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Aggiornato: 13 min 16 sec fa

Lettera del Santo Padre ai fratelli e alle sorelle ebrei in Israele (2 febbraio 2024)

Ven, 02/02/2024 - 08:00

Città del Vaticano, 2 febbraio 2024

Cari fratelli e sorelle,

stiamo vivendo un momento di travaglio doloroso. Guerre e divisioni stanno aumentando in tutto il mondo. Siamo davvero, come ho detto tempo addietro, in una sorta di “guerra mondiale a pezzi”, con gravi conseguenze per la vita di molte popolazioni.

Anche la Terra Santa, purtroppo, non è stata risparmiata da questo dolore, e dal 7 ottobre è precipitata in una spirale di violenza senza precedenti. Il mio cuore è lacerato alla vista di quanto accade in Terra Santa, dalla potenza di tante divisioni e di tanto odio.

Tutto il mondo guarda a quanto accade in quella Terra con apprensione e con dolore. Sono sentimenti che esprimono vicinanza speciale e affetto verso i popoli che abitano la terra che è stata testimone della storia della Rivelazione.

Purtroppo, bisogna tuttavia constatare che questa guerra ha prodotto nelle opinioni pubbliche mondiali anche atteggiamenti di divisione, che a volte sfociano in forme di antisemitismo e antigiudaismo. Non posso che ribadire quanto anche i miei Predecessori hanno affermato chiaramente più volte: il rapporto che ci lega a voi è particolare e singolare, senza mai oscurare, naturalmente, il rapporto che la Chiesa ha con gli altri e l'impegno anche nei loro confronti. Il percorso che la Chiesa ha avviato con voi, l’antico popolo dell’alleanza, rifiuta ogni forma di antigiudaismo e antisemitismo, condannando inequivocabilmente le manifestazioni di odio verso gli ebrei e l’ebraismo, come un peccato contro Dio. Insieme a voi, noi cattolici siamo molto preoccupati per il terribile aumento degli attacchi contro gli ebrei in tutto il mondo. Avevamo sperato che “mai più” fosse un ritornello ascoltato dalle nuove generazioni, eppure ora vediamo che il percorso da fare richiede una collaborazione sempre più stretta per sradicare questi fenomeni.

Il mio cuore è vicino a voi, alla Terra Santa, a tutti i popoli che la abitano, israeliani e palestinesi, e prego perché prevalga su tutti il desiderio della pace. Voglio che sappiate che siete vicini al mio cuore e al cuore della Chiesa. Alla luce delle numerose comunicazioni che mi sono state recapitate da vari amici e organizzazioni ebraiche di tutto il mondo e della vostra lettera, che apprezzo molto, sento il desiderio di assicurarvi la mia vicinanza e il mio affetto. Abbraccio ciascuno di voi, e in particolare coloro che sono consumati dall'angoscia, dal dolore, dalla paura e anche dalla rabbia. Le parole sono così difficili da formulare di fronte a una tragedia come quella avvenuta negli ultimi mesi. Insieme a voi, piangiamo i morti, i feriti, i traumatizzati, supplicando Dio Padre di intervenire e porre fine alla guerra e all'odio, questi cicli incessanti che mettono in pericolo tutto il mondo. In modo speciale, preghiamo per il ritorno degli ostaggi, rallegrandoci per quelli che sono già tornati a casa, e pregando affinché tutti gli altri si uniscano presto a loro.

Desidero anche aggiungere che non bisogna mai perdere la speranza per una pace possibile e che dobbiamo fare di tutto per promuoverla, rifiutando ogni forma di disfattismo e di sfiducia. Dobbiamo guardare a Dio, la sola fonte di una speranza certa. Come ho detto dieci anni fa, «la storia insegna che i nostri poteri non sono sufficienti. Più di una volta siamo stati sull'orlo della pace, ma il maligno, utilizzando diversi mezzi, è riuscito a bloccarla. Per questo siamo qui, perché sappiamo e crediamo che abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio. Non rinunciamo alle nostre responsabilità, ma invochiamo Dio in un atto di suprema responsabilità davanti alle nostre coscienze e davanti ai nostri popoli. Abbiamo ascoltato una convocazione e dobbiamo rispondere. È l’invito a spezzare la spirale dell’odio e della violenza, e a spezzarla con una sola parola: la parola “fratello”. Ma per poter pronunciare questa parola dobbiamo alzare gli occhi al cielo e riconoscerci figli di un solo Padre» (Giardini vaticani, 8 giugno 2014).

In tempi di desolazione, abbiamo grande difficoltà a vedere un orizzonte futuro in cui la luce sostituisca l’oscurità, in cui l’amicizia sostituisca l’odio, in cui la cooperazione sostituisca la guerra. Tuttavia, noi, come ebrei e cattolici, siamo testimoni proprio di un simile orizzonte. E dobbiamo farlo, cominciando innanzitutto proprio dalla Terra Santa, dove insieme vogliamo lavorare per la pace e per la giustizia, facendo il possibile per creare relazioni capaci di aprire nuovi orizzonti di luce per tutti, israeliani e palestinesi.

Entrambi, ebrei e cattolici, dobbiamo impegnarci in questo percorso di amicizia, solidarietà e cooperazione nella ricerca di modi per riparare un mondo distrutto, lavorando insieme in ogni parte del mondo, e soprattutto in Terra Santa, per recuperare la capacità di vedere nel volto di ogni persona l’immagine di Dio, nella quale siamo stati creati.

Abbiamo ancora molto da fare insieme per garantire che il mondo che lasceremo a chi verrà dopo di noi sia migliore, ma sono certo che potremo continuare a collaborare insieme per questo scopo.

Vi abbraccio fraternamente.

Francesco

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Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, 3 febbraio 2024

Alla Delegazione della "University of Notre Dame" (Indiana, U.S.A.) (1° febbraio 2024)

Gio, 01/02/2024 - 08:45

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Do un caloroso benvenuto a tutti voi, al vostro Presidente, Padre John Jenkins, ai membri del Board of Trustees dell’Università di Notre Dame e alle Autorità Accademiche.

Fin dalla sua fondazione, l’Università di Notre Dame si è dedicata all’incremento della missione della Chiesa di annunciare il Vangelo attraverso la formazione di ogni persona in tutte le sue dimensioni. Infatti, come diceva il Beato Basil Moreau, «l’educazione cristiana è l’arte di condurre i giovani verso la pienezza». E non solo con la testa! I tre linguaggi: della testa, del cuore e delle mani. Questo è il segreto dell’educazione: che si pensi quello che si sente e si fa, che si senta quello che si pensa e si fa, che si faccia quello che si sente e si pensa. Questo è il nocciolo, non dimenticare. E, a tale proposito, vorrei riflettere un momento con voi su questi tre linguaggi: quelli della testa, del cuore e delle mani. Essi, assieme, formano un orizzonte entro cui le comunità accademiche cattoliche possono adoperarsi a formare personalità solide e ben integrate, la cui visione della vita sia animata dagli insegnamenti di Cristo.

Primo: la testa. Per loro propria natura, le università cattoliche si impegnano a perseguire lo sviluppo della conoscenza attraverso lo studio accademico e la ricerca. Nel mondo globalizzato, questo comporta la necessità di un approccio collaborativo e interdisciplinare, che unisca vari campi di studio e di indagine. Gli sforzi educativi intrapresi dalle istituzioni cattoliche, infatti, si fondano sulla ferma convinzione dell’intrinseca armonia tra fede e ragione, da cui scaturisce la rilevanza del messaggio cristiano per tutti gli ambiti della vita, personale e sociale. Ne consegue che sia gli educatori sia gli studenti sono chiamati ad apprezzare sempre più, oltre al valore dell’apprendimento in generale, la ricchezza della tradizione intellettuale cattolica in particolare. C’è una tradizione intellettuale, questo non vuol dire chiusura, no, è apertura! C’è una tradizione intellettuale che noi dobbiamo conservare e far crescere sempre.

Il compito di un’università cattolica, però, non è solo quello di sviluppare la mente, la testa: deve dilatare il cuore. Se si pensa e non si sente noi non siamo umani. L’intera comunità universitaria è chiamata perciò ad accompagnare le persone, soprattutto i giovani, con saggezza e rispetto, nei sentieri della vita e ad aiutarle a coltivare un’apertura verso tutto quello che è vero, buono e bello. Ciò richiede di stabilire relazioni genuine tra educatori e studenti, perché possano camminare insieme e comprendere le domande, i bisogni e i sogni più profondi della vita. Vi lascio una domanda, ma ognuno di voi risponderà dopo: voi aiutate i giovani a sognare? Lascio la domanda. Significa anche promuovere il dialogo e la cultura dell’incontro, affinché tutti possano imparare a riconoscere, apprezzare e amare ciascuno come fratello e sorella e, prima di tutto, come figlio amato di Dio. In proposito, non possiamo trascurare il ruolo essenziale della religione nell’educazione del cuore delle persone. Per questo mi rallegro che l’Università di Notre Dame si caratterizzi per un’atmosfera che permette ad alunni, docenti e personale di crescere spiritualmente e di testimoniare la gioia del Vangelo, la sua forza trasformante per la società e la sua capacità di dare ad ognuno questa forza nell’affrontare con saggezza le sfide del nostro tempo.

Infine: le mani. Testa, cuore e mani. L’educazione cattolica ci impegna, tra le altre cose, a costruire un mondo migliore, insegnando la mutua convivenza, la solidarietà fraterna e la pace. Non possiamo rimanere chiusi entro le mura o i confini delle nostre istituzioni, ma dobbiamo sforzarci di uscire verso le periferie, per incontrare e servire Cristo nel nostro prossimo. A tale riguardo, incoraggio i continui sforzi che l’Università compie per promuovere nei suoi studenti l’impegno solidale per i bisogni delle comunità più svantaggiate.

Cari fratelli e sorelle, esprimo la mia gratitudine per il vostro servizio generoso nell’aiutare Notre Dame a rimanere costantemente fedele al suo carattere unico e alla sua identità di istituzione cattolica di istruzione superiore. Al tempo stesso, auspico che i vostri contributi continuino a valorizzarne l’eredità di solida educazione cattolica e le consentano di essere nella società, come desiderava il vostro fondatore, Padre Edward Sorin, “un potente mezzo per il bene”.

Vi ringrazio ancora per questa visita. Affido all’intercessione della Madonna l’intera comunità di Notre Dame e tutti coloro che sostengono la sua missione. Invoco su voi e sulle vostre famiglie i doni divini di saggezza, gioia e pace, e di cuore vi benedico. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

Udienza Generale del 31 gennaio 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 6. <i>L'ira</i>

Mer, 31/01/2024 - 09:00

Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

Catechesi. I vizi e le virtù. 6. L'ira

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In queste settimane stiamo trattando il tema dei vizi e delle virtù, e oggi ci soffermiamo a riflettere sul vizio dell’ira. È un vizio particolarmente tenebroso, ed è forse il più semplice da individuare da un punto di vista fisico. La persona dominata dall’ira difficilmente riesce a nascondere questo impeto: lo riconosci dalle mosse del suo corpo, dall’aggressività, dal respiro affannoso, dallo sguardo torvo e corrucciato.

Nella sua manifestazione più acuta l’ira è un vizio che non lascia tregua. Se nasce da un’ingiustizia patita (o ritenuta tale), spesso non si scatena contro il colpevole, ma contro il primo malcapitato. Ci sono uomini che trattengono l’ira sul posto di lavoro, dimostrandosi calmi e compassati, ma che una volta a casa diventano insopportabili per la moglie e i figli. L’ira è un vizio dilagante: è capace di togliere il sonno e di farci macchinare in continuazione nella mente, senza riuscire a trovare uno sbarramento ai ragionamenti e ai pensieri.

L’ira è un vizio distruttivo dei rapporti umani. Esprime l’incapacità di accettare la diversità dell’altro, specialmente quando le sue scelte di vita divergono dalle nostre. Non si arresta ai comportamenti sbagliati di una persona, ma getta tutto nel calderone: è l’altro, l’altro così com’è, l’altro in quanto tale a provocare la rabbia e il risentimento. Si comincia a detestare il tono della sua voce, i banali gesti quotidiani, i suoi modi di ragionare e di sentire.

Quando la relazione arriva a questo livello di degenerazione, ormai si è smarrita la lucidità. L’ira fa perdere la lucidità. Perché una delle caratteristiche dell’ira, a volte, è quella di non riuscire a mitigarsi con il tempo. In quei casi, anche la distanza e il silenzio, anziché quietare il peso degli equivoci, lo ingigantiscono. È per questo motivo che l’apostolo Paolo – come abbiamo ascoltato – raccomanda ai suoi cristiani di affrontare subito il problema e di tentare la riconciliazione: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). È importante che tutto si sciolga subito, prima del tramonto del sole. Se durante il giorno può nascere qualche equivoco, e due persone possono non comprendersi più, percependosi improvvisamente lontane, la notte non va consegnata al diavolo. Il vizio ci terrebbe svegli al buio, a rimuginare le nostre ragioni e gli sbagli inqualificabili che non sono mai nostri e sempre dell’altro. È così: quando una persona è dominata dall’ira, sempre dice che il problema è dell’altro; mai è capace di riconoscere i propri difetti, le proprie mancanze.

Nel “Padre nostro” Gesù ci fa pregare per le nostre relazioni umane che sono un terreno minato: un piano che non sta mai in equilibrio perfetto. Nella vita abbiamo a che fare con debitori che sono inadempienti nei nostri confronti; come certamente anche noi non abbiamo sempre amato tutti nella giusta misura. A qualcuno non abbiamo restituito l’amore che gli spettava. Siamo tutti peccatori, tutti, e tutti abbiamo i conti in rosso: non dimenticare questo! Perciò tutti abbiamo bisogno di imparare a perdonare per essere perdonati. Gli uomini non stanno insieme se non si esercitano anche nell’arte del perdono, per quanto questo sia umanamente possibile. Ciò che contrasta l’ira è la benevolenza, la larghezza di cuore, la mansuetudine, la pazienza.

Ma, a proposito dell’ira, c’è da dire un’ultima cosa. È un vizio terribile, si diceva, sta all’origine di guerre e di violenze. Il proemio dell’Iliade descrive “l’ira di Achille”, che sarà causa di “infiniti lutti”. Ma non tutto ciò che nasce dall’ira è sbagliato. Gli antichi erano ben consapevoli che in noi sussiste una parte irascibile che non può e non deve essere negata. Le passioni in qualche misura sono inconsapevoli: capitano, sono esperienze della vita. Non siamo responsabili dell’ira nel suo sorgere, ma sempre nel suo sviluppo. E qualche volta è bene che l’ira si sfoghi nella giusta maniera. Se una persona non si arrabbiasse mai, se non si indignasse davanti a un’ingiustizia, se davanti all’oppressione di un debole non sentisse fremere qualcosa nelle sue viscere, allora vorrebbe dire che quella persona non è umana, e tantomeno cristiana.

Esiste una santa indignazione, che non è l’ira ma un movimento interiore, una santa indignazione. Gesù l’ha conosciuta diverse volte nella sua vita (cfr Mc 3,5): non ha mai risposto al male con il male, ma nel suo animo ha provato questo sentimento e, nel caso dei mercanti nel Tempio, ha compiuto un’azione forte e profetica, dettata non dall’ira, ma dallo zelo per la casa del Signore (cfr Mt 21,12-13). Dobbiamo distinguere bene: una cosa è lo zelo, la santa indignazione, un’altra cosa è l’ira, che è cattiva.

Sta a noi, con l’aiuto dello Spirito Santo, trovare la giusta misura delle passioni, educarle bene, perché si volgano al bene e non al male. Grazie.

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Saluti

Je salue cordialement les personnes de langue française, particulièrement les jeunes provenant des établissements scolaires de France. Frères et sœurs, apprenons à nous exercer à l’art de la réconciliation et du pardon afin de vaincre le vice de la colère et d’ouvrir des voies de paix dans nos relations quotidiennes. Que Dieu vous bénisse !

[Saluto cordialmente le persone di lingua francese, in particolare i giovani provenienti dagli Istituti scolastici di Francia. Fratelli e sorelle, impariamo a praticare l’arte della riconciliazione e del perdono per superare il vizio dell’ira e aprire vie di pace nelle nostre relazioni quotidiane. Dio vi benedica!]

I greet all the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially those coming from the United States of America. Upon all of you, and upon your families, I invoke the joy and peace of Our Lord Jesus Christ. God bless you!

[Do il benvenuto ai pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza, specialmente ai gruppi provenienti dagli Stati Uniti d’America. Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo! Dio vi benedica!]

Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, der heilige Johannes Bosco hat vielen jungen Menschen in ihrer Not geholfen und sie mit seinem apostolischen Eifer zu Christus geführt. Bezeugen auch wir der Jugend, dass Christus in unser Leben kommen möchte, um es mit der Freude zu erfüllen, die nur er geben kann.

[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, San Giovanni Bosco ha aiutato molti giovani nelle loro difficoltà e, con il suo zelo apostolico, li ha portati a Cristo. Testimoniamo anche noi alla gioventù che Cristo vuole entrare nella nostra vita per colmarla di quella gioia che solo Lui può dare.]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española. Pidamos al Señor ser conscientes de nuestra debilidad frente a la ira, de modo que cuando surja podamos encauzarla positivamente, para que esta no nos domine, sino que la transformemos en un santo celo por el bien. Que Dios los bendiga. Muchas gracias.

Queridos peregrinos de língua portuguesa, a todos vos saúdo, convidando-vos a pedir ao Senhor uma fé grande para verdes a realidade com os olhos de Deus, e uma grande caridade para vos aproximardes das pessoas com o seu coração misericordioso. Sobre vós e vossas famílias, desça a bênção do Senhor.

[Nel salutarvi tutti, cari pellegrini di lingua portoghese, vi invito a chiedere al Signore una fede grande per guardare la realtà con lo sguardo di Dio, e una grande carità per accostare le persone con il suo cuore misericordioso. Su di voi e sulle vostre famiglie, scenda la benedizione del Signore.]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العربِيَّة. اليومَ في تذكارِ القدِّيسِ يوحنَّا بوسكو الَّذي اهتَمَّ كثيرًا بالشَّباب، أدعُوكم إلى أنْ تَقتَدُوا بِه، فَتُرَبُّوا الشَّبابَ على الايمانِ وتُنَشِّئوهم على مختلفِ العُلومِ والمِهَن، مِن أجلِ مستقبلٍ أَفضلَ فيهِ تَنعَمُ البشريَّةُ بالسَّلامِ والأُخُوَّةِ والطُّمأنينَة. بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِنْ كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Oggi, nella memoria di San Giovanni Bosco, che ebbe molta cura dei giovani, vi invito a imitarlo, educando i giovani alla fede e formandoli nelle diverse scienze e professioni, per un futuro migliore, in cui l’umanità possa godere di pace, fratellanza e tranquillità. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga ‎sempre da ogni male‎!]

Serdecznie pozdrawiam polskich pielgrzymów. Nowy Rok rozpoczęliśmy od zaproszenia do budowania pokoju na świecie, w Ojczyźnie, w rodzinie, w swoim sercu. Pamiętajcie, że pokój można budować tylko na prawdzie. Niech troska o wspólne dobro, właściwe panowanie nad gniewem i wzajemne przebaczenie, jeden drugiemu, pomogą wam budować cywilizację miłości w waszej obecnej sytuacji. Z serca błogosławię wam i waszym rodzinom.

[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. Abbiamo iniziato il Nuovo Anno con l'invito a costruire la pace nel mondo, nella vostra Patria, nelle vostre famiglie, nel vostro cuore. Ricordate che la pace può essere costruita solo sulla verità. La sollecitudine per il bene comune, il giusto controllo dell'ira e il perdono reciproco, uno con l’altro, vi aiutino a costruire la civiltà dell'amore nella vostra situazione attuale. Benedico di cuore voi e le vostre famiglie.]

* * *

Domani, in Italia, si celebra la Giornata Nazionale Vittime Civili di Guerra. Al ricordo orante per quanti sono deceduti nei due conflitti mondiali, associamo anche i tanti – troppi – civili, vittime inermi delle guerre che purtroppo insanguinano ancora il nostro pianeta, come accade in Medio Oriente e in Ucraina. Il loro grido di dolore possa toccare i cuori dei responsabili delle Nazioni e suscitare progetti di pace. Quando si leggono storie di questi giorni, nella guerra, c’è tanta crudeltà, tanta! Chiediamo al Signore la pace, che è sempre mite, non è crudele.

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i sacerdoti che partecipano al corso di formazione promosso dalla Pontificia Università della santa Croce, i fedeli della parrocchia Cristo Divino Lavoratore di Ancona, gli alunni dell’Istituto Caetani di Cisterna di Latina, la banda musicale di Villa Santo Stefano.

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Invoco su di voi la protezione di San Giovanni Bosco, che oggi la Chiesa ricorda, affinché possa rendere feconda la vocazione di ciascuno nella Chiesa e nel mondo. A tutti la mia Benedizione!

Ai dirigenti e dipendenti di TV2000 e di Radio InBlu (29 gennaio 2024)

Lun, 29/01/2024 - 10:30

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Sono contento di accogliervi in occasione del 25° anniversario della nascita di TV2000 e del circuito inBlu2000. Saluto Mons. Giuseppe Baturi, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana, e Mons. Piero Coccia, Presidente della Fondazione “Comunicazione e Cultura” e di “Rete Blu”, e tutti voi che lavorate in questi media.

Sono passati dieci anni dal nostro precedente incontro e molto è cambiato nel panorama mediatico. L’innovazione tecnologica ha trasformato le modalità di produzione dei contenuti, così come la loro fruizione; e ora l’intelligenza artificiale «sta modificando in modo radicale anche l’informazione e la comunicazione e, attraverso di esse, alcune basi della convivenza civile» (Messaggio per la LVIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali).

In questo vortice, che pare trascinare non solo gli operatori del settore ma un po’ tutti noi, ci sono tuttavia alcuni principi che restano fissi, come stelle alle quali guardare per orientarsi e non smarrire la rotta. E ciò riguarda in modo particolare voi, che, insieme al quotidiano “Avvenire” e all’Agenzia Sir, avete un’appartenenza ben precisa: la Conferenza Episcopale Italiana. Questo non è un limite, anzi è espressione di una grande libertà, perché ricorda che la comunicazione e l’informazione hanno sempre le radici nell’umano. E, ancora, sottolinea l’importanza di incarnare la fede nella cultura, in particolare attraverso la testimonianza, narrando storie in cui il buio che è intorno a noi non spenga il lume della speranza. È fondamentale ricordare e vivere questa appartenenza. Per questo vorrei indicarvi tre parole per proseguire sulla strada del vostro lavoro.

La prima è prossimità, essere prossimo. Ogni giorno – tramite la televisione o la radio – vi fate vicini a tante persone, che trovano in voi degli amici da cui ricevere informazioni, con cui trascorrere piacevolmente del tempo, o andare alla scoperta di realtà, esperienze e luoghi nuovi. E questa prossimità si estende anche ai territori e alle periferie dove la gente abita. A me piace pensare che la prossimità è una delle qualità di Dio che si è fatto prossimo a noi. Sono tre le cose che fanno vedere Dio: la prossimità: si fa prossimo; la tenerezza: Dio è tenero; la compassione: sempre perdona. Non dimenticatevi questo: prossimità, compassione e tenerezza. Vi incoraggio a continuare a creare reti, a tessere legami, a raccontare il bello e il buono delle nostre comunità – con prossimità –, a rendere protagonisti quanti solitamente finiscono a fare le comparse o non vengono nemmeno presi in considerazione. La comunicazione – lo sappiamo – rischia di appiattirsi su alcune logiche dominanti, di piegarsi al potere o addirittura di costruire fake news. Non cadete nella tentazione di allinearvi, andate controcorrente, sempre consumando le suole delle scarpe e incontrando la gente. Solo così potete essere “autentici per vocazione”, come dice un vostro slogan. E non dimenticate mai quanti sono ai margini, le persone povere, le persone sole e, più brutto ancora, le persone scartate.

La prima parola era prossimità, la seconda che vi lascio è cuore, nella pregnanza del suo senso biblico e della tradizione cristiana. In questi ultimi anni l’avete ritrovata spesso nei Messaggi per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali. Potrebbe sembrare fuori luogo accostare il cuore al mondo tecnologico, come è ormai quello della comunicazione, invece tutto nasce da lì. Non si può osservare un fatto, non si può intervistare qualcuno, non si può raccontare qualcosa se non a partire dal cuore. Infatti, il comunicare non si risolve nella trasmissione di una teoria o nell’esecuzione di una tecnica, ma è un’arte che ha al centro la «capacità del cuore che rende possibile la prossimità» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 171). Ciò permette di fare spazio all’altro – restringendo un po’ quello dell’io –, di liberarci dalle catene dei pregiudizi, di dire la verità senza separarla dalla carità. Mai separare i fatti dal cuore! E poi, avere coraggio. Non è un caso che “coraggio” derivi da cor. Chi ha cuore ha anche il coraggio di essere alternativo, senza però diventare polemico o aggressivo; di essere credibile, senza avere la pretesa di imporre il proprio punto di vista; di essere costruttore di ponti. E questo è molto importante: un comunicatore possiamo pensarlo come un ponte, perché il comunicatore necessariamente è un costruttore di ponti.

E la terza parola è responsabilità. Ognuno deve fare la propria parte per assicurare che ogni forma di comunicazione sia obiettiva, rispettosa della dignità umana e attenta al bene comune. In questo modo, potremo ricucire le fratture, trasformare l’indifferenza in accoglienza e relazione. Il vostro è uno di quei mestieri che hanno il carattere della vocazione: siete chiamati a essere messaggeri che informano con rispetto, con competenza, contrastando divisioni e discordie. E sempre ricordando che al centro di ogni servizio, di ogni articolo, di ogni programma c’è la persona: non dimenticare questo. È proprio ciò che dà senso alla comunicazione.

Cari amici, dieci anni fa avete avviato una fase di ripensamento e riorganizzazione del vostro lavoro; in questi giorni avete aggiunto un ulteriore tassello con il lancio della vostra “App”. Che anch’essa contribuisca a comunicare con prossimità, cuore e responsabilità. Andate avanti su questa strada, ricordando quello che diceva il vostro Patrono San Francesco di Sales: «Non è per la grandezza delle nostre azioni che noi piaceremo a Dio, ma per l’amore con cui le compiamo» (Trattenimenti spirituali). Vi benedico di cuore. E vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie!

Alla delegazione del "Real Club de Tenis Barcelona" (29 gennaio 2024)

Lun, 29/01/2024 - 10:00

È per me un piacere accogliervi in occasione del 125° anniversario della vostra fondazione come club sportivo, e sono lieto di poter sottolineare ancora una volta le opportunità che lo sport offre per la crescita di ogni persona e della società. E oggi dobbiamo congratularci con gli italiani perché ieri hanno vinto in Australia, quindi congratulazioni anche a loro.

Il tennis in particolare, non essendo uno sport di squadra, bensì individuale o di coppia, presenta un aspetto interessante per la nostra riflessione. Sembrerebbe che la sfida tra giocatori abbia a che vedere soprattutto con il desiderio di prevalere sull’avversario. Tuttavia, guardando alla storia del vostro club, si può osservare che in realtà, fin dalla sua origine inglese, è espressione dell’apertura dei fondatori a ciò che di buono poteva venire dall’esterno e a un dialogo con altre culture, che ha permesso loro di dar vita a nuove realtà.

Questa è una lezione tanto valida per i nostri giorni quanto lo è stata 125 anni fa. Nel tennis, come nella vita, non possiamo vincere sempre, ma sarà una sfida che arricchisce se, giocando in modo educato e secondo le regole, impareremo che non è una lotta ma un dialogo che implica il nostro sforzo e ci consente di migliorarci. Concepire un po’ lo sport non solo come una lotta, ma anche come dialogo. Si instaura un dialogo che, nel caso del tennis, molte volte riesce a diventare artistico.

Nel campo di gioco come nell’esistenza, a volte ci sentiamo soli, altre volte sostenuti da chi gioca con noi questa partita della vita. Ma, anche quando giochiamo “singoli”, siamo sempre alla presenza del Signore che ci insegna che cosa significa il rispetto, la comprensione e il bisogno di una comunicazione costante con l’altro.

Per concludere, mi permetto di dirvi un’ultima cosa, voi avete formato figure del tennis internazionale, ed è una grande sfida, ma quando lavoriamo con questi bambini, che sognano un futuro sportivo di eccellenza, le esigenze dell’allenamento non possono prevalere sulla loro crescita integrale; non c’è niente di più importante di questo sviluppo umano e spirituale. E lo sport deve aiutare questo sviluppo, non essere il centro, ma aiutare questo. Perciò vi chiedo: prendetevi cura dei bambini, prendetevi cura di quanti possono beneficiare dei valori dello sport in ambiti sociali complessi, e anche di quanti potrebbero avere successo in competizioni di alto livello. Che non smettano di essere bambini! Grazie. 
 

[Benedizione]

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 23, lunedì 29 gennaio 2024, p. 10.

Angelus, 28 gennaio 2024

Dom, 28/01/2024 - 12:00

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo odierno ci presenta Gesù mentre libera una persona posseduta da uno “spirito maligno” (cfr Mc 1,21-28), che la straziava e continuava a farla gridare (cfr vv. 23.26). Così fa il diavolo: vuole possedere per “incatenarci l’anima”. Incatenarci l’anima: questo vuole il diavolo. E noi dobbiamo stare attenti alle “catene” che ci soffocano la libertà. Perché il diavolo ti toglie la libertà, sempre. Proviamo allora a dare dei nomi ad alcune di queste catene che possono stringerci il cuore.

Penso alle dipendenze, che rendono schiavi, sempre insoddisfatti, e divorano energie, beni e affetti; penso alle mode dominanti, che spingono a perfezionismi impossibili, al consumismo e all’edonismo, che mercificano le persone e ne guastano le relazioni. E altre catene: ci sono le tentazioni e i condizionamenti che minano l’autostima, la serenità e la capacità di scegliere e di amare la vita; un’altra catena: la paura, che fa guardare al futuro con pessimismo, e l’insofferenza, che getta la colpa sempre sugli altri; e poi c’è la catena molto brutta: l’idolatria del potere, che genera conflitti e ricorre ad armi che uccidono o si serve dell’ingiustizia economica e della manipolazione del pensiero. Tante catene ci sono nella nostra vita.

E Gesù è venuto a liberarci da tutte queste catene. E oggi, alla sfida del diavolo che gli grida: «Che vuoi […]? Sei venuto a rovinarci?» (v. 24), risponde: «Taci! Esci da lui!» (v. 25). Gesù ha il potere di cacciare via il diavolo. Gesù libera dal potere del male, e stiamo attenti: caccia via il diavolo ma non dialoga con lui! Mai Gesù ha dialogato con il diavolo; e quando è stato tentato nel deserto, le sue risposte erano parole della Bibbia, mai un dialogo. Fratelli e sorelle, con il diavolo non si dialoga! State attenti: con il diavolo non si dialoga, perché se tu ti metti a dialogare con lui, vince lui, sempre. State attenti.

Cosa fare allora quando ci sentiamo tentati e oppressi? Negoziare con il diavolo? No, non si negozia con lui. Dobbiamo invocare Gesù: invocarlo lì, dove sentiamo che le catene del male e della paura stringono più fortemente. Il Signore, con la forza del suo Spirito, desidera ripetere anche oggi al maligno: “Vattene, lascia in pace quel cuore, non dividere il mondo, le famiglie, le comunità; lasciale vivere serene, perché vi fioriscano i frutti del mio Spirito, non i tuoi – così dice Gesù –, perché tra loro regnino l’amore, la gioia, la mitezza, e al posto di violenze e grida di odio ci siano libertà e pace”.

Chiediamoci allora: io voglio davvero la libertà da quelle catene che mi stringono il cuore? E poi, so dire “no” alle tentazioni del male, prima che si insinuino nell’anima? Infine, invoco Gesù, gli permetto di agire in me, per risanarmi dentro?

La Vergine Santa ci custodisca dal male

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Ormai da tre anni il pianto del dolore e il rumore delle armi hanno preso il posto del sorriso che caratterizza la popolazione del Myanmar. Mi unisco perciò alla voce di alcuni Vescovi birmani, «affinché le armi della distruzione si trasformino in strumenti per crescere in umanità e giustizia». La pace è un cammino e invito tutte le parti coinvolte a muovere passi di dialogo e a rivestirsi di comprensione, perché la terra del Myanmar raggiunga la meta della riconciliazione fraterna. Sia consentito il transito di aiuti umanitari per garantire il necessario ad ogni persona.

E lo stesso avvenga in Medio Oriente, Palestina e Israele, e ovunque si combatte: si rispettino le popolazioni! Penso sempre in modo accorato a tutte le vittime, specialmente civili, causate dalla guerra in Ucraina. Per favore, si ascolti il loro grido di pace: il grido della gente, che è stanca della violenza e vuole che si fermi la guerra, che è un disastro per i popoli e disfatta per l’umanità!

Ho appreso con sollievo della liberazione delle Religiose e delle altre persone rapite con loro ad Haiti la scorsa settimana. Chiedo che siano messi in libertà quanti sono ancora sequestrati e che finisca ogni forma di violenza; tutti offrano il proprio contributo per lo sviluppo pacifico del Paese, per il quale occorre un rinnovato sostegno della Comunità internazionale.

Esprimo la mia vicinanza alla comunità della chiesa di Santa Maria a Istanbul, che durante la Messa ha subito un attacco armato che ha provocato un morto e diversi feriti.

Si celebra oggi la Giornata mondiale dei malati di lebbra. Incoraggio quanti sono impegnati nel soccorso e nel reinserimento sociale di persone colpite da questa malattia che, pur essendo in regresso, è ancora tra le più temute e colpisce i più poveri ed emarginati.

Saluto tutti voi che siete venuti da Roma, dall’Italia e da tante parti del mondo. In particolare gli alunni dell’Istituto “Puente Ajuda”, di Olivenza (Spagna), e quelli dell’Istituto “Sir Michelangelo Refalo” di Gozo.

Mi rivolgo ora a voi, ragazzi e ragazze dell’Azione Cattolica, delle parrocchie e delle scuole cattoliche di Roma. Siete venuti al termine della “Carovana della Pace”, durante la quale avete riflettuto sulla chiamata ad essere custodi del creato, dono di Dio. Grazie per la vostra presenza! E grazie per il vostro impegno di costruire una società migliore. Adesso ascoltiamo il messaggio che questi vostri amici, qui accanto a me, ci leggeranno.

[lettura del messaggio]

Auguro a tutti una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Avete visto che i giovani, i bambini dell’Azione Cattolica sono bravi! Coraggio! Buon pranzo e arrivederci!

Ai Cresimandi dell'Arcidiocesi di Bari-Bitonto (27 gennaio 2024)

Sab, 27/01/2024 - 10:15

Cari ragazzi, benvenuti!

Saluto il vostro Vescovo, Mons. Giuseppe Satriano, i genitori, i familiari, i catechisti e tutti voi, che avete riempito di gioia questa grande sala, e anche oltre la sala! Grazie!

Vi preparate a ricevere il Sacramento della Cresima, che si chiama anche Confermazione, perché conferma il dono e gli impegni del Battesimo. E allora vi faccio subito una domanda: chi di voi conosce la data del suo Battesimo? Pochi eh? Pochi… Chi se la ricorda? Vediamo… non solo i ragazzi, ma anche i genitori e i catechisti, perché magari se la sono dimenticata pure loro! Alzi la mano chi conosce la data del suo Battesimo… Sono pochi! Ma andiamo avanti tranquilli. … E dopo, chi non se la ricorda, o proprio non la sa, si prenda l’impegno di cercarla, la chieda ai genitori, ai padrini: “quale è stato il giorno del mio battesimo?”, e non dimenticarla mai: è come un compleanno, una cosa molto bella. Perché la data del battesimo va festeggiata ogni anno come un secondo compleanno. Fatevi fare anche la torta con le candeline: una torta in più – mica male!

Ve lo dico, però, non per scherzo, ma perché la data del nostro Battesimo è davvero una data importantissima! Infatti quel giorno siamo nati alla vita cristiana, alla vita in Gesù, che dura per sempre, che è una vita eterna, per sempre! Poi siamo entrati nella grande famiglia della Chiesa, e lo Spirito Santo è venuto ad abitare in noi e non ci abbandona più; e infine abbiamo ricevuto l’eredità più grande che ci sia: il Paradiso!

Pensate che dono immenso è il Battesimo! E con la Cresima cosa succede? Voi che vi state preparando, cosa succede con la Cresima? Succede che tutto questo viene confermato, cioè reso più saldo, più forte. Da chi? Prima di tutto dallo Spirito Santo, che ci rinnova con i suoi doni; poi dalla Chiesa, che ci affida il compito di annunciare Gesù e il suo Vangelo; e infine da noi stessi, che accettiamo questa missione come un impegno personale, da protagonisti e non da spettatori.

A questo proposito, voglio ricordarvi l’esempio di un ragazzo come voi, un tipo davvero speciale: si chiamava Carlo, forse avete sentito parlare di lui, Carlo Acutis. Lo conoscete. È vissuto a Milano. Purtroppo è morto molto giovane, nel 2006, a soli 15 anni, ma nella sua vita ha fatto in pochi anni moltissime cose belle. Soprattutto era appassionatissimo di Gesù; e poiché era molto bravo a muoversi in internet, l’ha utilizzato a servizio del Vangelo, diffondendo l’amore per la preghiera, la testimonianza della fede e la carità verso gli altri.

Tre cose importanti: preghiera, testimonianza e carità. Avete capito? Preghiera, testimonianza e carità. Diciamolo insieme: “preghiera, testimonianza e carità”. Non ho sentito… “Preghiera, testimonianza e carità”. Adesso ho sentito, va bene. Queste cose, Carlo Acutis le ha vissute con tanto impegno: stava molto tempo con Gesù, specialmente nella Messa, a cui partecipava ogni giorno, e pregava davanti al Tabernacolo, per poi annunciare a tutti, con le parole e con gesti d’amore, che Dio ci ama e ci aspetta sempre. Sentite questo: “Dio ci ama e ci aspetta sempre”. Avete capito? Diciamolo insieme: “Dio ci ama e ci aspetta sempre”. Non ho sentito… [ripetono] “Dio ci ama e ci aspetta sempre”. Bravi!

Allora, ragazzi e ragazze, mentre si avvicina il giorno della vostra Cresima, vi propongo di fare così anche voi. Andate da Gesù, incontratelo, e poi dite a tutti che è bello stare con Gesù, perché ci ama e ci aspetta sempre! Cosa fa Gesù? [ripetono] “Ci ama e ci aspetta sempre”. Avete imparato, va bene. Anzi, diciamolo sempre, questo che abbiamo detto. Bravi! Continuate così, gridate a tutti questo messaggio: non solo con le parole, ma soprattutto con gesti d’amore: aiutando gli altri, specialmente chi ha più bisogno. E qual era il messaggio? [ripetono] “Gesù ci ama e ci aspetta sempre”. Siete intelligenti e avete imparato bene! Grazie.

Vi auguro buon cammino, insieme ai vostri catechisti e ai vostri genitori e familiari. Siate testimoni di quanto è bello stare con Gesù e di quanto Lui ci ama. Vi benedico tutti di cuore. E per favore, pregate per me. E qual era il messaggio? [ripetono] “Gesù ci ama e ci aspetta sempre”. Bravi!

Adesso vi darò la benedizione, ma tutti insieme, prima, preghiamo la Madonna perché ci aiuti a incontrare Gesù. Tutti insieme: Ave o Maria, …

[Benedizione]

Ai membri dell'Associazione "Nolite timere" (27 gennaio 2024)

Sab, 27/01/2024 - 09:45

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Saluto voi tutti che da Giugliano e da altre località siete giunti di buon mattino in Vaticano per questo incontro. Sono venuto a sapere che c’è stato un incidente e che ancora devono arrivare due bus: salutateli da parte mia. Vi do il benvenuto nel venticinquesimo anniversario di fondazione della vostra Associazione, nata a beneficio dei bambini della Cité des Jeunes Nazareth a Mbare, in Ruanda, per iniziativa di S.E. Monsignor Salvatore Pennacchio – ne fai di cose tu! –, allora Nunzio Apostolico in quel Paese, e del compianto Parroco don Tommaso Cuciniello. Fu San Giovanni Paolo II a patrocinare questa iniziativa, a favore dei numerosi orfani provocati dal terribile genocidio che si scatenò in Ruanda nel 1994. Ah quel genocidio! Era terribile, terribile. Non bisogna dimenticarlo mai, per non ricadere.

Il vostro slogan dice: «Doniamo la speranza di ricominciare!». Ricominciare. È molto bello, ed è bello che l’abbiate vissuto in modo concreto, accogliendo alla Cité centinaia di bambini e, con l’adozione a distanza, provvedendo i mezzi per il loro sostentamento e per la loro formazione scolastica e religiosa. In proposito, un grazie va anche alla Congregazione delle Suore Bizeramariya e ai Sacerdoti della Diocesi di Kabgayi, al cui Vescovo rivolgo il mio saluto.

Nello stemma della Cité è raffigurato un paniere ruandese, simbolo di solidarietà e di condivisione. E questo ci ricorda, in un mondo in cui sembrano moltiplicarsi sempre più muri e divisioni tra le persone e tra i popoli, che la carità non ha barriere, come dimostra la vostra storia. Attraverso l’apporto di tante persone, membri, volontari e benefattori, infatti, da un quarto di secolo voi lavorate insieme per i ragazzi, con spirito aperto e con amore incondizionato, uniti dal comune desiderio di ridonare loro il sorriso e una speranza per il futuro. Perché – ricordiamolo – la guerra e le armi tolgono il sorriso e l’avvenire ai bambini, e questo è tragico. È bello invece che voi vi proponiate, nella solidarietà, di creare occasioni di amicizia, dando vita a rapporti che poi durano nel tempo. Si crea così una rete di affetti che si estende oltre le circostanze del momento, travalicando le differenze di età, nazionalità, cultura e condizione sociale.

Questo ci mostra che essere “volontari” è molto più che prestare un servizio o dare un contributo economico: «è una scelta che ci rende […] aperti alle necessità dell’altro […] – il volontario è aperto alle necessità dell’altro –, artigiani di misericordia: con le mani, con gli occhi, con gli orecchi attenti, con la vicinanza» (Videomessaggio con l’intenzione di preghiera per il mese di dicembre 2022).

Cari fratelli e sorelle, grazie per quello che fate, grazie! Alla Madonna, Regina della Pace, venerata nella Chiesa dell’Annunziata a Giugliano, e a San Giuliano Martire, Patrono della città, che oggi festeggiate, affidiamo assieme il vostro lavoro. Preghiamo che cessino nel mondo violenze e conflitti, a causa dei quali ancora, purtroppo, troppi bambini continuano a soffrire, ad essere sfruttati e a morire, e facciamoci eco, con forza, delle parole di San Paolo VI: «Mai più la guerra!» (Discorso alle Nazioni Unite, 4 ottobre 1965). Mai più!

Vi benedico, assieme ai vostri cari e vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie.

Ai partecipanti alla Conferenza degli Ambasciatori del Sovrano Militare Ordine di Malta (27 gennaio 2024)

Sab, 27/01/2024 - 09:15

Gran Maestro,
Eminenze, Eccellenze
,

cari Membri del Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta, vi do il benvenuto e vi saluto cordialmente! Da secoli il vostro Ordine serve Dio e la Chiesa adempiendo le finalità per cui siete stati fondati dal Beato Gerardo, cioè «promuovere la gloria di Dio e la santificazione dei membri attraverso la tuitio fidei e l’obsequium pauperum», come recita la vostra Carta Costituzionale (art. 2 §1). Tutela della fede e ossequio dei poveri: insieme.

Circa l’ossequio dei poveri, avete un modo molto significativo di chiamare i vostri assistiti: “i signori malati”. Date loro la signoria, e questo è molto bello. Servendo loro, servite Gesù. Poco prima della passione, anch’Egli, come narrano i Vangeli (cfr Mt 26,6-13; Gv 12,1-8), ha ricevuto da Maria di Betania un atto di “ossequio”: un’unzione con olio profumato di vero nardo, assai prezioso. Cristo accolse molto bene il gesto e, alle proteste indignate di chi lo riteneva uno spreco, rivelò il senso di quell’atto di amore, compiuto in vista della sua sepoltura. Come Maria a Betania ha mostrato il suo obsequium nei confronti del Signore, che da ricco si è fatto povero per noi (cfr 2 Cor 8,9), così noi, suoi discepoli, siamo chiamati a continuare a ossequiarlo nei poveri, che – disse il Maestro in quella occasione – abbiamo sempre con noi (cfr Gv 12,8). E siamo tenuti a farlo con amore e umiltà, senza retorica e ostentazione.

Dopo il gesto di Maria, Gesù aggiunse: «In verità io vi dico: dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto» (Mt 26,13). Cristo ha così congiunto la predicazione del Vangelo e l’elogio del servizio ai poveri. Infatti la tuitio fidei e l’obsequium pauperum non si possono separare. E quando ci avviciniamo agli ultimi, agli ammalati, agli afflitti, ricordiamo che quanto facciamo è un segno della compassione e della tenerezza di Gesù. In tal senso la vostra opera non è solo umanitaria, come quella meritoria di tante altre istituzioni: è un’azione religiosa, che dà gloria a Dio nel servire i più deboli e testimonia la predilezione del Signore per loro.

In questa prospettiva va considerata anche l’attività diplomatica che svolgete in tante parti del mondo, in ben 113 Paesi e in 37 missioni presso le Organizzazioni internazionali. È sempre l’attività di un Ordine religioso: se non avesse lo scopo di testimoniare l’amore di Dio per i bisognosi, non avrebbe senso che sia svolta da un Ordine religioso. Infatti, non esistono due diverse realtà, quella del Sovrano Militare Ordine di Malta, soggetto internazionale deputato alle opere caritative ed assistenziali, e quella dell’Istituto religioso; non si può distinguere nettamente tra Gran Maestro quale Sovrano dell’Ordine, da cui derivano le prerogative sovrane e i titoli, e Gran Maestro quale Superiore religioso (cfr Carta Costituzionale, art. 12).

Il vostro Ordine, guidato dal proprio Moderatore Supremo, per peculiari circostanze storiche ha acquisito anche uno status internazionale e così sono sorte le prime “ambascerie”. Perciò all’ufficio di Moderatore Supremo del Gran Maestro, oltre ai doveri e ai diritti consueti, se ne sono aggiunti altri in ambito internazionale. Ma, come ricorda sempre la Carta Costituzionale (cfr art. 4), la sovranità è funzionale alla tuitio fidei e all’obsequium pauperum. Nasce da questo. Lo precisa bene la Sentenza del Tribunale cardinalizio, appositamente costituito da Papa Pio XII, affermando che il vostro è «un Ordine religioso, approvato dalla Santa Sede», e che «la qualità di Ordine sovrano della Istituzione è funzionale, ossia diretta ad assicurare il raggiungimento dei fini dell’Ordine stesso e il suo sviluppo nel mondo», per cui «dipende dalla Santa Sede» (AAS 45, 1953, 766-767).

In tal modo si delinea la rilevanza dell’Ordine in ambito internazionale, come strumento di azione apostolica, con la sua subordinazione, in quanto Ordine religioso, alla Santa Sede, e la sua obbedienza al Papa, come supremo Superiore di tutti gli Istituti religiosi (cfr CIC, 590). Perciò è importante che tra il Rappresentante diplomatico dell’Ordine e il Legato Pontificio del luogo si stabilisca un rapporto di proficua collaborazione, in un’azione congiunta per il bene della Chiesa e della società; così pure, il legame dell’Ordine con il Papa non è una limitazione della sua libertà, ma una custodia, che si esprime nella sollecitudine di Pietro per procurarne il maggior bene, come avvenuto più di una volta anche con interventi diretti in momenti di difficoltà.

La dipendenza dell’Ordine di Malta dalla Santa Sede non diminuisce dunque l’importanza delle sue rappresentanze diplomatiche, anzi ne fa cogliere ancora più pienamente il senso, in quanto canali dell’attività apostolico-caritativa dell’Ordine, aperti e generosi specialmente là, dove c’è più bisogno. Mi piace molto la terminologia usata da alcuni di voi, che considerano la vostra una “diplomazia umanitaria”. Il Rappresentante diplomatico è portatore del carisma dell’Ordine, per cui si sente chiamato a svolgere il suo incarico come una missione ecclesiale. Questa natura peculiare della vostra diplomazia, lungi dal diminuirne l’importanza, è una testimonianza preziosa, un segno eloquente anche per le altre ambasciate, affinché pure la loro attività sia volta al bene concreto dei popoli e tenga in alta considerazione i più deboli.

Carissimi, vi sono molto grato per la missione che svolgete e invoco su di voi la protezione della Madonna del Fileremo, a cui l’Ordine è devoto. Vi benedico e vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie!

Ai partecipanti alla Plenaria del Dicastero per la Dottrina della Fede (26 gennaio 2024)

Ven, 26/01/2024 - 11:00

Signori Cardinali,
cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
fratelli e sorelle!

Vi do il benvenuto al termine della vostra Assemblea Plenaria. Saluto il Prefetto e gli altri Superiori, gli Officiali e i Membri del Dicastero: a tutti la mia riconoscenza per il vostro prezioso lavoro.

Come stabilisce la Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium, il «compito del Dicastero per la Dottrina della Fede è aiutare il Romano Pontefice e i Vescovi nell’annuncio del Vangelo in tutto il mondo, promuovendo e tutelando l’integrità della dottrina cattolica sulla fede e la morale, attingendo al deposito della fede e ricercandone anche una sempre più profonda intelligenza di fronte alle nuove questioni» (art. 69).

Proprio per raggiungere tali fini, già con il motu proprio Fidem servare (11 febbraio 2022) sono state create all’interno del Dicastero due Sezioni distinte: quella Dottrinale e quella Disciplinare. Nella lettera che ho inviato al Prefetto il 1° luglio 2023, in occasione della sua nomina, ho fatto riferimento a tale provvedimento per definire meglio il suo incarico e la missione attuale del Dicastero. Da un lato, ho sottolineato l’importanza della presenza di professionisti competenti nell’ambito della Sezione Disciplinare, per assicurare attenzione e rigore nell’applicazione della legislazione canonica vigente, in particolare nella gestione dei casi di abusi su minori da parte di chierici, e promuovere iniziative di formazione canonica per gli Ordinari e per gli operatori del diritto. Dall’altro lato, ho insistito sull’urgenza di dare maggiore spazio e attenzione all’ambito proprio della Sezione Dottrinale, dove non mancano teologi preparati e personale qualificato, anche per il lavoro nell’Ufficio Matrimoniale e nell’Archivio, di cui ricordo il 25° anniversario di apertura al pubblico ad opera di San Giovanni Paolo II e del Cardinale Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione, nell’imminenza del Grande Giubileo dell’Anno 2000.

Il Dicastero si vede così impegnato nell’ambito dell’intelligenza della fede di fronte al cambiamento d’epoca che caratterizza il nostro tempo. In tale direzione, vorrei condividere con voi alcuni pensieri, che raccolgo attorno a tre parole: sacramenti, dignità e fede.

Sacramenti. In questi giorni avete riflettuto sul tema della validità dei Sacramenti. La vita della Chiesa si nutre e cresce grazie ad essi. Per tale ragione, ai ministri è richiesta una particolare cura nell’amministrarli e nel dischiudere ai fedeli i tesori di grazia che comunicano. Mediante i Sacramenti, i credenti diventano capaci di profezia e di testimonianza. E il nostro tempo ha bisogno con particolare urgenza di profeti di vita nuova e di testimoni di carità: amiamo dunque e facciamo amare la bellezza e la forza salvifica dei Sacramenti!

La seconda parola: dignità. In quanto cristiani, non dobbiamo stancarci di insistere «sul primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza» (Esort. ap. Laudate Deum, 39). So che state lavorando a un documento su questo argomento. Auspico che possa aiutarci, come Chiesa, a essere sempre vicini «a tutti coloro che, senza proclami, nella vita concreta di ogni giorno, lottano e pagano di persona per difendere i diritti di chi non conta» (Angelus, 10 dicembre 2023) e fare sì che, «di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole» (Lett. enc. Fratelli tutti, 6).

La terza parola è fede. In proposito vorrei ricordare due eventi: il decimo anniversario, da poco compiuto, dell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium e l’ormai prossimo Giubileo, nel quale rinnoveremo la fede in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, speranza della storia e del mondo. Non possiamo però nasconderci che in estese aree del pianeta la fede – come ebbe a dire Benedetto XVI – «non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata» (Lett. ap. in forma di Motu proprio Porta fidei, 2). È tempo, perciò, di riflettere nuovamente e con maggiore passione su alcuni temi: l’annuncio e la comunicazione della fede nel mondo attuale, specialmente alle giovani generazioni; la conversione missionaria delle strutture ecclesiali e degli agenti pastorali; le nuove culture urbane, con il loro carico di sfide ma anche di inedite domande di senso; infine e soprattutto, la centralità del kerigma nella vita e nella missione della Chiesa.

Qui è atteso un aiuto da parte del Dicastero: “custodire la fede” si traduce oggi in un impegno di riflessione e di discernimento, perché l’intera comunità si adoperi a una reale conversione pastorale e missionaria kerigmatica, che potrà aiutare anche il cammino sinodale in corso. Ciò che per noi è essenziale, più bello, più attraente e allo stesso tempo più necessario è la fede in Cristo Gesù. Tutti insieme, a Dio piacendo, la rinnoveremo solennemente nel corso del prossimo Giubileo e ciascuno di noi è chiamato ad annunciarla a ogni uomo e donna della terra. Questo è il compito fondamentale della Chiesa, al quale ho dato voce proprio in Evangelii gaudium.

In tale contesto di evangelizzazione accenno pure alla recente Dichiarazione Fiducia supplicans. L’intento delle “benedizioni pastorali e spontanee” è quello di mostrare concretamente la vicinanza del Signore e della Chiesa a tutti coloro che, trovandosi in diverse situazioni, chiedono aiuto per portare avanti – talvolta per iniziare – un cammino di fede. Vorrei sottolineare brevemente due cose: la prima è che queste benedizioni, fuori di ogni contesto e forma di carattere liturgico, non esigono una perfezione morale per essere ricevute; la seconda, che quando spontaneamente si avvicina una coppia a chiederle, non si benedice l’unione, ma semplicemente le persone che insieme ne hanno fatto richiesta. Non l’unione, ma le persone, naturalmente tenendo conto del contesto, delle sensibilità, dei luoghi in cui si vive e delle modalità più consone per farlo.

Carissimi, vi rinnovo la gratitudine per il vostro servizio e vi incoraggio ad andare avanti con l’aiuto del Signore. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

Ai membri della Commissione mista internazionale per il Dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali; e ai Partecipanti alla Visita di studio annuale di giovani sacerdoti e monaci delle Chiese ortodosse orientali (26...

Ven, 26/01/2024 - 10:30

Carissimi in Cristo,

«a voi grazia e pace in abbondanza!» (1 Pt 1,2). Con queste parole dell’Apostolo Pietro vi saluto cordialmente, riconoscente a Sua Grazia Kyrillos per le sue cortesi parole e a tutti voi per la presenza e per l’impegno a camminare insieme nei sentieri dell’unità, che sono anche sentieri di pace. Sostenuti dai santi e dai martiri che dal cielo uniti ci accompagnano, preghiamo e adoperiamoci senza stancarci per la comunione e per contrastare la carestia di pace che sta attraversando tante parti della terra, anche diverse regioni da cui voi provenite.

Oggi è per me una gioia doppia accogliervi, perché in questo ventesimo anniversario della vostra Commissione avete voluto essere accompagnati da una delegazione di giovani sacerdoti e monaci delle Chiese ortodosse orientali. Così la presenza dei giovani nutre la speranza e la preghiera guida il cammino! Attraverso di voi vorrei far giungere il più caloroso saluto ai miei venerabili e cari Fratelli, Capi delle Chiese ortodosse orientali, alcuni dei quali mi hanno onorato con le loro visite lo scorso anno: penso a Sua Santità Tawadros, a Sua Santità Baselios Marthoma Mathews III e a Sua Santità Aphrem.

Queste visite sono preziose, perché permettono al “dialogo della carità” di andare di pari passo con il “dialogo della verità” che la vostra Commissione porta avanti. Sin dai primi tempi della Chiesa tali visite, così come lo scambio di lettere, di delegazioni e di doni, sono stati segni e mezzi di comunione; la vostra Commissione lo ha notato nel documento intitolato «L’esercizio della comunione nella vita della Chiesa primitiva e le sue ripercussioni sulla nostra ricerca di comunione oggi». Questi gesti, radicati nel riconoscimento dell’unico Battesimo, non sono semplici atti di cortesia o di diplomazia, ma hanno un significato ecclesiale e possono essere considerati dei veri e propri loci theologici. Come ha affermato San Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint: «Il riconoscimento della fraternità [...] va ben al di là di un atto di cortesia ecumenica e costituisce una basilare affermazione ecclesiologica» (n. 42).

In questo senso, sono convinto che il “dialogo della carità” non deve essere inteso solo come una preparazione al “dialogo della verità”, ma come una “teologia in azione”, capace di aprire nuove prospettive al cammino delle nostre Chiese. In un momento in cui, grazie a Dio, i rapporti tra di noi si intensificano, mi sembra bello rileggere il nostro tessuto di relazioni sviluppando una “teologia del dialogo nella carità”.

Carissimi, la vostra Commissione ha tenuto il suo primo incontro al Cairo nel gennaio del 2004. Da allora si è riunita quasi ogni anno e ha adottato tre importanti documenti di natura ecclesiologica, che riflettono la ricchezza delle tradizioni cristiane da voi rappresentate: copta, siriaca, armena, malankarese, etiopica, eritrea e latina. Il vostro dialogo, che riunisce tanta ricchezza, si è impreziosito nel pensare l’unità nella diversità, come testimonia il primo documento che avete elaborato: in esso si dice che, «radicandosi nella diversità dei contesti culturali, sociali e umani, la Chiesa assume diverse espressioni teologiche della stessa fede e diverse forme di discipline ecclesiastiche, riti liturgici e patrimoni spirituali in ogni parte del mondo. Questa ricchezza mostra in modo ancora più splendido la cattolicità dell’unica Chiesa» (Natura, costituzione e missione della Chiesa, 2009, n. 20).

Un’altra caratteristica del vostro dialogo è la costante preoccupazione pastorale, illustrata dall’ultimo documento su «I Sacramenti nella vita della Chiesa». A questo proposito, merita di proseguire la recente iniziativa di organizzare visite annuali e reciproche di studio per giovani sacerdoti e monaci. Quattro delegazioni di giovani sacerdoti e monaci ortodossi orientali sono già venute a Roma per meglio conoscere la Chiesa cattolica, su invito del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, che ringrazio, e una delegazione di giovani presbiteri cattolici si è recata ad Etchmiadzin lo scorso anno su invito della Chiesa apostolica armena. Coinvolgere i giovani nell’avvicinamento delle nostre Chiese è un segno dello Spirito, che ringiovanisce la Chiesa nell’armonia, ispirando vie di comunione, donando saggezza alle nuove generazioni e profezia agli anziani (cfr Gl 3,1). Prosegua nel segno dello Spirito questo “dialogo della vita”! E non dimentichiamo che l’armonia la fa lo Spirito Santo.

Dialogo della carità, dialogo della verità, dialogo della vita: tre modi inseparabili di procedere nel cammino ecumenico che la vostra Commissione promuove da vent’anni. Vent’anni: è l’età della giovinezza, quella in cui si maturano le scelte decisive. Che questo anniversario sia allora l’occasione per lodare Dio per il percorso compiuto, facendo memoria grata di quanti vi hanno contribuito attraverso la competenza teologica e la preghiera, e possa pure rinnovare la convinzione che la piena comunione tra le nostre Chiese non solo è possibile, ma urgente e necessaria «perché il mondo creda» (Gv 17,21).

E, poiché la fase attuale del vostro dialogo riguarda la Vergine Maria nell’insegnamento e nella vita della Chiesa, vi propongo di affidare il vostro lavoro a lei, la Santa Madre di Dio e Madre nostra. Possiamo anche stavolta invocarla insieme con le parole di una preghiera antica, una preghiera stupenda che ci accomuna, chiamata in latino Sub tuum praesidium, e che si trova nei vostri libretti. Preghiamo la Madre di Dio:

Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta! Amen.

Alla Delegazione della Rete Mondiale di Preghiera del Papa (26 gennaio 2024)

Ven, 26/01/2024 - 10:00

Vi ringrazio molto per la visita. Apprezzo il lavoro che svolgete, che è ecclesiale ed è nato in seno alla Compagnia di Gesù. Nel lavoro apostolico di un fedele, di un diacono, di un sacerdote, di un consacrato, di una consacrata, di un vescovo, se lo si porta avanti in modo corretto, si sente fortemente il bisogno della preghiera e dell’intercessione. L’azione, anche se apostolica, senza preghiera, è solo imprenditoriale. Ciò che dà senso all’apostolato è la preghiera. Mi ha sempre colpito molto quello che Pietro disse agli apostoli dopo aver istituito i diaconi. Disse loro: “e a noi” — cioè ai vescovi — resta “dedicarci alla preghiera e all’annuncio della Parola” (cfr. At 6, 4). Ossia, il primo dovere di un vescovo è pregare. Primo dovere di un cristiano è pregare, la preghiera. Altrimenti corriamo il rischio di diventare un’istituzione puramente naturale, mondana, con un lavoro di tipo politico.

Per questo vi ringrazio per quello che fate per sostenere nella Chiesa — nei laici e anche nelle persone consacrate od ordinate —, questa mistica di preghiera. Grazie allora per quello che fate.

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 21, venerdì 26 gennaio 2024, p. 6.

Solennità della Conversione di San Paolo Apostolo - Celebrazione dei Secondi Vespri (25 gennaio 2024)

Gio, 25/01/2024 - 17:30

Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, il dottore della Legge, sebbene si rivolga a Gesù chiamandolo «Maestro», non vuole lasciarsi istruire da lui, ma «metterlo alla prova». Una falsità ancora più grande emerge però dalla sua domanda: «Che devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25). Fare per ereditare, fare per avere: ecco una religiosità distorta, basata sul possesso anziché sul dono, dove Dio è il mezzo per ottenere ciò che voglio, non il fine da amare con tutto il cuore. Ma Gesù è paziente e invita quel dottore a trovare la risposta nella Legge di cui era esperto, la quale prescrive: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10,27).

Allora quell’uomo, «volendo giustificarsi», pone un secondo interrogativo: «E chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29). Se la prima domanda rischiava di ridurre Dio al proprio “io”, questa cerca di dividere: dividere le persone in chi si deve amare e in chi si può ignorare. E dividere non è mai da Dio: è dal diavolo, che è  divisore. Gesù, però, non replica facendo teoria, ma con la parabola del buon samaritano, con una storia concreta, che chiama in causa anche noi. Perché, cari fratelli e sorelle, a comportarsi male, con indifferenza, sono il sacerdote e il levita, i quali antepongono ai bisogni di chi soffre la tutela delle loro tradizioni religiose. A dare senso alla parola “prossimo” è invece un eretico, un Samaritano, perché si fa prossimo: prova compassione, si avvicina e teneramente si china sulle ferite di quel fratello; si prende cura di lui, indipendentemente dal suo passato e dalle sue colpe, e lo serve con tutto sé stesso (cfr Lc 10,33-35). Ciò permette a Gesù di concludere che la domanda corretta non è “Chi è il mio prossimo?”, ma: “Io mi faccio prossimo?” Solo questo amore che diventa servizio gratuito, solo questo amore che Gesù ha proclamato e vissuto, avvicinerà i cristiani separati gli uni agli altri. Sì, solo questo amore, che non torna sul passato per prendere le distanze o puntare il dito, solo questo amore che in nome di Dio antepone il fratello alla ferrea difesa del proprio sistema religioso, solo questo amore ci unirà. Prima il fratello, dopo il sistema.

Fratelli e sorelle, tra di noi non dovremmo mai porci la domanda “chi è il mio prossimo?”. Perché ogni battezzato appartiene allo stesso Corpo di Cristo; e di più, perché ogni persona nel mondo è mio fratello, mia sorella, e tutti componiamo la “sinfonia dell’umanità”, di cui Cristo è primogenito e redentore. Come ricorda sant’Ireneo, che ho avuto la gioia di proclamare “Dottore dell’unità”, «chi ama la verità non deve lasciarsi trasportare dalla differenza di ciascun suono né immaginare che uno sia l’artefice e il creatore di questo suono e un altro l’artefice e il creatore dell’altro […], ma deve pensare che lo ha fatto uno solo» (Adv. haer. II, 25, 2). Non dunque “chi è il mio prossimo?”, ma “io mi faccio prossimo?” Io e poi la mia comunità, la mia Chiesa, la mia spiritualità, si fanno prossime? O restano barricate in difesa dei propri interessi, gelose della loro autonomia, rinchiuse nel calcolo dei propri vantaggi, intavolando rapporti con gli altri solo per ricavarne qualcosa? Se così fosse, non si tratterebbe solo di sbagli strategici, ma di infedeltà al Vangelo.

Che devo fare per ereditare la vita eterna?”: così era cominciato il dialogo tra il dottore della Legge e Gesù. Ma oggi anche questa prima domanda viene ribaltata grazie all’Apostolo Paolo, di cui celebriamo, nella Basilica a lui dedicata, la conversione. Ebbene, proprio quando Saulo di Tarso, persecutore dei cristiani, incontra Gesù nella visione di luce che lo avvolge e gli cambia la vita, gli chiede: «Che devo fare, Signore?» (At 22,10). Non “che devo fare per ereditare?”, ma “che devo fare, Signore?”: il Signore è il fine della richiesta, la vera eredità, il sommo bene. Paolo non cambia vita sulla base dei suoi obiettivi, non diventa migliore perché realizza i suoi progetti. La sua conversione nasce da un capovolgimento esistenziale, dove il primato non appartiene più alla sua bravura di fronte alla Legge, ma alla docilità nei riguardi di Dio, in una totale apertura a ciò che Lui vuole. Non alla sua bravura ma alla sua docilità: dalla bravura alla docilità. Se Lui è il tesoro, il nostro programma ecclesiale non può che consistere nel fare la sua volontà, nell’andare incontro ai suoi desideri. E Lui, la notte prima di dare la vita per noi, ha ardentemente pregato il Padre per tutti noi, «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Ecco la sua volontà.

Tutti gli sforzi verso la piena unità sono chiamati a seguire lo stesso percorso di Paolo, a mettere da parte la centralità delle nostre idee per cercare la voce del Signore e lasciare iniziativa e spazio a Lui. L’aveva ben compreso un altro Paolo, grande pioniere del movimento ecumenico, l’Abbé Paul Couturier, il quale pregando era solito implorare l’unità dei credenti “come Cristo la vuole”, “con i mezzi che Lui vuole”. Abbiamo bisogno di questa conversione di prospettiva e anzitutto di cuore, perché, come affermò sessant’anni fa il Concilio Vaticano II: «Non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione» (Unitatis redintegratio, 7). Mentre preghiamo insieme riconosciamo, ciascuno a partire da sé stesso, che abbiamo bisogno di convertirci, di permettere al Signore di cambiarci il cuore. Questa è la via: camminare insieme e servire insieme, mettendo la preghiera al primo posto. Infatti, quando i cristiani maturano nel servizio di Dio e del prossimo, crescono anche nella comprensione reciproca, come dichiara ancora il Concilio: «Quanto infatti più stretta sarà la loro comunione col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, tanto più intima e facile potranno rendere la fraternità reciproca» (ibid).

Per questo siamo qui stasera da diversi Paesi, da diverse culture e tradizioni. Sono riconoscente a Sua Grazia Justin Welby¸ Arcivescovo di Canterbury, al Metropolita Policarpo, in rappresentanza del Patriarcato Ecumenico, e a tutti voi, che rendete presenti molte comunità cristiane. Rivolgo un saluto speciale ai membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, che celebrano il XX anniversario del loro cammino, e ai Vescovi cattolici e anglicani che partecipano all’incontro della Commissione internazionale per l’Unità e la Missione. È bello che oggi con il mio fratello, l’Arcivescovo Justin, possiamo conferire a queste coppie di Vescovi il mandato di continuare a testimoniare l’unità voluta da Dio per la sua Chiesa nelle rispettive regioni, andando avanti insieme «a diffondere la misericordia e la pace di Dio in un mondo bisognoso» (Appello dei vescovi IARCCUM, Roma 2016). Saluto anche gli studenti borsisti del Comitato per la Collaborazione Culturale con le Chiese ortodosse del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e i partecipanti alle visite di studio organizzate per giovani sacerdoti e monaci delle Chiese ortodosse orientali, e per gli studenti dell’Istituto Ecumenico di Bossey del Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Insieme, come fratelli e sorelle in Cristo, preghiamo con Paolo dicendo: “Che cosa dobbiamo fare, Signore?”. E nel porre la domanda c’è già una risposta, perché la prima risposta è la preghiera. Pregare per l’unità è il primo compito del nostro cammino. Ed è un compito santo, perché è stare in comunione con il Signore, che per l’unità ha anzitutto pregato il Padre. E continuiamo a pregare pure per la fine delle guerre, specialmente in Ucraina e in Terra Santa. Un pensiero accorato va anche all’amato popolo del Burkina Faso, in particolare alle comunità che lì hanno preparato il materiale per la Settimana di Preghiera per l’Unità: possa l’amore al prossimo prendere il posto della violenza che affligge il loro Paese.

«“Che devo fare, Signore?”. E il Signore – racconta Paolo – mi disse: “Àlzati e prosegui”» (At 22,10). Alzati, dice Gesù a ciascuno di noi e alla nostra ricerca di unità. Alziamoci allora, nel nome di Cristo, dalle nostre stanchezze e dalle nostre abitudini, e proseguiamo, andiamo avanti, perché Lui lo vuole, e lo vuole «perché il mondo creda» (Gv 17,21). Preghiamo, dunque, e andiamo avanti, perché questo Dio desidera da noi. E’ questo che desidera da noi.

Messaggio del Santo Padre per la Campagna di Fraternità 2024 della Chiesa in Brasile (25 gennaio 2024)

Gio, 25/01/2024 - 14:00

Cari fratelli e sorelle del Brasile,

Mentre iniziamo, con digiuno, penitenza e preghiera il cammino quaresimale, mi unisco ai miei fratelli della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile in un inno di rendimento di grazie all’Altissimo per i 60 anni della Campagna di Fraternità, un itinerario di conversione che unisce fede e vita, spiritualità e impegno fraterno, amore a Dio e amore al prossimo, specialmente a chi è più fragile e bisognoso di attenzione. Questo percorso è proposto ogni anno alla Chiesa in Brasile e a tutte le persone di buona volontà di questa amata nazione.

Quest’anno, con il tema “Fraternità e Amicizia Sociale” e il motto “Voi siete tutti fratelli e sorelle” (cfr. Mt 23, 8), i vescovi del Brasile invitano tutto il popolo brasiliano a percorrere, durante la Quaresima, un cammino di conversione basato sulla Lettera Enciclica Fratelli tutti, che ho firmato ad Assisi, il 3 ottobre 2020, vigilia della memoria liturgica di San Francesco.

Come fratelli e sorelle, siamo invitati a costruire una vera fraternità universale che favorisca la nostra vita in società e la nostra sopravvivenza sulla Terra, nostra Casa Comune, senza mai perdere di vista il Cielo dove il Padre ci accoglierà tutti come suoi figli e figlie.

Purtroppo nel mondo vediamo ancora molte ombre, segnali della chiusura in se stessi. Perciò, ricordo il bisogno di allargare la nostra cerchia per arrivare a quelli che spontaneamente non sentiamo parte del nostro mondo di interessi (cfr. Fratelli tutti, n. 97), di estendere il nostro amore a “ogni essere vivente” (ibidem, n. 59), vincendo frontiere e superando “le barriere della geografia e dello spazio” (ibidem, n. 1).

Auspico che la Chiesa in Brasile ottenga buoni frutti in questo cammino quaresimale e formulo voti affinché la Campagna di Fraternità, ancora una volta, aiuti le persone e le comunità di questa amata nazione nel loro processo di conversione al Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo, superando ogni divisione, indifferenza, odio e violenza.

Affidando questi voti alle cure di Nossa Senhora Aparecida, e come pegno di abbondanti grazie celesti, concedo volentieri a tutti i figli e le figlie dell’amata nazione brasiliana, in modo particolare a quelli che s’impegnano per la fraternità universale, la Benedizione Apostolica, chiedendo che continuino a pregare per me.

Roma, San Giovanni in Laterano, 25 gennaio 2024,
Festa liturgica della conversione di San Paolo Apostolo.

Francesco

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 37, mercoledì 14 febbraio 2024, p. 8.

Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2024

Gio, 25/01/2024 - 10:00

Andate e invitate al banchetto tutti (cfr Mt 22,9)

 

Cari fratelli e sorelle!

Per la Giornata Missionaria Mondiale di quest’anno ho tratto il tema dalla parabola evangelica del banchetto nuziale (cfr Mt 22,1-14). Dopo che gli invitati hanno rifiutato l’invito, il re, protagonista del racconto, dice ai suoi servi: «Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze» (v. 9). Riflettendo su questa parola-chiave, nel contesto della parabola e della vita di Gesù, possiamo mettere in luce alcuni aspetti importanti dell’evangelizzazione. Essi si rivelano particolarmente attuali per tutti noi, discepoli-missionari di Cristo, in questa fase finale del percorso sinodale che, in conformità al motto “Comunione, partecipazione, missione”, dovrà rilanciare la Chiesa verso il suo impegno prioritario, cioè l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo.

1. “Andate e invitate!”. La missione come instancabile andare e invitare alla festa del Signore

All’inizio del comando del re ai suoi servi, ci sono i due verbi che esprimono il nucleo della missione: “andate” e “chiamate” nel senso di “invitate”.

Riguardo al primo, va ricordato che in precedenza i servi erano stati già inviati a trasmettere il messaggio del re agli invitati (cfr vv. 3-4). Questo ci dice che la missione è un andare instancabile verso tutta l’umanità per invitarla all’incontro e alla comunione con Dio. Instancabile! Dio, grande nell’amore e ricco di misericordia, è sempre in uscita verso ogni uomo per chiamarlo alla felicità del suo Regno, malgrado l’indifferenza o il rifiuto. Così Gesù Cristo, buon pastore e inviato del Padre, andava in cerca delle pecore perdute del popolo d’Israele e desiderava andare oltre per raggiungere anche le pecore più lontane (cfr Gv 10,16). Egli ha detto ai discepoli: “Andate!”, sia prima sia dopo la sua risurrezione, coinvolgendoli nella sua stessa missione (cfr Lc 10,3; Mc 16,15). Per questo, la Chiesa continuerà ad andare oltre ogni confine, ad uscire ancora e ancora senza stancarsi o perdersi d’animo di fronte a difficoltà e ostacoli, per compiere fedelmente la missione ricevuta dal Signore.

Colgo l’occasione per ringraziare i missionari e le missionarie che, rispondendo alla chiamata di Cristo, hanno lasciato tutto per andare lontano dalla loro patria e portare la Buona Notizia là dove la gente ancora non l’ha ricevuta o l’ha accolta da poco. Carissimi, la vostra generosa dedizione è l’espressione tangibile dell’impegno della missione ad gentes che Gesù ha affidato ai suoi discepoli: «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19). Continuiamo perciò a pregare e ringraziare Dio per le nuove e numerose vocazioni missionarie per l’opera di evangelizzazione sino ai confini della terra.

E non dimentichiamo che ogni cristiano è chiamato a prendere parte a questa missione universale con la propria testimonianza evangelica in ogni ambiente, così che tutta la Chiesa esca continuamente con il suo Signore e Maestro verso i “crocicchi delle strade” del mondo di oggi. Sì, «oggi il dramma della Chiesa è che Gesù continua a bussare alla porta, ma dal di dentro, perché lo lasciamo uscire! Tante volte si finisce per essere una Chiesa […] che non lascia uscire il Signore, che lo tiene come “cosa propria”, mentre il Signore è venuto per la missione e ci vuole missionari» (Discorso ai partecipanti al convegno promosso dal Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, 18 febbraio 2023). Che tutti noi, battezzati, ci disponiamo ad andare di nuovo, ognuno secondo la propria condizione di vita, per avviare un nuovo movimento missionario, come agli albori del cristianesimo!

Tornando al comando del re ai servi nella parabola, l’andare va insieme con il chiamare o, più precisamente, l’invitare: «Venite alle nozze!» (Mt 22,4). Ciò lascia intravedere un altro aspetto non meno importante della missione affidata da Dio. Come si può immaginare, quei servi-messaggeri trasmettevano l’invito del sovrano con urgenza ma anche con grande rispetto e gentilezza. Allo stesso modo, la missione di portare il Vangelo ad ogni creatura deve avere necessariamente lo stesso stile di Colui che si annuncia. Nel proclamare al mondo «la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 36), i discepoli-missionari lo fanno con gioia, magnanimità, benevolenza, frutto dello Spirito Santo in loro (cfr Gal 5,22); senza forzatura, coercizione, proselitismo; sempre con vicinanza, compassione e tenerezza, che riflettono il modo di essere e di agire di Dio.

2. Al banchetto. La prospettiva escatologica ed eucaristica della missione di Cristo e della Chiesa

Nella parabola, il re chiede ai servi di portare l’invito al banchetto per le nozze di suo figlio. Tale banchetto riflette quello escatologico, è immagine della salvezza finale nel Regno di Dio, realizzata fin d’ora con la venuta di Gesù, il Messia e Figlio di Dio, che ci ha donato la vita in abbondanza (cfr Gv 10,10), simboleggiata dalla mensa imbandita «di cibi succulenti, di vini raffinati», quando Dio «eliminerà la morte per sempre» (Is 25,6-8).

La missione di Cristo è quella della pienezza dei tempi, come Egli ha dichiarato all’inizio della sua predicazione: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15). Così, i discepoli di Cristo sono chiamati a continuare questa stessa missione del loro Maestro e Signore. Ricordiamo in proposito l’insegnamento del Concilio Vaticano II sul carattere escatologico dell’impegno missionario della Chiesa: «Il periodo dell’attività missionaria si colloca tra la prima e la seconda venuta di Cristo […]. Prima appunto della venuta del Signore, il Vangelo deve essere annunziato a tutte le nazioni» (Decr. Ad gentes, 9).

Sappiamo che lo zelo missionario nei primi cristiani aveva una forte dimensione escatologica. Sentivano l’urgenza dell’annuncio del Vangelo. Anche oggi è importante tener presente tale prospettiva, perché essa ci aiuta ad evangelizzare con la gioia di chi sa che «il Signore è vicino» e con la speranza di chi è proteso alla meta, quando saremo tutti con Cristo al suo banchetto nuziale nel Regno di Dio. Mentre dunque il mondo propone i vari “banchetti” del consumismo, del benessere egoistico, dell’accumulo, dell’individualismo, il Vangelo chiama tutti al banchetto divino dove regnano la gioia, la condivisione, la giustizia, la fraternità, nella comunione con Dio e con gli altri.

Questa pienezza di vita, dono di Cristo, è anticipata già ora nel banchetto dell’Eucaristia, che la Chiesa celebra su mandato del Signore in memoria di Lui. E così l’invito al banchetto escatologico che portiamo a tutti nella missione evangelizzatrice è intrinsecamente legato all’invito alla mensa eucaristica, dove il Signore ci nutre con la sua Parola e con il suo Corpo e il suo Sangue. Come ha insegnato Benedetto XVI, «in ogni Celebrazione eucaristica si realizza sacramentalmente il radunarsi escatologico del Popolo di Dio. Il banchetto eucaristico è per noi reale anticipazione del banchetto finale, preannunziato dai Profeti (cfr Is 25,6-9) e descritto nel Nuovo Testamento come “le nozze dell’Agnello” (Ap 19,7.9), da celebrarsi nella gioia della comunione dei santi» (Esort. ap. postsin. Sacramentum Caritatis, 31).

Perciò, siamo tutti chiamati a vivere più intensamente ogni Eucaristia in tutte le sue dimensioni, particolarmente in quella escatologica e missionaria. Ribadisco, a tale  proposito, che «non possiamo accostarci alla Mensa eucaristica senza lasciarci trascinare nel movimento della missione che, prendendo avvio dal Cuore stesso di Dio, mira a raggiungere tutti gli uomini» (ivi, 84). Il rinnovamento eucaristico, che molte Chiese locali stanno lodevolmente promuovendo nel periodo post-Covid, sarà anche fondamentale per risvegliare lo spirito missionario in ogni fedele. Con quanta più fede e slancio del cuore, in ogni Messa, dovremmo pronunciare l’acclamazione: «Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta»!

In questa prospettiva, nell’anno dedicato alla preghiera in preparazione al Giubileo del 2025, desidero invitare tutti a intensificare anche e soprattutto la partecipazione alla Messa e la preghiera per la missione evangelizzatrice della Chiesa. Essa, obbediente alla parola del Salvatore, non cessa di innalzare a Dio in ogni celebrazione eucaristica e liturgica l’orazione del Padre nostro con l’invocazione «Venga il Tuo regno». E così la preghiera quotidiana e particolarmente l’Eucaristia fanno di noi dei pellegrini-missionari della speranza, in cammino verso la vita senza fine in Dio, verso il banchetto nuziale preparato da Dio per tutti i suoi figli.

3. “Tutti”. La missione universale dei discepoli di Cristo e la Chiesa tutta sinodale-missionaria

La terza e ultima riflessione riguarda i destinatari dell’invito del re: «tutti». Come ho sottolineato, «questo è al cuore della missione: quel “tutti”. Senza escludere nessuno. Tutti. Ogni nostra missione, quindi, nasce dal Cuore di Cristo per lasciare che Egli attiri tutti a sé» (Discorso ai partecipanti all’Assemblea generale delle Pontificie Opere Missionarie, 3 giugno 2023). Ancora oggi, in un mondo lacerato da divisioni e conflitti, il Vangelo di Cristo è la voce mite e forte che chiama gli uomini a incontrarsi, a riconoscersi fratelli e a gioire dell’armonia tra le diversità. Dio vuole che «tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4). Perciò, non dimentichiamo mai, nelle nostre attività missionarie, che siamo inviati ad annunciare il Vangelo a tutti, e «non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 14).

I discepoli-missionari di Cristo hanno sempre nel cuore la preoccupazione per tutte le persone di ogni condizione sociale o anche morale. La parabola del banchetto ci dice che, seguendo la raccomandazione del re, i servi radunarono «tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni» (Mt 22,10). Inoltre, proprio «i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi» (Lc 14,21), vale a dire gli ultimi ed emarginati della società, sono gli invitati speciali del re. Così, il banchetto nuziale del Figlio che Dio ha preparato rimane per sempre aperto a tutti, perché grande e incondizionato è il suo amore per ognuno di noi. «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Chiunque, ogni uomo e ogni donna è destinatario dell’invito di Dio a partecipare alla sua grazia che trasforma e salva. Bisogna solo dire “sì” a questo dono divino gratuito, accogliendolo e lasciandosi trasformare da esso, rivestendosene come di una “veste nuziale” (cfr Mt 22,12).

La missione per tutti richiede l’impegno di tutti. Occorre perciò continuare il cammino verso una Chiesa tutta sinodale-missionaria a servizio del Vangelo. La sinodalità è di per sé missionaria e, viceversa, la missione è sempre sinodale. Pertanto, una stretta cooperazione missionaria risulta oggi ancora più urgente e necessaria nella Chiesa universale come pure nelle Chiese particolari. Sulla scia del Concilio Vaticano II e dei miei Predecessori, raccomando a tutte le diocesi del mondo il servizio delle Pontificie Opere Missionarie, che costituiscono i mezzi primari «sia per infondere nei cattolici, fin dalla più tenera età, uno spirito veramente universale e missionario, sia per favorire una adeguata raccolta di sussidi a vantaggio di tutte le missioni e secondo le necessità di ciascuna» (Decr. Ad gentes, 38). Per questo, le collette della Giornata Missionaria Mondiale in tutte le Chiese locali sono interamente destinate al Fondo universale di solidarietà che la Pontificia Opera della Propagazione della Fede poi distribuisce, a nome del Papa, per le necessità di tutte le missioni della Chiesa. Preghiamo il Signore che ci guidi e ci aiuti ad essere Chiesa più sinodale e più missionaria (cfr Omelia nella Messa conclusiva dell’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 29 ottobre 2023).

Rivolgiamo infine lo sguardo a Maria, che ottenne da Gesù il primo miracolo proprio ad una festa di nozze, a Cana di Galilea (cfr Gv 2,1-12). Il Signore offrì agli sposi e a tutti gli invitati l’abbondanza del vino nuovo, segno anticipato del banchetto nuziale che Dio prepara per tutti alla fine dei tempi. Chiediamo ancora oggi la sua materna intercessione per la missione evangelizzatrice dei discepoli di Cristo. Con la gioia e la premura della nostra Madre, con la forza della tenerezza e dell’affetto (cfr Evangelii gaudium, 288), andiamo e portiamo a tutti l’invito del Re Salvatore. Santa Maria, Stella dell’evangelizzazione, prega per noi!

Roma, San Giovanni in Laterano, 25 gennaio 2024, festa della conversione di San Paolo.

 

FRANCESCO

Inaugurazione dell'Anno Giudiziario del Tribunale della Rota Romana (25 gennaio 2024)

Gio, 25/01/2024 - 09:30

Cari Prelati Uditori!

Sono lieto di ricevervi, come ogni anno, insieme a coloro che lavorano nell’ambito di questo Tribunale Apostolico. Ringrazio il Decano e tutti voi per il prezioso servizio che rendete al ministero petrino in ordine all’amministrazione della giustizia nella Chiesa.

Vorrei oggi riflettere con voi su un aspetto capitale di questo servizio, un aspetto sul quale sono tornato spesso, anche con un ciclo di catechesi, cioè il tema del discernimento. Intendo mettere a fuoco quel discernimento specifico che tocca a voi realizzare nell’ambito dei processi matrimoniali, concernente l’esistenza o meno dei motivi per dichiarare la nullità di un matrimonio. Penso al vostro giudizio collegiale in Rota, a quello compiuto dai tribunali collegiali locali oppure, dove questo non fosse possibile, dal giudice unico coadiuvato magari da due assessori, nonché alla pronuncia emanata dallo stesso Vescovo diocesano, specialmente nei processi più brevi, consultandosi con l’istruttore e l’assessore.

È un tema sempre attuale, che ha interessato anche l’ambito dell’attuata riforma dei processi di nullità matrimoniale nonché la pastorale familiare, ispirata alla misericordia verso i fedeli che si trovano in situazioni problematiche. D’altra parte, l’abolizione del requisito di una doppia sentenza conforme nelle cause di nullità, l’introduzione del processo più breve davanti al Vescovo diocesano, nonché lo sforzo per snellire e rendere più accessibile l’operato dei tribunali, non devono essere fraintesi e mai deve venir meno l’esigenza di servire i fedeli con un ministero che li aiuti a cogliere la verità sul loro matrimonio. È un servizio, è un servizio che noi diamo. Come ho affermato nel proemio del Motu proprio Mitis iudex Dominus Iesuss, la finalità è di favorire «non la nullità dei matrimoni, ma la celerità dei processi, non meno che una giusta semplicità, affinché, a motivo della ritardata definizione del giudizio, il cuore dei fedeli che attendono il chiarimento del proprio stato non sia lungamente oppresso dalle tenebre del dubbio». Perciò, seguendo le orme dei miei Predecessori, ho voluto «che le cause di nullità del matrimonio vengano trattate per via giudiziale, e non amministrativa, non perché lo imponga la natura della cosa, ma piuttosto lo esiga la necessità di tutelare in massimo grado la verità del sacro vincolo: e ciò è esattamente assicurato dalle garanzie dell’ordine giudiziario».

Allo stesso tempo, l’aver sottolineato l’importanza della misericordia nella pastorale familiare, co me ho fatto in particolare con l’Esortazione apostolica Amoris laetitia [1], non diminuisce il nostro impegno nella ricerca della giustizia per quanto riguarda le cause di nullità. Al contrario, proprio alla luce della misericordia, verso le persone e le loro coscienze, è importante il discernimento giudiziale sulla nullità. Esso possiede un valore pastorale insostituibile e si inserisce armonicamente nell’insieme della cura pastorale dovuta alle famiglie. Si realizza così quanto affermato da San Tommaso d’Aquino: «La misericordia non toglie la giustizia, ma è una pienezza della giustizia» [2].

Come sapete bene per la vostra esperienza, il compito di giudicare spesso non è facile. Raggiungere la certezza morale sulla nullità, superando nel caso concreto la presunzione di validità, implica portare a termine un discernimento a cui tutto il processo, specialmente l’istruttoria, è ordinato. Tale discernimento costituisce una grande responsabilità che la Chiesa vi affida, perché influisce fortemente sulla vita delle persone e delle famiglie. Bisogna affrontare questo compito con coraggio e lucidità ma, prima di tutto, è decisivo contare sulla luce e la forza dello Spirito Santo. Cari giudici, senza preghiera non si può fare il giudice. Se qualcuno non prega, per favore, si dimetta, è meglio così. Nell’Adsumus, la bella invocazione al Paraclito che viene recitata nelle adunanze del vostro Tribunale, si dice: «Siamo qui dinanzi a te, Spirito Santo, siamo tutti riuniti nel tuo nome. Vieni a noi, assistici, scendi nei nostri cuori. Insegnaci tu ciò che dobbiamo fare, mostraci tu il cammino da seguire tutti insieme. Non permettere che da noi peccatori sia lesa la giustizia, non ci faccia sviare l’ignoranza, non ci renda parziali l’umana simpatia, perché siamo una sola cosa in te e in nulla ci discostiamo dalla verità». Ricordiamoci sempre questo: il discernimento si fa “in ginocchio” – e un giudice che non sa mettersi in ginocchio è meglio che si dimetta –, implorando il dono dello Spirito Santo: solo così si giunge a decisioni che vanno nella direzione del bene delle persone e dell’intera comunità ecclesiale.

L’oggettività del discernimento giudiziale richiede poi di essere liberi da ogni pregiudizio, sia a favore sia contro la dichiarazione di nullità. Ciò implica di liberarsi sia dal rigorismo di chi pretenderebbe una certezza assoluta sia da un atteggiamento ispirato alla falsa convinzione che la risposta migliore sia sempre la nullità, quello che San Giovanni Paolo II chiamò il «rischio di una malintesa compassione […], solo apparentemente pastorale». In realtà – proseguiva il Papa – «le vie che si discostano dalla giustizia e dalla verità finiscono col contribuire ad allontanare le persone da Dio, ottenendo il risultato opposto a quello che in buona fede si cercava» [3].

Il discernimento del giudice richiede due grandi virtù: la prudenza e la giustizia, che devono essere informate dalla carità. C’è un’intima connessione tra prudenza e giustizia, poiché l’esercizio della prudentia iuris è mira alla conoscenza di ciò che è giusto nel caso concreto. Una prudenza dunque che non riguarda una decisione discrezionale, bensì un atto dichiarativo sull’esistenza o meno del bene del matrimonio; pertanto, una prudenza giuridica che, per essere veramente pastorale, dev’essere giusta. Il discernimento giusto implica un atto di carità pastorale, anche quando la sentenza fosse negativa. E anche un rischio.

Il discernimento sulla validità del vincolo è un’operazione complessa, rispetto alla quale non dobbiamo dimenticare che l’interpretazione della legge ecclesiastica va fatta alla luce della verità sul matrimonio indissolubile, che la Chiesa custodisce e diffonde nella sua predicazione e nella sua missione. Come insegnò Benedetto XVI, «l’interpretazione della legge canonica deve avvenire nella Chiesa. Non si tratta di una mera circostanza esterna, ambientale: è un richiamo allo stesso humus della legge canonica e delle realtà da essa regolate. Il sentire cum Ecclesia ha senso anche nella disciplina, a motivo dei fondamenti dottrinali che sono sempre presenti e operanti nelle norme legali della Chiesa» [4]. Questo chiedo a voi, giudici: sentire con la Chiesa. E vi domando, a ognuno di voi: voi pregate, per sentire con la Chiesa? Siete umili nella preghiera, chiedendo luce al Signore, per sentire con la Chiesa? Torno su questo: la preghiera del giudice è essenziale al suo compito. Se un giudice non prega o non può pregare, meglio che vada a fare un altro mestiere.

Infine, vorrei ricordare che il discernimento sulla nullità viene sorretto e garantito dal suo essere sinodale [5]. Quando il tribunale è collegiale, come avviene di regola, oppure quando c’è un unico giudice ma egli si consulta con chi di dovere, il discernimento si compie in un clima di dialogo o discussione, in cui sono fondamentali la franchezza e l’ascolto mutuo, per una ricerca comune della verità. È anche uno studio previo e serio. Come ho già detto, in questo servizio è essenziale invocare lo Spirito Santo, mentre ci impegniamo a mettere in atto tutti i mezzi umani per appurare la verità. Per questo è importante che l’istruttoria sia svolta accuratamente, per non incorrere in un giudizio affrettato e aprioristico, così come è necessario che, per adempiere in modo adeguato il suo munus, il giudice coltivi la propria formazione permanente mediante lo studio della giurisprudenza e della dottrina giuridica. Tocca a voi, cari Prelati Uditori, una speciale responsabilità nel giudicare: perciò vi raccomando la docilità allo Spirito Santo, e la disponibilità ad essere in ogni circostanza operatori di giustizia.

Affido il vostro lavoro a Maria Santissima, Virgo prudentissima e Speculum iustitiae, e di cuore vi benedico. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me, perché questo lavoro non è facile! A volte è divertente, ma non è facile. Grazie.

 

[1] Cfr soprattutto il capitolo VIII.

[2] Summa Theologiae, I, q. 21, a. 3, ad 2. Cfr Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 311.

[3] Discorso alla Rota Romana18 gennaio 1990, n. 5.

[4] Discorso alla Rota Romana, 21 gennaio 2012.

[5] Cfr Discorso alla Rota Romana27 gennaio 2022.

LVIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 2024 - Intelligenza artificiale e sapienza del cuore: per una comunicazione pienamente umana

Mer, 24/01/2024 - 11:30

Intelligenza artificiale e sapienza del cuore:
per una comunicazione pienamente umana

 

Cari fratelli e sorelle!

L’evoluzione dei sistemi della cosiddetta “intelligenza artificiale”, sulla quale ho già riflettuto nel recente Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, sta modificando in modo radicale anche l’informazione e la comunicazione e, attraverso di esse, alcune basi della convivenza civile. Si tratta di un cambiamento che coinvolge tutti, non solo i professionisti. L’accelerata diffusione di meravigliose invenzioni, il cui funzionamento e le cui potenzialità sono indecifrabili per la maggior parte di noi, suscita uno stupore che oscilla tra entusiasmo e disorientamento e ci pone inevitabilmente davanti a domande di fondo: cosa è dunque l’uomo, qual è la sua specificità e quale sarà il futuro di questa nostra specie chiamata homo sapiens nell’era delle intelligenze artificiali? Come possiamo rimanere pienamente umani e orientare verso il bene il cambiamento culturale in atto?

A partire dal cuore

Innanzitutto conviene sgombrare il terreno dalle letture catastrofiche e dai loro effetti paralizzanti. Già un secolo fa, riflettendo sulla tecnica e sull’uomo, Romano Guardini invitava a non irrigidirsi contro il “nuovo” nel tentativo di «conservare un bel mondo condannato a sparire». Al tempo stesso, però, in modo accorato ammoniva profeticamente: «Il nostro posto è nel divenire. Noi dobbiamo inserirvici, ciascuno al proprio posto (…), aderendovi onestamente ma rimanendo tuttavia sensibili, con un cuore incorruttibile, a tutto ciò che di distruttivo e di non umano è in esso». E concludeva: «Si tratta, è vero, di problemi di natura tecnica, scientifica, politica; ma essi non possono esser risolti se non procedendo dall’uomo. Deve formarsi un nuovo tipo umano, dotato di una più profonda spiritualità, di una libertà e di una interiorità nuove» [1].

In quest’epoca che rischia di essere ricca di tecnica e povera di umanità, la nostra riflessione non può che partire dal cuore umano [2]. Solo dotandoci di uno sguardo spirituale, solo recuperando una sapienza del cuore, possiamo leggere e interpretare la novità del nostro tempo e riscoprire la via per una comunicazione pienamente umana. Il cuore, inteso biblicamente come sede della libertà e delle decisioni più importanti della vita, è simbolo di integrità, di unità, ma evoca anche gli affetti, i desideri, i sogni, ed è soprattutto luogo interiore dell’incontro con Dio. La sapienza del cuore è perciò quella virtù che ci permette di tessere insieme il tutto e le parti, le decisioni e le loro conseguenze, le altezze e le fragilità, il passato e il futuro, l’io e il noi.

Questa sapienza del cuore si lascia trovare da chi la cerca e si lascia vedere da chi la ama; previene chi la desidera e va in cerca di chi ne è degno (cfr Sap 6,12-16). Sta con chi accetta consigli (cfr Pr 13,10), con chi ha il cuore docile, un cuore che ascolta (cfr 1 Re 3,9). Essa è un dono dello Spirito Santo, che permette di vedere le cose con gli occhi di Dio, di comprendere i nessi, le situazioni, gli avvenimenti e di scoprirne il senso. Senza questa sapienza l’esistenza diventa insipida, perché è proprio la sapienza – la cui radice latina sapere la accomuna al sapore – a donare gusto alla vita.

Opportunità e pericolo

Non possiamo pretendere questa sapienza dalle macchine. Benché il termine intelligenza artificiale abbia ormai soppiantato quello più corretto, utilizzato nella letteratura scientifica, machine learning, l’utilizzo stesso della parola “intelligenza” è fuorviante. Le macchine possiedono certamente una capacità smisuratamente maggiore rispetto all’uomo di memorizzare i dati e di correlarli tra loro, ma spetta all’uomo e solo a lui decodificarne il senso. Non si tratta quindi di esigere dalle macchine che sembrino umane. Si tratta piuttosto di svegliare l’uomo dall’ipnosi in cui cade per il suo delirio di onnipotenza, credendosi soggetto totalmente autonomo e autoreferenziale, separato da ogni legame sociale e dimentico della sua creaturalità.

In realtà, l’uomo da sempre sperimenta di non bastare a sé stesso e cerca di superare la propria vulnerabilità servendosi di ogni mezzo. A partire dai primi manufatti preistorici, utilizzati come prolungamenti delle braccia, attraverso i media impiegati come estensione della parola, siamo oggi giunti alle più sofisticate macchine che agiscono come ausilio del pensiero. Ognuna di queste realtà può però essere contaminata dalla tentazione originaria di diventare come Dio senza Dio (cfr Gen 3), cioè di voler conquistare con le proprie forze ciò che andrebbe invece accolto come dono da Dio e vissuto nella relazione con gli altri.

A seconda dell’orientamento del cuore, ogni cosa nelle mani dell’uomo diventa opportunità o pericolo. Il suo stesso corpo, creato per essere luogo di comunicazione e comunione, può diventare mezzo di aggressività. Allo stesso modo ogni prolungamento tecnico dell’uomo può essere strumento di servizio amorevole o di dominio ostile. I sistemi di intelligenza artificiale possono contribuire al processo di liberazione dall’ignoranza e facilitare lo scambio di informazioni tra popoli e generazioni diverse. Possono ad esempio rendere raggiungibile e comprensibile un enorme patrimonio di conoscenze scritto in epoche passate o far comunicare le persone in lingue per loro sconosciute. Ma possono al tempo stesso essere strumenti di “inquinamento cognitivo”, di alterazione della realtà tramite narrazioni parzialmente o totalmente false eppure credute – e condivise – come se fossero vere. Basti pensare al problema della disinformazione che stiamo affrontando da anni nella fattispecie delle fake news [3] e che oggi si avvale del deep fake, cioè della creazione e diffusione di immagini che sembrano perfettamente verosimili ma sono false (è capitato anche a me di esserne oggetto), o di messaggi audio che usano la voce di una persona dicendo cose che la stessa non ha mai detto. La simulazione, che è alla base di questi programmi, può essere utile in alcuni campi specifici, ma diventa perversa là dove distorce il rapporto con gli altri e la realtà.

Della prima ondata di intelligenza artificiale, quella dei social media, abbiamo già compreso l’ambivalenza toccandone con mano, accanto alle opportunità, anche i rischi e le patologie. Il secondo livello di intelligenze artificiali generative segna un indiscutibile salto qualitativo. È importante quindi avere la possibilità di comprendere, capire e regolamentare strumenti che nelle mani sbagliate potrebbero aprire scenari negativi. Come ogni altra cosa uscita dalla mente e dalle mani dell’uomo, anche gli algoritmi non sono neutri. Perciò è necessario agire preventivamente, proponendo modelli di regolamentazione etica per arginare i risvolti dannosi e discriminatori, socialmente ingiusti, dei sistemi di intelligenza artificiale e per contrastare il loro utilizzo nella riduzione del pluralismo, nella polarizzazione dell’opinione pubblica o nella costruzione di un pensiero unico. Rinnovo dunque il mio appello esortando «la Comunità delle nazioni a lavorare unita al fine di adottare un trattato internazionale vincolante, che regoli lo sviluppo e l’uso dell’intelligenza artificiale nelle sue molteplici forme» [4]. Tuttavia, come in ogni ambito umano, la regolamentazione non basta.

Crescere in umanità

Siamo chiamati a crescere insieme, in umanità e come umanità. La sfida che ci è posta dinanzi è di fare un salto di qualità per essere all’altezza di una società complessa, multietnica, pluralista, multireligiosa e multiculturale. Sta a noi interrogarci sullo sviluppo teorico e sull’uso pratico di questi nuovi strumenti di comunicazione e di conoscenza. Grandi possibilità di beneaccompagnano il rischio che tutto si trasformi in un calcolo astratto, che riduce le persone a dati, il pensiero a uno schema, l’esperienza a un caso, il bene al profitto, e soprattutto che si finisca col negare l’unicità di ogni persona e della sua storia, col dissolvere la concretezza della realtà in una serie di dati statistici.

La rivoluzione digitale può renderci più liberi, ma non certo se ci imprigiona nei modelli oggi noti come echo chamber. In questi casi, anziché accrescere il pluralismo dell’informazione, si rischia di trovarsi sperduti in una palude anonima, assecondando gli interessi del mercato o del potere. Non è accettabile che l’uso dell’intelligenza artificiale conduca a un pensiero anonimo, a un assemblaggio di dati non certificati, a una deresponsabilizzazione editoriale collettiva. La rappresentazione della realtà in big data, per quanto funzionale alla gestione delle macchine, implica infatti una perdita sostanziale della verità delle cose, che ostacola la comunicazione interpersonale e rischia di danneggiare la nostra stessa umanità. L’informazione non può essere separata dalla relazione esistenziale: implica il corpo, lo stare nella realtà; chiede di mettere in relazione non solo dati, ma esperienze; esige il volto, lo sguardo, la compassione oltre che la condivisione.

Penso al racconto delle guerre e a quella “guerra parallela” che si fa tramite campagne di disinformazione. E penso a quanti reporter sono feriti o muoiono sul campo per permetterci di vedere quello che i loro occhi hanno visto. Perché solo toccando con mano la sofferenza dei bambini, delle donne e degli uomini, si può comprendere l’assurdità delle guerre.

L’uso dell’intelligenza artificiale potrà contribuire positivamente nel campo della comunicazione, se non annullerà il ruolo del giornalismo sul campo, ma al contrario lo affiancherà; se valorizzerà le professionalità della comunicazione, responsabilizzando ogni comunicatore; se restituirà ad ogni essere umano il ruolo di soggetto, con capacità critica, della comunicazione stessa.

Interrogativi per l’oggi e il domani

Alcune domande sorgono dunque spontanee: come tutelare la professionalità e la dignità dei lavoratori nel campo della comunicazione e della informazione, insieme a quella degli utenti in tutto il mondo? Come garantire l’interoperabilità delle piattaforme? Come far sì che le aziende che sviluppano piattaforme digitali si assumano le proprie responsabilità rispetto a ciò che diffondono e da cui traggono profitto, analogamente a quanto avviene per gli editori dei media tradizionali? Come rendere più trasparenti i criteri alla base degli algoritmi di indicizzazione e de-indicizzazione e dei motori di ricerca, capaci di esaltare o cancellare persone e opinioni, storie e culture? Come garantire la trasparenza dei processi informativi? Come rendere evidente la paternità degli scritti e tracciabili le fonti, impedendo il paravento dell’anonimato? Come rendere manifesto se un’immagine o un video ritraggono un evento o lo simulano? Come evitare che le fonti si riducano a una sola, a un pensiero unico elaborato algoritmicamente? E come invece promuovere un ambiente adatto a preservare il pluralismo e a rappresentare la complessità della realtà? Come possiamo rendere sostenibile questo strumento potente, costoso ed estremamente energivoro? Come possiamo renderlo accessibile anche ai paesi in via di sviluppo?

Dalle risposte a questi e ad altri interrogativi capiremo se l’intelligenza artificiale finirà per costruire nuove caste basate sul dominio informativo, generando nuove forme di sfruttamento e di diseguaglianza; oppure se, al contrario, porterà più eguaglianza, promuovendo una corretta informazione e una maggiore consapevolezza del passaggio di epoca che stiamo attraversando, favorendo l’ascolto dei molteplici bisogni delle persone e dei popoli, in un sistema di informazione articolato e pluralista. Da una parte si profila lo spettro di una nuova schiavitù, dall’altra una conquista di libertà; da una parte la possibilità che pochi condizionino il pensiero di tutti, dall’altra quella che tutti partecipino all’elaborazione del pensiero.

La risposta non è scritta, dipende da noi. Spetta all’uomo decidere se diventare cibo per gli algoritmi oppure nutrire di libertà il proprio cuore, senza il quale non si cresce nella sapienza. Questa sapienza matura facendo tesoro del tempo e abbracciando le vulnerabilità. Cresce nell’alleanza fra le generazioni, fra chi ha memoria del passato e chi ha visione di futuro. Solo insieme cresce la capacità di discernere, di vigilare, di vedere le cose a partire dal loro compimento. Per non smarrire la nostra umanità, ricerchiamo la Sapienza che è prima di ogni cosa (cfr Sir 1,4), che passando attraverso i cuori puri prepara amici di Dio e profeti (cfr Sap 7,27): ci aiuterà ad allineare anche i sistemi dell’intelligenza artificiale a una comunicazione pienamente umana.

Roma, San Giovanni in Laterano, 24 gennaio 2024

FRANCESCO
 

 

[1] Lettere dal lago di Como, Brescia 2022 5, 95-97.

[2] In continuità con i Messaggi per le precedenti Giornate Mondiali delle Comunicazioni Sociali, dedicati all’ incontrare le persone dove e come sono (2021), all’ ascoltare con l’orecchio del cuore (2022) e al parlare col cuore (2023).

[3] Cfr “La verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Fake news e giornalismo di pace. Messaggio per la LII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 2018.

[4] Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2024, 8.

Udienza Generale del 24 Gennaio 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 5. <i>L’avarizia</i>

Mer, 24/01/2024 - 09:00

Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

Catechesi. I vizi e le virtù. 5. L’avarizia

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Proseguiamo le catechesi sui vizi e le virtù e oggi parliamo dell’avarizia, cioè di quella forma di attaccamento al denaro che impedisce all’uomo la generosità.

Non è un peccato che riguarda solo le persone che possiedono ingenti patrimoni, ma un vizio trasversale, che spesso non ha nulla a che vedere con il saldo del conto corrente. È una malattia del cuore, non del portafogli.

Le analisi che i padri del deserto compirono su questo male misero in luce come l’avarizia potesse impadronirsi anche di monaci i quali, dopo aver rinunciato a enormi eredità, nella solitudine della loro cella si erano attaccati ad oggetti di poco valore: non li prestavano, non li condividevano e men che meno erano disposti a regalarli. Un attaccamento a piccole cose, che toglie la libertà. Quegli oggetti diventavano per loro una sorta di feticcio da cui era impossibile staccarsi. Una specie di regressione allo stadio dei bambini che stringono il giocattolo ripetendo: “È mio! È mio!”. In questa rivendicazione si annida un rapporto malato con la realtà, che può sfociare in forme di accaparramento compulsivo o di accumulo patologico.

Per guarire da questa malattia i monaci proponevano un metodo drastico, eppure efficacissimo: la meditazione della morte. Per quanto una persona accumuli beni in questo mondo, di una cosa siamo assolutamente certi: che nella bara essi non ci entreranno. I beni non possiamo portarli con noi! Ecco svelata l’insensatezza di questo vizio. Il legame di possesso che costruiamo con le cose è solo apparente, perché non siamo noi i padroni del mondo: questa terra che amiamo, in verità non è nostra, e noi ci muoviamo su di essa come forestieri e pellegrini (cfr Lv 25,23).

Queste semplici considerazioni ci fanno intuire la follia dell’avarizia, ma anche la sua ragione più recondita. Essa è un tentativo di esorcizzare la paura della morte: cerca sicurezze che in realtà si sbriciolano nel momento stesso in cui le impugniamo. Ricordate la parabola di quell’uomo stolto, la cui campagna aveva offerto una mietitura abbondantissima, e allora si culla nei pensieri su come allargare i suoi magazzini per metterci tutto il raccolto. Quell’uomo aveva calcolato tutto, programmato il futuro. Non aveva però considerato la variabile più sicura della vita: la morte. «Stolto – dice il Vangelo –, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (Lc 12,20).

In altri casi, sono i ladri a renderci questo servizio. Anche nei Vangeli essi hanno un buon numero di apparizioni e, sebbene il loro operato sia censurabile, esso può diventare un ammonimento salutare. Così predica Gesù nel discorso della montagna: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano» (Mt 6,19-20). Sempre nei racconti dei padri del deserto si narra la vicenda di qualche ladro che sorprende nel sonno il monaco, e gli ruba i pochi beni che custodiva nella cella. Al risveglio, per nulla turbato dall’accaduto, il monaco si mette sulle tracce del ladro e, una volta trovatolo, anziché reclamare la refurtiva, gli consegna le poche cose rimaste dicendo: “Hai dimenticato di prendere queste!”.

Noi, fratelli e sorelle, possiamo essere signori dei beni che possediamo, ma spesso accade il contrario: sono loro alla fine a possederci. Alcuni uomini ricchi non sono più liberi, non hanno più nemmeno il tempo di riposare, devono guardarsi alle spalle perché l’accumulo dei beni esige anche la loro custodia. Sono sempre in ansia perché un patrimonio si costruisce con tanto sudore, ma può sparire in un attimo. Dimenticano la predicazione evangelica, la quale non sostiene che le ricchezze in sé stesse siano un peccato, ma di certo sono una responsabilità. Dio non è povero: è il Signore di tutto, però – scrive san Paolo – «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9).

È ciò che l’avaro non capisce. Poteva essere motivo di benedizione per molti, e invece si è infilato nel vicolo cieco dell’infelicità. E la vita dell’avaro è brutta. Ricordo il caso di un signore che ho conosciuto nell’altra diocesi, un uomo ricchissimo, e aveva la mamma ammalata. Lui era sposato. I fratelli si davano il turno per accudire la mamma, e la mamma prendeva uno yogurt, al mattino. Questo signore le dava la metà al mattino per darle l’altra metà al pomeriggio e risparmiare mezzo yogurt. Così è l’avarizia, così è l’attaccamento ai beni. Poi questo signore è morto, e i commenti delle persone che sono andate alla veglia era questo: “Ma, si vede che quest’uomo non ha niente addosso, ha lasciato tutto”. E poi, facendo un po’ di beffa, dicevano: “No, no, non potevano chiudere la bara perché voleva portare tutto con sé”. Questo, dell’avarizia, fa ridere gli altri: che alla fine dobbiamo dare il nostro corpo e la nostra anima al Signore e dobbiamo lasciare tutto. Stiamo attenti! E siamo generosi, generosi con tutti e generosi con coloro che hanno più bisogno di noi. Grazie. 

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Saluti

Je salue cordialement les pèlerins de langue française en particulier les collégiens et lycéens venus de France. Que le Seigneur nous donne la grâce de nous attacher aux seuls vrais bien : son amour et l’amour pour nos frères. Que Dieu vous bénisse.

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare i ragazzi delle medie e superiori provenienti dalla Francia. Il Signore ci dia la grazia di attaccarsi sull'unico vero bene: il suo amore e l'amore per i nostri fratelli e sorelle. Dio vi benedica!]

I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from Scotland, Korea and the United States of America. Upon all of you, and upon your families, I invoke the joy and peace of our Lord Jesus Christ. God bless you!

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Scozia, Corea e Stati Uniti d’America. Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo. Dio vi benedica!]

Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, wenn wir heute den Gedenktag des heiligen Kirchenlehrers Franz von Sales begehen, wollen wir uns daran erinnern, dass „alles der Liebe gehört“. Seine geistlichen Lehren mögen uns helfen, die Laster zu überwinden, um zur Fülle der göttlichen Liebe zu gelangen.

[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, celebrando quest’oggi la memoria liturgica di San Francesco di Sales, dottore della Chiesa, ricordiamoci che “tutto appartiene all’amore”. I suoi insegnamenti spirituali ci aiutino a superare i vizi per poter raggiungere la pienezza dell’amore divino.]

Saludo cordialmente a todos los peregrinos de lengua española. Estamos celebrando la Semana de Oración por la Unidad de los Cristianos. El apóstol Pablo, de quien mañana recordamos su conversión, nos exhorta a trabajar juntos y con generosidad en la construcción del único e indivisible cuerpo de Cristo. Que Dios los bendiga y la Virgen Santa los acompañe. Muchas gracias.

Saúdo cordialmente os fiéis de língua portuguesa. Peçamos ao Senhor o dom de possuir um coração desprendido dos bens materiais, que não acumule tesouros nesta terra, mas no céu. Que Deus vos abençoe e Nossa Senhora vos guarde!

[Saluto cordialmente i fedeli di lingua portoghese. Chiediamo al Signore il dono di avere un cuore distaccato dai beni materiali, che non accumuli tesori su questa terra, ma nel cielo. Dio vi benedica e la Madonna vi custodisca!]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العربِيَّة. لا يكفِي أنْ نُراكِمَ خيراتِنا الماديَّةَ لنعيشَ حياةً لائقة، لأنَّ الحياةَ لا تَعتَمِدُ على ما نَملِكُه (راجع لوقا 12، 15). بل تَعتَمِدُ على العَلاقاتِ الجَيِّدَة: معَ الله، ومعَ الآخرينَ وحتَّى مع الَّذين لَدَيهِم القليل. بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِنْ كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Accumulare beni materiali non basta a vivere bene, perché la vita non dipende da ciò che si possiede (cfr Lc 12,15). Dipende invece dalle buone relazioni: con Dio, con gli altri e anche con chi ha di meno. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga ‎sempre da ogni male‎!]

Drodzy bracia i siostry Polacy. „Ku wolności wyswobodził nas Chrystus” (por. Ga 5, 1), i zachęca nas do życia w wolności. Do życia z sercem wolnym od tego co przyziemne, czyli tego co niszczy relacje z bliźnimi i z Panem Bogiem. Przyjmijcie z otwartym sercem dar Chrystusowej wolności! Z serca was pozdrawiam i wam błogosławię!

[Cari fratelli e sorelle polacchi. “Cristo ci ha liberati per la libertà” (Gal 5,1) e ci incoraggia a vivere nella libertà. A vivere con un cuore libero da ciò che è mondano, cioè da quello che distrugge le relazioni con il prossimo e con il Signore. Accogliete con cuore spalancato il dono della libertà di Cristo! Vi saluto cordialmente e vi benedico di cuore!]

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APPELLI

Sabato prossimo, 27 gennaio, si celebra la Giornata internazionale di commemorazione delle vittime dell’Olocausto. Il ricordo e la condanna di quell’orribile sterminio di milioni di persone ebree e di altre fedi, avvenuto nella prima metà del secolo scorso, aiuti tutti a non dimenticare che le logiche dell’odio e della violenza non si possono mai giustificare, perché negano la nostra stessa umanità.

* * *

La guerra stessa è una negazione dell’umanità. Non stanchiamoci di pregare per la pace, perché cessino i conflitti, perché si arrestino le armi e si soccorrano le popolazioni stremate. Penso al Medio Oriente, alla Palestina, a Israele, penso e alle notizie inquietanti che provengono dalla martoriata Ucraina, soprattutto per i bombardamenti che colpiscono luoghi frequentati da civili, seminando morte, distruzione e sofferenza. Prego per le vittime e per i loro cari, e imploro tutti, specialmente chi ha responsabilità politica, a custodire la vita umana mettendo fine alle guerre. Non dimentichiamo: la guerra sempre è una sconfitta, sempre. Solo “vincono” – tra virgolette – i fabbricanti di armi.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i Frati Cappuccini formatori dell’area Europea, le Suore Orsoline dell’Unione Romana e l’Associazione Opera di San Michele Arcangelo di Petralia.

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Celebriamo oggi la memoria liturgica di San Francesco di Sales, maestro di vita spirituale: egli ha insegnato che la perfezione cristiana è accessibile a ogni persona, qualunque sia il suo stato di vita e la sua condizione sociale. Possiate anche voi vivere le condizioni in cui vi trovate come vie di santità, da percorrere con fiducia nell’amore di Dio.

A tutti la mia Benedizione!

Ai Produttori partecipanti alla Manifestazione Vinitaly (22 gennaio 2024)

Lun, 22/01/2024 - 09:30

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Vi do il benvenuto, saluto Mons. Pompili e ciascuno di voi. Siete qui in occasione del Convegno che Vinitaly ha organizzato sul tema “L’economia di Francesco e il mondo del vino italiano”. Per numero di aziende coinvolte, qualità di produzione e impatto occupazionale, la vostra è certamente una realtà significativa, sia sulla scena vinicola italiana che internazionale, ed è dunque bene che vi ritroviate a riflettere insieme sugli aspetti etici e sulle responsabilità morali che tutto ciò comporta, e che in questo traiate ispirazione dal Poverello di Assisi.

Le linee fondamentali su cui avete scelto di muovervi – attenzione all’ambiente, al lavoro e a sane abitudini di consumo – indicano un atteggiamento incentrato sul rispetto, a vari livelli. E il rispetto, nel vostro lavoro, è certamente fondamentale: per un prodotto di qualità, infatti, non basta l’applicazione di tecniche industriali e di logiche commerciali; la terra, la vite, i processi di coltivazione, fermentazione e stagionatura richiedono costanza, richiedono attenzione e richiedono pazienza.

La sacra Scrittura stessa parla di questi temi. Viene in mente la Lettera di Giacomo, che dice: «Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge» (Gc 5,7). E penso soprattutto a Gesù, il quale, nell’ultima immagine che lascia ai suoi discepoli, parla del Padre come di un agricoltore, che si prende cura della vite, potandola e facendo così in modo che porti buon frutto (cfr Gv 15,1-6).

Rispetto, costanza, capacità di potare per portare frutto: sono messaggi preziosi per l’anima, che ben si apprendono dai ritmi della natura, dai vitigni e dalla lavorazione. Essa comporta un’infinità di competenze, solo in parte trasmissibili in modo tecnico, “scolastico”, spesso invece legate alla condivisione di una sapienza pratica, di vita, a un’esperienza specifica da acquisire sul campo, in modo tanto più proficuo, quanto più ci si lascia coinvolgere dalla dimensione umana di ciò che si fa.

E se il rispetto e l’umanità valgono nell’uso della terra, sono ancora più decisivi nella gestione del lavoro, nella tutela delle persone e nel consumo dei prodotti, per far maturare, a livello di singoli e di aziende, quella capacità di «auto-trascendersi, infrangendo la coscienza isolata e l’autoreferenzialità», che «rende possibile ogni cura per gli altri e per l’ambiente», considerando «l’impatto provocato da ogni azione e da ogni decisione personale al di fuori di sé» (Lett. enc. Laudato si’, 208). Infatti, la «cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri» (ivi, 70).

Cari amici, il vino, la terra, l’abilità agricola e l’attività imprenditoriale sono doni di Dio, ma non dimentichiamo che il Creatore li ha affidati a noi, alla nostra sensibilità e alla nostra onestà, perché ne facciamo, come dice la Scrittura, una vera fonte di gioia per «il cuore dell’uomo» (cfr Sal 104,15), e di ogni uomo, non solo di quelli che hanno più possibilità. Grazie allora per aver scelto di ispirare la vostra attività a sentimenti di concordia, aiuto ai più deboli e rispetto per il creato, sull’esempio di Francesco di Assisi. In lui vi benedico e vi auguro, nel suo stile, “pace e bene”. Grazie.

Ai Membri del Comitato Nazionale per il Centenario della nascita di Don Lorenzo Milani (22 gennaio 2024)

Lun, 22/01/2024 - 09:00

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Do il mio cordiale benvenuto a voi che componete il Comitato Nazionale per il centenario della nascita di Don Lorenzo Milani, presieduto dalla Signora Rosy Bindi. Sono riconoscente per l’impegno collegiale che ponete affinché la testimonianza e il messaggio di Don Milani possano raggiungere tutti, in particolare le nuove generazioni. Vi ringrazio, saluto il Signor Cardinale e vorrei condividere con voi alcune riflessioni.

L’evento centrale della vita di Don Milani è la sua conversione, non dimentichiamolo. Essa permette di comprendere appieno la sua persona, dapprima nella sua ricerca inquieta e poi, dopo la completa adesione a Cristo, nella sua piena realizzazione. Il suo “sì” a Dio lo prende, lo trasforma e lo spinge a comunicarlo agli altri.

Di fronte alla salma di un giovane sacerdote, Lorenzo dice al suo padre spirituale, Don Raffaele Bensi, una parola decisiva: “ Io prenderò il suo posto”. È la risposta alla vocazione ad essere cristiano e insieme sacerdote, tanto che Adele Corradi, l’insegnante che gli è stata accanto, afferma: «Egli non ricordava nessun momento da credente in cui non pensasse di essere prete. Gli pareva che la decisione di essere prete fosse contemporanea alla conversione». [1] La conversione è il cuore di tutta l’esperienza umana e spirituale di Don Milani che lo fa credente, prete innamorato della Chiesa, fedele servitore del Vangelo nei poveri.

Don Lorenzo ha vissuto fino in fondo le Beatitudini evangeliche della povertà e dell’umiltà, lasciando i suoi privilegi borghesi, la sua ricchezza, le sue comodità, la sua cultura elitaria per farsi povero fra i poveri. E da questa scelta non si è mai sentito sminuito, perché sapeva che quella era la sua missione, Barbiana era il suo posto, tanto che, appena arrivato, acquistò lì la sua tomba.

Don Bensi, quando lo andò a trovare già gravemente ammalato e lo vide nella stanza che serviva da scuola, circondato dai suoi ragazzi, rimase colpito e scrisse: «Erano lì tutti in silenzio [...]. E lui era uno di loro, non diverso, non migliore [...]. Capii allora, più che in qualunque altro momento, il prezzo della sua vocazione, l’abisso del suo amore per quelli che aveva scelto e che lo avevano accettato. [...] Fu per me, e rimane, l’immagine più eroica del cristiano e del sacerdote». [2]

«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia» ( Mt 5,6). Don Milani ha sperimentato anche questa beatitudine con la sua gente e i suoi allievi. La scuola è stato l’ambiente in cui operare per un fine grande, uno scopo che andava oltre: restituire la dignità agli ultimi, il rispetto, la titolarità di diritti e cittadinanza, ma soprattutto il riconoscimento della figliolanza di Dio, che tutti ci comprende. «Noi –dice ai preti in Esperienze Pastorali – abbiamo per unica ragione di vita quella di contentare il Signore e di mostrargli d’aver capito che ogni anima è un universo di dignità infinita». [3]

Don Milani è stato testimone e interprete della trasformazione sociale ed economica, del cambiamento d’epoca in cui l’industrializzazione si affermava sul mondo rurale, quando i contadini e i loro figli dovevano andare a fare gli operai, una condizione che li confinava ancora di più ai margini. Con mente illuminata e cuore aperto Don Lorenzo comprende che anche la scuola pubblica in quel contesto era discriminante per i suoi ragazzi, perché mortificava ed escludeva chi partiva svantaggiato e contribuiva nel tempo a radicare le disuguaglianze. Non era un luogo di promozione sociale, ma di selezione, e non era funzionale all’evangelizzazione, perché l’ingiustizia allontanava i poveri dalla Parola, dal Vangelo, allontanava contadini e operai dalla fede e dalla Chiesa.

Allora si interroga su come la Chiesa possa essere significativa e incidere con il suo messaggio perché i poveri non rimangano sempre più indietro. E con saggezza e amore trova la risposta nell’educazione, attraverso il suo modello di scuola, cioè mettere la conoscenza a servizio di quelli che sono gli ultimi per gli altri, i primi per il Vangelo e per lui.

Al piccolo gregge di Barbiana, alla sua gente, Don Lorenzo consegna tutta la propria vita, che prima ha consegnato a Cristo. Il motto “I Care” non è un generico “mi importa”, ma un accorato “m’importa di voi”, una dichiarazione esplicita d’amore per la sua piccola comunità; e nello stesso tempo è il messaggio che ha consegnato ai suoi scolari, e che diventa un insegnamento universale. Ci invita a non rimanere indifferenti, a interpretare la realtà, a identificare i nuovi poveri e le nuove povertà; ci invita anche ad avvicinarci a tutti gli esclusi e prenderli a cuore. Ogni cristiano dovrebbe fare in questo la sua parte.

Penso che l’esperienza di Don Milani si possa rileggere con le parole che  San Giovanni Paolo II ha utilizzato per descrivere la figura del martire: «Egli sa di avere trovato nell’incontro con Gesù Cristo la verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà strappargli questa certezza. Né la sofferenza né la morte violenta lo potranno fare recedere dall’adesione alla verità che ha scoperto nell’incontro con Cristo». [4]

Cari fratelli e sorelle, siamo qui a dire la nostra gratitudine a Don Lorenzo Milani, prete inquieto e inquietante, fedele al Signore e alla sua Chiesa: ringraziamo per la testimonianza che ci ha lasciato come impegnativa eredità. E grazie a voi per quanto avete fatto e state facendo in questo centenario della sua nascita per farlo conoscere e farlo ascoltare. Vi benedico di cuore. E vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie.

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[1] A. Corradi, Non so se don Lorenzo, Milano 2012, p. 81.

[2] N. Fabbretti, “Intervista a Mons. Raffaele Bensi”, Domenica del Corriere, 27 giugno 1971.

[3] Esperienze pastorali, Firenze 1957, p. 222.

[4] Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1981), 32.

 

 

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