essere incoraggiato e accompagnato in modo ordinario e sistematico, supportato e alimentato da strumenti e percorsi di approfondimento adeguati ed attuali.

Le associazioni come laboratori di partecipazione e il magistero di Francesco

Sempre più le associazioni territoriali si scoprono essere dei laboratori di partecipazione dotandosi di un metodo di lavoro aperto alla costruzione e animazione di reti e alleanze che cooperano per progetti specifici e ad iniziative di volontariato o campagne su questioni di grande rilevanza sociale, penso alla Pace o al tema della Legalità o alla cresciuta sensibilità ai temi ambientali e della Sostenibilità, esplorano e sperimentano nuovi metodi di progettazione e rendicontazione sociale, forme di coprogettazione talvolta anche insieme alle istituzioni, sia nazionali che europee.

Si tratta di espressioni di creatività e progettualità associativa non tutte inedite (anzi alcune hanno una lunga tradizione associativa) ma certamente ricevono in qualche modo una spinta ed una accelerazione dal magistero di Francesco che indicando la prospettiva di un «improrogabile rinnovamento ecclesiale» (Evangelii gaudium al n. 27) ci mostra modi nuovi e possibili di pensarsi associazione nei diversi territori, lasciandosi provocare dalle domande e dal bisogno di comunità che oggi si fa sempre più urgente.

La prossima Settima Sociale di Trieste come spazio di partecipazione e formazione

In secondo luogo, assistiamo ad una fioritura di vocazioni all’impegno sociopolitico, soprattutto a livello locale, che meritano una rinnovata attenzione di cura e accompagnamento. A fronte di una politica che nel suo inesorabile processo di disintermediazione e di virtualizzazione dei meccanismi e dei dispositivi di ingaggio nella forma ordinaria della partecipazione politica, affiorano storie di impegno ed esperienze di cittadinanza attiva che assumono con dedizione e competenza questioni che sembrano essere uscite dal radar e dall’agenda delle principali forze politiche organizzate.

È tempo, dunque, di mettere a tema – a partire dalla prossima Settimana Sociale di Trieste – una grande riforma della partecipazione sociale, economica e politica nel nostro Paese.
Le grandi sfide attuali sono complesse e non possono essere più affrontate unicamente da approcci iperspecialistici e tecnocratici, che spesso rischiano di dischiudere la strada alla violenza e alla guerra. Piuttosto occorre attivare una competenza diffusa e integrata orientata alla ricerca di sintesi anche parziali ma condivise. Come suggerisce la Laudate Deum, al n. 43: «sono necessari spazi di conversazione, consultazione, arbitrato, risoluzione dei conflitti, supervisione e, in sintesi, una sorta di maggiore “democratizzazione” nella sfera globale, per esprimere e includere le diverse situazioni. Non sarà più utile sostenere istituzioni che preservino i diritti dei più forti senza occuparsi dei diritti di tutti».

Politica è l’opposto dell’individualismo e dell’avarizia

In tal senso, viene alla mente la celebre definizione che ha dato della politica don Lorenzo Milani: politica è l’opposto dell’individualismo e dell’avarizia, è “sortirne insieme”, laddove l’accento va messo proprio su quell’avverbio “insieme”, che non pretende di annullare le differenze né di ignorare il conflitto e la dialettica che da esse può scaturire, ma dischiude l’orizzonte esigente di una possibilità di ritrovare ragioni per riprendere il comune cammino della fraternità.

Articolo pubblicato con il titolo “Formazione e nuova responsabilità come atti di responsabilità sociale” su Avvenire dell’11 febbraio 2024.

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