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Aggiornato: 11 min 58 sec fa

Santa Messa nella Cena del Signore (Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, 28 marzo 2024)

4 ore 57 min fa

In questo momento della cena, due episodi attirano la nostra attenzione. La lavanda dei piedi di Gesù: Gesù si umilia, e con questo gesto ci fa capire quello che aveva detto: «Io non sono venuto per essere servito, ma per servire» (cfr Mc 10,45). Ci insegna il cammino del servizio.

L’altro episodio – triste – è il tradimento di Giuda che non è capace di portare avanti l’amore, e poi i soldi, l’egoismo lo portano a questa cosa brutta. Ma Gesù perdona tutto. Gesù perdona sempre. Soltanto chiede che noi chiediamo il perdono.

Una volta, ho sentito una vecchietta, saggia, una vecchietta nonna, del popolo … Ha detto così: «Gesù non si stanca mai di perdonare: siamo noi a stancarci di chiedere perdono». Chiediamo oggi al Signore la grazia di non stancarci.

Sempre, tutti noi abbiamo piccoli fallimenti, grandi fallimenti: ognuno ha la propria storia. Ma il Signore ci aspetta sempre, con le braccia aperte, e non si stanca mai di perdonare.

Adesso faremo lo stesso gesto che ha fatto Gesù: lavare i piedi. È un gesto che attira l’attenzione sulla vocazione del servizio. Chiediamo al Signore che ci faccia crescere, tutti noi, nella vocazione del servizio.

Grazie.

Santa Messa del Crisma (28 marzo 2024)

11 ore 27 min fa

«Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui» (Lc 4,20). Colpisce sempre questo passaggio del Vangelo, che porta a visualizzare la scena: a immaginare quel momento di silenzio in cui tutti gli sguardi erano concentrati su Gesù, in un misto di meraviglia e di diffidenza. Sappiamo tuttavia come andò a finire: dopo che Gesù ebbe smascherato le false aspettative dei suoi compaesani, essi «si riempirono di sdegno» (Lc 4,28), uscirono e lo cacciarono fuori della città. I loro occhi avevano fissato Gesù, ma i loro cuori non erano disposti a cambiare sulla sua parola. Così persero l’occasione della vita.

Ma nella sera di oggi, Giovedì santo, avviene un incrocio di sguardi alternativo. Protagonista è il primo Pastore della nostra Chiesa, Pietro. Pure lui all’inizio non prestò fiducia alla parola “smascherante” che il Signore gli aveva rivolto: «Tre volte mi rinnegherai» (Mc 14,30). Così “perse di vista” Gesù e lo rinnegò al canto del gallo. Ma poi, quando «il Signore si voltò e fissò lo sguardo» su di lui, questi «si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto […] E uscito fuori, pianse amaramente» (Lc 22,61-62). I suoi occhi furono inondati di lacrime che, sgorgate da un cuore ferito, lo liberarono da convinzioni e giustificazioni fasulle. Quel pianto amaro gli cambiò la vita.

Le parole e i gesti di Gesù per anni non avevano smosso Pietro dalle sue attese, simili a quelle della gente di Nazaret: anche lui aspettava un Messia politico e potente, forte e risolutore, e di fronte allo scandalo di un Gesù debole, arrestato senza opporre resistenza, dichiarò: «Non lo conosco!» (Lc 22,57). Ed è vero, non lo conosceva: cominciò a conoscerlo quando, nel buio del rinnegamento, fece spazio alle lacrime della vergogna, alle lacrime del pentimento. E lo conoscerà davvero quando, «addolorato che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene?”», si lascerà pienamente attraversare dallo sguardo di Gesù. Allora dal «non lo conosco» passerà a dire: «Signore, tu conosci tutto» (Gv 21,17).

Cari fratelli sacerdoti, la guarigione del cuore di Pietro, la guarigione dell’Apostolo, la guarigione del Pastore avvengono quando, feriti e pentiti, ci si lascia perdonare da Gesù: passano attraverso le lacrime, il pianto amaro, il dolore che consente di riscoprire l’amore. Per questo ho sentito di condividere con voi, qualche pensiero su un aspetto della vita spirituale piuttosto tralasciato, ma essenziale; lo ripropongo oggi con una parola forse desueta, ma che credo ci faccia bene riscoprire: la compunzione.

La parola evoca il pungere: la compunzione è “una puntura sul cuore”, una trafittura che lo ferisce, facendo sgorgare le lacrime del pentimento. Un episodio, che riguarda ancora San Pietro, ci aiuta. Egli, trafitto dallo sguardo e dalle parole di Gesù risorto, nel giorno di Pentecoste, purificato e infuocato dallo Spirito, proclamò agli abitanti di Gerusalemme: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (cfr At 2,36). Gli ascoltatori avvertirono insieme il male che avevano compiuto e la salvezza che il Signore elargiva loro, e «all’udire queste cose – dice il testo – si sentirono trafiggere il cuore» (At 2,37).

Ecco la compunzione: non un senso di colpa che butta a terra, non una scrupolosità che paralizza, ma è una puntura benefica che brucia dentro e guarisce, perché il cuore, quando vede il proprio male e si riconosce peccatore, si apre, accoglie l’azione dello Spirito Santo, acqua viva che lo smuove facendo scorrere le lacrime sul volto. Chi getta la maschera e si lascia guardare da Dio nel cuore riceve il dono di queste lacrime, le acque più sante dopo quelle del Battesimo [1]. Cari fratelli sacerdoti, oggi vi auguro questo.

Occorre però comprendere bene che cosa significhi piangere su noi stessi. Non significa piangerci addosso, come spesso siamo tentati di fare. Ciò avviene, ad esempio, quando siamo delusi o preoccupati per le nostre attese andate a vuoto, per la mancanza di comprensione da parte degli altri, magari dei confratelli e dei superiori. Oppure quando, per uno strano e insano piacere dell’animo, amiamo rimestare nei torti ricevuti per auto-commiserarci, pensando di non aver ricevuto ciò che meritavamo e immaginando che il futuro non potrà che riservarci continue sorprese negative. Questa – ci insegna San Paolo – è la tristezza secondo il mondo, opposta a quella tristezza secondo Dio [2].

Piangere su noi stessi, invece, è pentirci seriamente di aver rattristato Dio col peccato; è riconoscere di essere sempre in debito e mai in credito; è ammettere di aver smarrito la via della santità, non avendo tenuto fede all’amore di Colui che ha dato la vita per me [3]. È guardarmi dentro e dolermi della mia ingratitudine e della mia incostanza; è meditare con tristezza le mie doppiezze e falsità; è scendere nei meandri della mia ipocrisia, l’ipocrisia clericale, cari fratelli, quella ipocrisia nella quale scivoliamo tanto, tanto…State attenti alla ipocrisia clericale. Per poi, rialzare lo sguardo al Crocifisso e lasciarmi commuovere dal suo amore che sempre perdona e risolleva, che non lascia mai deluse le attese di chi confida in Lui. Così le lacrime continuano a scendere e purificano il cuore.

La compunzione, infatti, richiede fatica ma restituisce pace; non provoca angoscia, ma alleggerisce l’anima dai pesi, perché agisce nella ferita del peccato, disponendoci a ricevere proprio lì la carezza del Signore che trasforma il cuore quando è «contrito e affranto» (Sal 51,19), ammorbidito dalle lacrime. La compunzione è dunque l’antidoto alla sclerocardia, quella durezza del cuore tanto denunciata da Gesù (cfr Mc 3,5; 10,5). Il cuore, infatti, senza pentimento e pianto, si irrigidisce: dapprima diventa abitudinario, poi insofferente per i problemi e indifferente alle persone, quindi freddo e quasi impassibile, come avvolto da una scorza infrangibile, e infine cuore di pietra. Ma, come la goccia scava la pietra, così le lacrime lentamente scavano i cuori induriti. Si assiste così al miracolo della tristezza, della buona tristezza che conduce alla dolcezza.

Capiamo allora perché i maestri spirituali insistono sulla compunzione. San Benedetto invita ogni giorno a «confessare a Dio con lacrime e gemiti le proprie colpe passate» [4], e afferma che pregando «non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore e per la compunzione che strappa le lacrime» [5]. E se per San Giovanni Crisostomo una sola lacrima spegne un braciere di colpe [6], l’ Imitazione di Cristo raccomanda: «Abbandonati alla compunzione del cuore», in quanto «per leggerezza di cuore e noncuranza dei nostri difetti spesso non ci rendiamo conto dei guai della nostra anima» [7]. La compunzione è il rimedio, perché ci riporta alla verità di noi stessi, così che la profondità del nostro essere peccatori riveli la realtà infinitamente più grande del nostro essere perdonati, la gioia di essere perdonato. Non stupisce pertanto l’affermazione di Isacco di Ninive: «Colui che dimentica la misura dei propri peccati, dimentica la misura della grazia di Dio nei suoi confronti» [8].

È vero, cari fratelli e sorelle, ogni nostra rinascita interiore scaturisce sempre dall’incontro tra la nostra miseria e la sua misericordia - si incontrano la nostra miseria e la sua misericordia -, ogni rinascita interiore passa attraverso la nostra povertà di spirito che permette allo Spirito Santo di arricchirci. Si comprendono in questa luce le forti affermazioni di tanti maestri spirituali. Pensiamo a quelle, paradossali, ancora di Sant’Isacco: «Colui che conosce i propri peccati […] è più grande di colui che con la preghiera risuscita i morti. Colui che piange un’ora su se stesso è più grande di chi serve il mondo intero con la contemplazione […]. Colui al quale è dato di conoscere se stesso è più grande di colui a cui è dato di vedere gli angeli» [9].

Fratelli, veniamo a noi, sacerdoti, e chiediamoci quanto la compunzione e le lacrime siano presenti nel nostro esame di coscienza e nella nostra preghiera. Domandiamoci se, col passare degli anni, le lacrime aumentano. Sotto questo aspetto è bene che avvenga il contrario rispetto alla vita biologica, dove, quando si cresce, si piange meno di quando si è bambini. Nella vita spirituale, invece, dove conta diventare bambini (cfr Mt 18,3), chi non piange regredisce, invecchia dentro, mentre chi raggiunge una preghiera più semplice e intima, fatta di adorazione e commozione davanti a Dio, quello matura. Si lega sempre meno a sé stesso e più a Cristo, e diventa povero in spirito. In tal modo si sente più vicino ai poveri, i prediletti di Dio, che prima – come scrive San Francesco nel suo testamento – teneva lontani in quanto era nei peccati, ma la cui compagnia, poi, da amara diventa dolce [10]. E così chi si compunge nel cuore si sente sempre più fratello di tutti i peccatori del mondo, si sente più fratello, senza parvenza di superiorità o asprezza di giudizio, ma sempre con desiderio di amare e riparare.

E questa, fratelli cari, è un’altra caratteristica della compunzione: la solidarietà. Un cuore docile, affrancato dallo spirito delle Beatitudini, diventa naturalmente incline a fare compunzione per gli altri: anziché adirarsi e scandalizzarsi per il male compiuto dai fratelli, piange per i loro peccati. Non si scandalizza. Avviene una sorta di ribaltamento, dove la tendenza naturale a essere indulgenti con sé stessi e inflessibili con gli altri si capovolge e, per grazia di Dio, si diventa fermi con sé stessi e misericordiosi con gli altri. E il Signore cerca, specialmente tra chi è consacrato a Lui, chi pianga i peccati della Chiesa e del mondo, facendosi strumento di intercessione per tutti. Quanti testimoni eroici nella Chiesa ci indicano questa via! Pensiamo ai monaci del deserto, in Oriente e in Occidente; all’intercessione continua, fatta di gemiti e lacrime, di San Gregorio di Narek; all’offerta francescana per l’Amore non amato; a sacerdoti, come il Curato d’Ars, che vivevano di penitenza per la salvezza altrui. Cari fratelli, non è poesia questo, questo è sacerdozio!

Cari fratelli, a noi, suoi Pastori, il Signore non chiede giudizi sprezzanti su chi non crede, ma amore e lacrime per chi è lontano. Le situazioni difficili che vediamo e viviamo, la mancanza di fede, le sofferenze che tocchiamo, a contatto con un cuore compunto non suscitano la risolutezza nella polemica, ma la perseveranza nella misericordia. Quanto abbiamo bisogno di essere liberi da durezze e recriminazioni, da egoismi e ambizioni, da rigidità e insoddisfazioni, per affidarci e affidare a Dio, trovando in Lui una pace che salva da ogni tempesta! Adoriamo, intercediamo e piangiamo per gli altri: permetteremo al Signore di compiere meraviglie. E non temiamo: Lui ci sorprenderà!

Il nostro ministero ne gioverà. Oggi, in una società secolare, corriamo il rischio di essere molto attivi e al tempo stesso di sentirci impotenti, col risultato di perdere l’entusiasmo ed essere tentati di “tirare i remi in barca”, di chiuderci nella lamentela e far prevalere la grandezza dei problemi sulla grandezza di Dio. Se ciò avviene, diventiamo amari e pungenti sempre sparlando, sempre trovando qualche occasione per lamentarsi. Ma se invece l’amarezza e la compunzione si rivolgono, anziché al mondo, al proprio cuore, il Signore non manca di visitarci e rialzarci. Come esorta a fare l’ Imitazione di Cristo: «Non portare dentro di te le faccende degli altri, non impicciarti neppure di quello che fanno le persone più in vista; piuttosto vigila sempre e in primo luogo su di te, e rivolgi il tuo ammonimento particolarmente a te stesso, prima che ad altre persone, anche care. Non rattristarti se non ricevi il favore degli uomini; quello che ti deve pesare, rattristare, invece, è la constatazione di non essere del tutto e sicuramente sulla via del bene» [11].

Da ultimo, vorrei sottolineare un aspetto essenziale: la compunzione non è tanto frutto del nostro esercizio, ma è una grazia e come tale va chiesta nella preghiera. Il pentimento è dono di Dio, è frutto dell’azione dello Spirito Santo. Per facilitarne la crescita, condivido due piccoli consigli. Il primo è quello di non guardare la vita e la chiamata in una prospettiva di efficienza e di immediatezza, legata solo all’oggi e alle sue urgenze e aspettative, ma nell’insieme del passato e del futuro. Del passato, ricordando la fedeltà di Dio - Dio è fedele - , facendo memoria del suo perdono, ancorandoci al suo amore; e del futuro, pensando alla meta eterna a cui siamo chiamati, al fine ultimo della nostra esistenza. Allargare gli orizzonti, cari fratelli, allargare gli orizzonti aiuta a dilatare il cuore, stimola a rientrare in sé stessi con il Signore e a vivere la compunzione. Un secondo consiglio, che viene di conseguenza: riscopriamo la necessità di dedicarci a una preghiera che non sia dovuta e funzionale, ma gratuita, calma e prolungata. Fratello, com’è la tua preghiera? Torniamo all’adorazione - ti sei dimenticato di adorare? - e torniamo alla preghiera del cuore. Ripetiamo: Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore. Sentiamo la grandezza di Dio nella nostra bassezza di peccatori, per guardarci dentro e lasciarci attraversare dal suo sguardo. Riscopriremo la sapienza della Santa Madre Chiesa, che ci introduce alla preghiera sempre con l’invocazione del povero che grida: O Dio, vieni a salvarmi.

Carissimi, torniamo infine a San Pietro e alle sue lacrime. L’altare posto sopra la sua tomba non può che farci pensare a quante volte noi, che lì ogni giorno diciamo: «Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi», quante volte deludiamo e rattristiamo Colui che ci ama al punto da fare delle nostre mani gli strumenti della sua presenza. È bene pertanto fare nostre quelle parole con cui ci prepariamo sottovoce: «Umili e pentiti accoglici, o Signore», e ancora: «Lavami, o Signore, dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». In tutto, fratelli, ci consola la certezza consegnataci oggi dalla Parola: il Signore, consacrato con l’unzione (cfr Lc 4,18), è venuto «a fasciare le piaghe dei cuori spezzati» (Is 61,1). Dunque, se il cuore si spezza potrà essere fasciato e guarito da Gesù. Grazie, cari sacerdoti, grazie per il vostro cuore aperto e docile; grazie per le vostre fatiche e grazie per i vostri pianti; grazie perché portate la meraviglia della misericordia – perdonate sempre, siate misericordiosi – e portate questa misericordia, portate Dio ai fratelli e alle sorelle del nostro tempo. Cari sacerdoti, Il Signore vi consoli, vi confermi e vi ricompensi. Grazie.


[1] «La Chiesa ha l’acqua e le lacrime: l’acqua del Battesimo, le lacrime della Penitenza» (S. Ambrogio, Epistula extra collectionem, I, 12).

[2] «La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte» ( 2 Cor 7,10).

[3] Cfr S. Giovanni Crisostomo, De compunctione, I, 10.

[4] Regola, IV,57.

[5] Ivi, XX,3.

[6] Cfr De paenitentia, VII,5.

[7] Cap. XXI.

[8] Discorsi ascetici (III Coll.), XII.

[9] Discorsi ascetici (I Coll.), XXXIV (vers. greca).

[10] Cfr FF 110.

[11] Cap. XXI.

Lettera del Santo Padre ai cattolici di Terra Santa (Settimana Santa 2024)

Mer, 27/03/2024 - 12:00

Cari fratelli e sorelle,

da tempo vi penso e ogni giorno prego per voi. Ma ora, alla vigilia di questa Pasqua, che per voi sa tanto di Passione e ancora poco di Risurrezione, sento il bisogno di scrivervi per dirvi che vi porto nel cuore. Sono vicino a tutti voi, nei vostri vari riti, cari fedeli cattolici sparsi su tutto il territorio della Terra Santa: in particolare a quanti, in questi frangenti, stanno patendo più dolorosamente il dramma assurdo della guerra, ai bambini cui viene negato il futuro, a quanti sono nel pianto e nel dolore, a quanti provano angoscia e smarrimento.

La Pasqua, cuore della nostra fede, è ancora più significativa per voi che la celebrate nei Luoghi in cui il Signore è vissuto, morto e risorto: non solo la storia, ma neanche la geografia della salvezza esisterebbe senza la Terra che voi abitate da secoli, dove volete restare e dov’è bene che possiate restare. Grazie per la vostra testimonianza di fede, grazie per la carità che c’è tra di voi, grazie perché sapete sperare contro ogni speranza.

Desidero che ciascuno di voi senta il mio affetto di padre, che conosce le vostre sofferenze e le vostre fatiche, in particolare quelle di questi ultimi mesi. Insieme al mio affetto, possiate percepire quello di tutti i cattolici del mondo! Il Signore Gesù, nostra Vita, come Buon Samaritano versi sulle ferite del vostro corpo e della vostra anima l’olio della consolazione e il vino della speranza.

Pensandovi, torna alla memoria il pellegrinaggio che ho compiuto in mezzo a voi dieci anni fa; e faccio mie le parole che San Paolo VI, primo Successore di Pietro pellegrino in Terra Santa, rivolse a tutti i credenti cinquant’anni fa: «Il protrarsi dello stato di tensione nel Medio Oriente, senza che siano compiuti passi conclusivi verso la pace, costituisce un grave e costante pericolo, che minaccia non solo la tranquillità e la sicurezza di quelle popolazioni – e la pace del mondo intero – ma anche certi valori sommamente cari, per diversi motivi, a tanta parte dell’umanità» (Esort. Ap. Nobis in Animo).

Cari fratelli e sorelle, la comunità cristiana di Terra Santa non è stata soltanto, lungo i secoli, custode dei Luoghi della salvezza, ma ha costantemente testimoniato, attraverso le proprie sofferenze, il mistero della Passione del Signore. E, con la sua capacità di rialzarsi e andare avanti, ha annunciato e continua ad annunciare che il Crocifisso è Risorto, che con i segni della Passione è apparso ai discepoli e salito al cielo, portando al Padre la nostra umanità tormentata ma redenta. In questi tempi oscuri, in cui sembra che le tenebre del Venerdì santo ricoprano la vostra Terra e troppe parti del mondo sfigurate dall’inutile follia della guerra, che è sempre e per tutti una sanguinosa sconfitta, voi siete fiaccole accese nella notte; siete semi di bene in una terra lacerata da conflitti.

Per voi e con voi prego: “Signore, tu che sei la nostra pace (cfr Ef 2,14-22), tu che hai proclamato beati gli operatori di pace (cfr Mt 5,9), libera il cuore dell’uomo dall’odio, dalla violenza e dalla vendetta. Noi guardiamo te e seguiamo te, che perdoni, che sei mite e umile di cuore (cfr Mt 11,29). Fa’ che nessuno ci rubi dal cuore la speranza di rialzarci e di risorgere con te, fa’ che non ci stanchiamo di affermare la dignità di ogni uomo, senza distinzione di religione, di etnia o di nazionalità, a partire dai più fragili: dalle donne, dagli anziani, dai piccoli e dai poveri”.

Fratelli, sorelle, voglio dirvi: non siete soli e non vi lasceremo soli, ma rimarremo solidali con voi attraverso la preghiera e la carità operosa, sperando di poter tornare presto da voi come pellegrini, per guardarvi negli occhi e abbracciarvi, per spezzare il pane della fraternità e contemplare quei virgulti di speranza cresciuti dai vostri semi, sparsi nel dolore e coltivati con pazienza.

So che i vostri Pastori, i religiosi e le religiose vi sono vicini: li ringrazio di cuore per quanto hanno fatto e continuano a fare. Cresca e risplenda, nel crogiolo della sofferenza, l’oro dell’unità, anche con i fratelli e le sorelle delle altre Confessioni cristiane, ai quali pure desidero manifestare la mia spirituale vicinanza ed esprimere il mio incoraggiamento. Tutti porto nella preghiera.

Vi benedico e invoco su di voi la protezione della Beata Vergine Maria, figlia della vostra Terra. Rinnovo l’invito a tutti i cristiani del mondo a farvi sentire il loro sostegno concreto e a pregare senza stancarsi, perché l’intera popolazione della vostra cara Terra sia finalmente nella pace.

Fraternamente, 

Roma, San Giovanni in Laterano, Settimana Santa 2024
 

FRANCESCO

Udienza Generale del 27 marzo 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 13. <i>La pazienza</i>

Mer, 27/03/2024 - 09:00

Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.


Catechesi. I vizi e le virtù. 13. La pazienza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi l’udienza era prevista in Piazza, ma per la pioggia è stata trasferita qui dentro. È vero che sarete un po’ ammucchiati, ma almeno saremo non bagnati! Grazie della vostra pazienza.

Domenica scorsa abbiamo ascoltato il racconto della Passione del Signore. Alle sofferenze che subisce, Gesù risponde con una virtù che, pur non contemplata tra quelle tradizionali, è tanto importante: la virtù della pazienza. Essa riguarda la sopportazione di ciò che si patisce: non a caso pazienza ha la stessa radice di passione. E proprio nella Passione emerge la pazienza di Cristo, che con mitezza e mansuetudine accetta di essere arrestato, schiaffeggiato e condannato ingiustamente; davanti a Pilato non recrimina; sopporta gli insulti, gli sputi e la flagellazione dei soldati; porta il peso della croce; perdona chi lo inchioda al legno e sulla croce non risponde alle provocazioni, ma offre misericordia. Questa è la pazienza di Gesù. Tutto questo ci dice che la pazienza di Gesù non consiste in una stoica resistenza nel soffrire, ma è il frutto di un amore più grande.

L’Apostolo Paolo, nel cosiddetto “Inno alla carità” (cfr 1 Cor 13,4-7), congiunge strettamente amore e pazienza. Infatti, nel descrivere la prima qualità della carità, utilizza una parola che si traduce con “magnanima”, “paziente”. La carità è magnanima, è paziente. Essa esprime un concetto sorprendente, che torna spesso nella Bibbia: Dio, di fronte alla nostra infedeltà, si mostra «lento all’ira» (cfr Es 34,6; cfr Nm 14,18): anziché sfogare il proprio disgusto per il male e il peccato dell’uomo, si rivela più grande, pronto ogni volta a ricominciare da capo con infinita pazienza. Questo per Paolo è il primo tratto dell’amore di Dio, che davanti al peccato propone il perdono. Ma non solo: è il primo tratto di ogni grande amore, che sa rispondere al male col bene, che non si chiude nella rabbia e nello sconforto, ma persevera e rilancia. La pazienza che ricomincia. Dunque, alla radice della pazienza c’è l’amore, come dice Sant’Agostino: «Uno è tanto più forte a sopportare qualunque male, quanto in lui è maggiore l’amore di Dio» (De patientia, XVII).

Si potrebbe allora dire che non c’è migliore testimonianza dell’amore di Gesù che incontrare un cristiano paziente. Ma pensiamo anche a quante mamme e papà, lavoratori, medici e infermieri, ammalati che ogni giorno, nel nascondimento, abbelliscono il mondo con una santa pazienza! Come afferma la Scrittura, «è meglio la pazienza che la forza di un eroe» (Pr 16,32). Tuttavia, dobbiamo essere onesti: siamo spesso carenti di pazienza. Nel quotidiano siamo impazienti, tutti. Ne abbiamo bisogno come della “vitamina essenziale” per andare avanti, ma ci viene istintivo spazientirci e rispondere al male col male: è difficile stare calmi, controllare l’istinto, trattenere brutte risposte, disinnescare litigi e conflitti in famiglia, al lavoro o nella comunità cristiana. Subito viene la risposta, non siamo capaci di essere pazienti.

Ricordiamo però che la pazienza non è solo una necessità, è una chiamata: se Cristo è paziente, il cristiano è chiamato a essere paziente. E ciò chiede di andare controcorrente rispetto alla mentalità oggi diffusa, in cui dominano la fretta e il “tutto subito”; dove, anziché attendere che maturino le situazioni, si spremono le persone, pretendendo che cambino all’istante. Non dimentichiamo che la fretta e l’impazienza sono nemiche della vita spirituale. Perché? Dio è amore, e chi ama non si stanca, non è irascibile, non dà ultimatum, Dio è paziente, Dio sa attendere. Pensiamo al racconto del Padre misericordioso, che aspetta il figlio andato via di casa: soffre con pazienza, impaziente solo di abbracciarlo appena lo vede tornare (cfr Lc 15,21); o pensiamo alla parabola del grano e della zizzania, con il Signore che non ha fretta di sradicare il male prima del tempo, perché nulla vada perduto (cfr Mt 13,29-30). La pazienza ci fa salvare tutto.

Ma, fratelli e sorelle, come si fa ad accrescere la pazienza? Essendo, come insegna San Paolo, un frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22), va chiesta proprio allo Spirito di Cristo. Lui ci dà la forza mite della pazienza – è una forza mite la pazienza –, perché «è proprio della virtù cristiana non solo operare il bene, ma anche saper sopportare i mali» (S. Agostino, Discorsi, 46,13). Specialmente in questi giorni ci farà bene contemplare il Crocifisso per assimilarne la pazienza. Un bell’esercizio è anche quello di portare a Lui le persone più fastidiose, domandando la grazia di mettere in pratica nei loro riguardi quell’opera di misericordia tanto nota quanto disattesa: sopportare pazientemente le persone moleste. E non è facile. Pensiamo se noi facciamo questo: sopportare pazientemente le persone moleste. Si comincia dal chiedere di guardarle con compassione, con lo sguardo di Dio, sapendo distinguere i loro volti dai loro sbagli. Noi abbiamo l’abitudine di catalogare le persone con gli sbagli che fanno. No, non è buono questo. Cerchiamo le persone per i loro volti, per il loro cuore e non per gli sbagli!

Infine, per coltivare la pazienza, virtù che dà respiro alla vita, è bene ampliare lo sguardo. Ad esempio, non restringendo il campo del mondo ai nostri guai, come invita a fare l’Imitazione di Cristo: «Occorre dunque che tu rammenti le sofferenze più gravi degli altri, per imparare a sopportare le tue, piccole», ricordando che «non c’è cosa, per quanto piccola, purché sopportata per amore di Dio, che passi senza ricompensa presso Dio» (III, 19). E ancora, quando ci sentiamo nella morsa della prova, come insegna Giobbe, è bene aprirsi con speranza alla novità di Dio, nella ferma fiducia che Egli non lascia deluse le nostre attese. Pazienza è saper sopportare i mali.

E qui oggi, in questa udienza, ci sono due persone, due papà: uno israeliano e uno arabo. Ambedue hanno perso le loro figlie in questa guerra e ambedue sono amici. Non guardano all’inimicizia della guerra, ma guardano l’amicizia di due uomini che si vogliono bene e che sono passati per la stessa crocifissione. Pensiamo a questa testimonianza tanto bella di queste due persone che hanno sofferto nelle loro figlie la guerra della Terra Santa. Cari fratelli, grazie per la vostra testimonianza!

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Saluti

Je salue cordialement les pèlerins de langue française, en particulier:  le Club Guerlédan de Rennes. Que la contemplation de la Passion du Seigneur nous donne la force de persévérer humblement dans la foi malgré les épreuves de la vie. Que Dieu vous bénisse.

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare il Club Guerlédan di Rennes. La contemplazione della Passione del Signore ci dia la forza di perseverare umilmente nella fede nonostante le prove della vita. Dio vi benedica.]

I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors participating in today’s Audience, especially the groups from the Philippines, Pakistan, Canada and the United States of America.  As we prepare for the Sacred Triduum, I invoke upon all of you the grace and peace of our Lord Jesus Christ.  God bless you!  

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese che partecipano all’Udienza di oggi, specialmente ai gruppi provenienti da Filippine, Pakistan, Canada e Stati Uniti d’America. Preparandoci al Sacro Triduo, invoco su tutti voi la grazia e la pace di nostro Signore Gesù Cristo. Dio vi benedica!]

Einen herzlichen Gruß richte ich an die Pilger deutscher Sprache. Die Karwoche recht leben, bedeutet sich immer mehr auf die Logik der Liebe Gottes einzulassen, die Logik der Liebe und der Hingabe. Die Feier des Heiligen Triduums stärke uns in der Nachfolge Christi und lasse uns an seinem Ostersieg Anteil erlangen.

[Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua tedesca. Vivere in modo giusto la Settimana Santa, significa entrare sempre più nella logica di Dio, quella dell’amore e del dono di sé. La celebrazione del Triduo Santo ci rafforzi nell’imitazione di Cristo e ci renda partecipi della sua vittoria pasquale.]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, de manera especial a los participantes en el Encuentro UNIV 2024. Los invito a vivir estos días santos contemplando a Cristo crucificado, que con su ejemplo nos enseña a amar y a ser pacientes, en la espera gozosa de la Resurrección. Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide. Muchas gracias.

Dou as boas-vindas a todos os peregrinos de língua portuguesa, de modo particular aos fiéis brasileiros de São Carlos. Nos dias do Tríduo Pascal, somos convidados a contemplar, em silêncio orante, o Crucifixo. Isto ajudar-nos-á a crescer, à semelhança de Jesus, na humildade e na paciência, das quais o nosso tempo tem tanta necessidade. Obrigado.

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua portoghese, in particolare ai fedeli brasiliani di São Carlos. Nei giorni del Triduo Pasquale, siamo invitati a contemplare, nel silenzio orante, il Crocifisso. Ci aiuterà a crescere nell’umiltà e nella pazienza a somiglianza di Gesù. E il nostro tempo ne ha tanto bisogno. Grazie.]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ بِاللُّغَةِ العَرَبِيَّة. باقتِرابِ عيدِ الفِصح، لِنَحمِلْ فِي أذهانِنا وفِي قُلوبِنا آلامَ المرضَى والفُقراءِ والمُهَمَّشِين، ولْنَتَذَكَّرْ ضحايا الحروبِ الأبرِياء، حتَّى يَمنَحَهُم المسيحُ جميعًا، بقِيامَتِهِ مِن بَينِ الأموات، السَّلامَ والتَّعزِيَة. باركَكُم الرّبُّ جَميعًا وحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Avvicinandosi la festa della Pasqua, portiamo nella mente e nel cuore le sofferenze dei malati, dei poveri e degli emarginati, ricordando anche le vittime innocenti delle guerre, affinché il Cristo, con la sua Resurrezione, conceda a tutti la pace e la consolazione. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male‎‎‎‏!]

Serdecznie pozdrawiam pielgrzymów polskich. W tych dniach mocno przemawia do nas prawda o bezgranicznej miłości Boga do grzesznego człowieka. Skoro Bóg tyle wycierpiał, by okazać każdemu z nas swoje miłosierdzie, jesteśmy wezwani aby otworzyć nasze serca na tę miłość, okazując także wielką cierpliwość bliźniemu. Z serca Wam błogosławię.

[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. In questi giorni, ci parla con forza la verità dell’amore sconfinato di Dio verso l’uomo peccatore. Poiché Dio ha sofferto così tanto per mostrare la sua misericordia a ciascuno di noi, siamo chiamati ad aprire i nostri cuori a questo amore, mostrando anche una grande pazienza verso il prossimo. Vi benedico di cuore.]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana: parrocchie, associazioni e scuole, in particolare agli alunni dell’Istituto Marconi di Gorgonzola e a quelli dell’Istituto Carlo Alberto Dalla Chiesa di Afragola.

Nell’intenso clima spirituale della Settimana Santa, saluto con affetto i giovani, i malati, gli anziani e gli sposi novelli. Invito ciascuno a vivere questi giorni nella preghiera, per aprirsi alla grazia di Cristo Redentore, fonte di gioia e di misericordia.

Fratelli e sorelle, preghiamo per la pace. Che il Signore ci dia la pace nella martoriata Ucraina, che sta soffrendo tanto sotto i bombardamenti; anche in Israele e Palestina, che ci sia la pace nella Terra Santa. Che il Signore dia la pace a tutti, come dono della sua Pasqua!

A tutti la mia Benedizione.

Videomessaggio del Santo Padre ai fedeli di Rosario (26 marzo 2024)

Mar, 26/03/2024 - 12:00

Cari fratelli e sorelle di Rosario,

Mi viene in mente in questo momento un versetto del Vangelo di Matteo: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5, 9). È una delle beatitudini. E in un momento di crisi, come quelli che vive la città del Rosario, comprendiamo il bisogno della presenza delle forze di sicurezza per portare tranquillità alla comunità. Tuttavia sappiamo che nel cammino della pace si devono percorrere risposte complesse e integrali, con la collaborazione di tutte le istituzioni che formano la vita di una società. È necessario rafforzare la comunità. Ogni popolo ha in sé gli strumenti per superare ciò che attenta alla sua integrità, alla vita dei suoi figli più deboli.  Contro te che attenti, bisogna rafforzare la comunità.  Nessuna persona di buona volontà può sentirsi né essere esclusa dal grande compito di far sì che Rosario sia un luogo in cui tutti possano sentirsi fratelli.

Senza complicità di un settore del potere politico, giudiziario, economico, finanziario e della polizia non sarebbe possibile arrivare alla situazione in cui si trova la città di Rosario. È necessario «rivalutare la politica, che “è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune”» (Lettera enciclica Fratelli tutti, n. 180).  Tutti i settori politici sono chiamati a percorrere il grande cammino del consenso e del dialogo per generare leggi e politiche pubbliche che accompagnino un processo di recupero del tessuto sociale. L’alternanza delle amministrazioni deve sostenere la continuità dei processi di cambiamento. Occorre lavorare non solo sull’offerta, ma anche sulla domanda di droghe, attraverso politiche di prevenzione e di assistenza. Il silenzio dello Stato in questo campo fa solo sembrare naturale e facilita la promozione del consumo di droghe e la loro commercializzazione.

In un contesto come questo, è necessario che il sistema democratico vegli sull’istituzionalità della giustizia, di modo che possa essere indipendente, per indagare sulle reti della corruzione e del riciclaggio di denaro che favoriscono l’avanzare del narcotraffico. Ogni membro del potere giudiziario è responsabile di custodire la sua integrità, il che inizia dalla rettitudine del suo cuore. Allo stesso modo, vanno ringraziati tutti quegli uomini e quelle donne che, con il loro silenzioso impegno con la giustizia, tante volte mettono a rischio la propria vita per il bene comune in un contesto spesso disumanizzato.

«L’imprenditore è una figura fondamentale di ogni buona economia: non c’è buona economia senza buon imprenditore». Purtroppo, non c’è neppure una cattiva economia senza la complicità di una parte del settore privato. Si prospetta quindi un grande compito nel settore imprenditoriale, non solo impedendo la complicità negli affari con le organizzazioni mafiose, ma anche impegnandosi socialmente. Ci sono grandi esempi di ciò nella vita dell’imprenditoria argentina, tra i quali quello di Enrique Shaw. Nessuno si salva da solo, anche nei quartieri privati si possono trovare l’insicurezza e la minaccia del consumo per i propri figli. La pace è un’impresa che esige la creatività e l’impegno di tutti coloro che hanno il dono d’intraprendere e d’innovare, e voi sapete come farlo. Grazie per questo.

Dato che, in ogni sistema mafioso, i poveri sono il materiale “usa e getta”, vi invito a compiere sforzi e a unire sforzi affinché lo Stato e le istituzioni intermedie possano offrire spazi comunitari nei quartieri vulnerabili. E possono anche creare condizioni affinché i bambini, gli adolescenti e i giovani abbiano uno sviluppo umano integrale, per un futuro migliore di quello che hanno avuto i loro genitori e i loro nonni. Tutti noi — istituzioni sociali, civili e religiose — dobbiamo essere uniti per fare ciò che sappiamo fare meglio: creare comunità.  Rosario può contare su una grande ricchezza di istituzioni al servizio degli altri. È una ricchezza che voi avete. Tutti possiamo collaborare e partecipare agli spazi sportivi, educativi e comunitari. Il timore isola sempre, il timore paralizza. Non dovete aver paura d’impegnarvi insieme ad altri per essere risposta pacifica e ispiratrice.

Fratelli e sorelle, la Chiesa, come Madre e samaritana, è sempre chiamata ad accompagnare spiritualmente e organicamente i familiari delle vittime che hanno perso la vita a causa della violenza, accompagnare i malati, accompagnare quanti vivono la piaga delle dipendenze e i loro familiari, accompagnare quanti si trovano in carcere e hanno poi bisogno di un cammino di reinserimento, accompagnare quanti vivono in situazioni di vulnerabilità estrema.  La parrocchia è la Chiesa che si fa vicina, è la comunità dove tutti possono sentirsi amati. Per molti bambini, adolescenti e giovani vulnerabili sarà forse l’unica esperienza di famiglia che avranno l’opportunità di conoscere. In questi tempi, l’amore, la carità, sarà l’annuncio più esplicito del Vangelo per una società che si sente minacciata.

Cari fratelli e sorelle di Rosario, vi sono vicino. La Vergine del Rosario intercede giorno e notte per tutti i suoi figli, soprattutto, come sono solite fare le mamme, con un’attenzione speciale per quanti hanno maggiori fragilità. Che Dio vi benedica, un abbraccio.

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L’Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 70, martedì 26 marzo 2024, p. 8.

Messaggio del Santo Padre per il 5° anniversario dell'Esortazione Apostolica Christus Vivit (25 marzo 2024)

Lun, 25/03/2024 - 12:00

Cari giovani,

Cristo vive e vi vuole vivi! È una certezza che sempre riempie di gioia il mio cuore e che mi spinge ora a scrivervi questo messaggio, a cinque anni dalla pubblicazione dell’Esortazione apostolica Christus vivit, frutto dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi che aveva come tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”.

Vorrei anzitutto che le mie parole ravvivassero in voi la speranza. Nell’attuale contesto internazionale, infatti, segnato da tanti conflitti, da tante sofferenze, posso immaginare che molti di voi si sentano scoraggiati. Perciò desidero ripartire insieme a voi dall’annuncio che sta a fondamento della speranza per noi e per l’intera umanità: “Cristo vive!”.

Lo dico a ciascuno di voi in particolare: Cristo vive e ti ama, infinitamente. E il suo amore per te non è condizionato dalle tue cadute o dai tuoi errori. Lui, che ha dato la sua vita per te, non aspetta, per amarti, la tua perfezione. Guarda le sue braccia aperte sulla croce e «lasciati salvare sempre nuovamente» [1], cammina con Lui come con un amico, accoglilo nella tua vita e lasciagli condividere le gioie e le speranze, le sofferenze e le angosce della tua giovinezza. Vedrai che il tuo cammino si illuminerà e che anche i pesi più grandi diventeranno meno gravosi, perché ci sarà Lui a portarli con te. Per questo, invoca ogni giorno lo Spirito Santo, che «ti fa entrare sempre più nel cuore di Cristo, affinché tu sia sempre più colmo del suo amore, della sua luce e della sua forza» [2].

Quanto vorrei che questo annuncio arrivasse a ciascuno di voi, e che ognuno lo percepisse vivo e vero nella propria vita e sentisse il desiderio di condividerlo coi suoi amici! Sì, perché voi avete questa grande missione: testimoniare a tutti la gioia che nasce dall’amicizia con Cristo.

All’inizio del mio Pontificato, durante la GMG di Rio de Janeiro, vi ho detto con forza: fatevi sentire! “Hagan lio!”. E ancora oggi torno a chiedervelo: fatevi sentire, gridate, non tanto con la voce ma con la vita e con il cuore, questa verità: Cristo vive! Perché tutta la Chiesa sia spinta a rialzarsi, a mettersi sempre di nuovo in cammino e a portare il suo annuncio a tutto il mondo.

Il prossimo 14 aprile ricorderemo i 40 anni dal primo grande raduno dei giovani che, nel contesto dell’Anno Santo della Redenzione, fu il germoglio delle future Giornate Mondiali della Gioventù. Alla fine di quell’anno giubilare, nel 1984, San Giovanni Paolo II consegnò la Croce ai giovani con la missione di portarla in tutto il mondo come segno e ricordo che solo in Gesù morto e risorto c’è salvezza e redenzione. Come ben sapete, si tratta di una Croce di legno senza il Crocifisso, così voluta per ricordarci che essa celebra soprattutto il trionfo della Risurrezione, la vittoria della vita sulla morte, per dire a tutti: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» ( Lc 24,5-6). E voi Gesù contemplatelo così: vivo e traboccante di gioia, vincitore della morte, amico che vi ama e vuole vivere in voi [3].

Solo così, nella luce della sua presenza, la memoria del passato sarà feconda e avrete il coraggio di vivere il presente e affrontare il futuro con speranza. Potrete assumere con libertà la storia delle vostre famiglie, dei vostri nonni, dei vostri genitori, le tradizioni religiose dei vostri Paesi, per essere a vostra volta costruttori del domani, “artigiani” del futuro.

L’Esortazione Christus vivit è frutto di una Chiesa che vuole camminare insieme e che perciò si mette in ascolto, in dialogo e in costante discernimento della volontà del Signore. Per questo, più di cinque anni fa, in vista del Sinodo sui giovani, a tanti di voi, di varie parti del mondo, è stato chiesto di condividere le proprie attese e i propri desideri. Centinaia di giovani sono venuti a Roma e hanno lavorato insieme per alcuni giorni, raccogliendo idee da proporre: grazie al loro lavoro i Vescovi hanno potuto conoscere e approfondire una visione più ampia e profonda del mondo e della Chiesa. È stato un vero “esperimento sinodale”, che ha portato molti frutti e che ha preparato la strada anche per un nuovo Sinodo, quello che stiamo vivendo adesso, in questi anni, proprio sulla sinodalità. Come leggiamo nel Documento Finale del 2018, infatti, «la partecipazione dei giovani ha contribuito a “risvegliare” la sinodalità, che è una “dimensione costitutiva della Chiesa”» [4]. E ora, in questa nuova tappa del nostro percorso ecclesiale, abbiamo più che mai bisogno della vostra creatività per esplorare vie nuove, sempre nella fedeltà alle nostre radici.

Cari giovani, voi siete speranza viva di una Chiesa in cammino! Per questo vi ringrazio della vostra presenza e del vostro apporto alla vita del Corpo di Cristo. E mi raccomando: non fateci mai mancare il vostro chiasso buono, la vostra spinta come quella di un motore pulito e agile, il vostro modo originale di vivere e annunciare la gioia di Gesù Risorto! Per questo prego; e anche voi, per favore, pregate per me.

Roma, San Giovanni in Laterano, 25 marzo 2024, Lunedì Santo.

 

FRANCESCO

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[1] Esort. ap. postsin. Christus vivit, 123.

[2]  Ivi, 130.

[3] Cfr ivi, 126.

[4] Sinodo dei Vescovi, XV Assemblea Generale Ordinaria, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Documento Finale, 121.

Alla comunità dei Nigeriani in Roma (25 marzo 2024)

Lun, 25/03/2024 - 09:45

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Rivolgo un cordiale saluto e benvenuto a tutti voi, qui convenuti per celebrare i venticinque anni di presenza della comunità cattolica nigeriana a Roma. La data odierna, 25 marzo, coincide con una ricorrenza liturgica molto importante, cioè la Solennità dell’Annunciazione; quest’anno, però, a causa della Settimana Santa, l’Annunciazione viene spostata in un altro giorno. Queste due realtà, la prima che ci ricorda l’Incarnazione del Signore e l’altra che ci introduce nei misteri pasquali della salvezza, ci mostrano che il Verbo, che si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi (cfr Gv 1,14), ha vissuto, è morto ed è risorto per realizzare la riconciliazione e la pace tra Dio e l’umanità. Egli ci ha donato la sua vita!

A questo proposito, vorrei soffermarmi brevemente su tre elementi che ritengo vitali per la vita della vostra comunità: la gratitudine, la ricchezza nella diversità e il dialogo.

Innanzitutto la gratitudine. Vi ringrazio per tutto ciò che avete fatto e continuate a fare testimoniando il gioioso messaggio del Vangelo. Mi unisco a voi anche nel ringraziare Dio Onnipotente per i numerosi giovani nigeriani che hanno ascoltato la chiamata del Signore al sacerdozio e alla vita consacrata e hanno risposto con generosità, umiltà e perseveranza.  Ce ne sono alcuni qui tra di voi, giovani sacerdoti e giovani suore. A ciascun seguace di Gesù, infatti, secondo la sua particolare vocazione, è affidata la responsabilità di servire Dio e il prossimo nell’amore, rendendo Cristo presente nella vita dei fratelli. Possiate essere sempre discepoli missionari, grati che il Signore vi abbia scelti per seguirlo e vi abbia inviato a proclamare con zelo la nostra fede e a contribuire alla costruzione di un mondo più giusto e umano.

In secondo luogo, la ricchezza nella diversità. Su questo, vorrei dire che la diversità di etnie, tradizioni culturali e lingue nella vostra Nazione non costituisce un problema, ma è un dono che arricchisce il tessuto della Chiesa come quello dell’intera società, e consente di promuovere i valori della comprensione reciproca e della convivenza. Spero che la vostra comunità qui a Roma, nell’accogliere e accompagnare i fedeli nigeriani e gli altri credenti, assomigli sempre a una grande famiglia inclusiva, dove tutti possano mettere a frutto i propri talenti diversi, che sono frutti dello Spirito Santo, per sostenervi e rafforzarvi a vicenda nei momenti di gioia e di dolore, di successo e di difficoltà. In questo modo, sarete in grado di seminare i semi dell’amicizia sociale e della concordia per le generazioni presenti e future.

E state attenti a un pericolo, il pericolo della chiusura: non essere universali ma chiudersi in un isolamento – mi permetto la parola – tribale. No. Le vostre radici si chiudono, si isolano in questo atteggiamento tribale e non universale, non comunitario. Comunità sì, tribù no. Questo è molto importante. E vale per tutti noi, per tutti, ognuno secondo la sua posizione. L’universalità è non chiudersi nella propria cultura. È vero, la propria cultura è un dono, ma non per chiuderlo: per darlo, per offrirlo. Universale, universalità.

E infine, cari fratelli e sorelle, il dialogo. Purtroppo, molte regioni del mondo stanno attraversando conflitti e sofferenze e anche la Nigeria sta vivendo un periodo di difficoltà. Nell’assicurarvi la mia preghiera per la sicurezza, l’unità e il progresso spirituale ed economico della vostra Nazione, invito tutti a favorire il dialogo e ad ascoltarsi a vicenda con cuore aperto, senza escludere nessuno a livello politico, sociale e religioso. Integrare, dialogare, universalizzare, sempre a partire dalla propria identità. Allo stesso tempo, vi incoraggio ad essere annunciatori della grande misericordia del Signore, operando per la riconciliazione tra tutti i vostri fratelli e sorelle, contribuendo ad alleviare il peso dei poveri e dei più bisognosi e facendo vostro lo stile di Dio. E qual è lo stile di Dio? Vicinanza, compassione e tenerezza. Non dimenticatevi questo. Lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. In questo modo tutti i nigeriani potranno continuare a camminare insieme nella solidarietà fraterna e nell’armonia.

Cari amici, vi ringrazio ancora una volta per la vostra presenza in questa città, nel cuore della Chiesa. È una grazia provvidenziale che vi offre l’opportunità di approfondire la consapevolezza della vostra chiamata battesimale a vivere sempre come fedeli discepoli del Signore, a dedicarvi al servizio di Dio e del suo popolo santo con la carità che Gesù ci chiede, e a celebrare la ricchezza della vostra peculiare eredità come nigeriani. Una grande ricchezza, sì, per donarla. Affido la vostra comunità alla protezione amorevole della Vergine Maria, Regina e Patrona della Nigeria, e di cuore vi benedico. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

Angelus, 24 marzo 2024

Dom, 24/03/2024 - 12:00

Cari fratelli e sorelle,

esprimo la mia vicinanza alla Comunità San Josè de Apartado, in Colombia, dove alcuni giorni fa sono stati assassinati una giovane donna e un ragazzo. Questa Comunità nel 2018 è stata premiata come esempio di impegno per l’economia solidale, la pace e i diritti umani.

E assicuro la mia preghiera per le vittime del vile attentato terroristico compiuto l’altra sera a Mosca. Il Signore le accolga nella sua pace e conforti le loro famiglie. Egli converta i cuori di quanti progettano, organizzano e attuano queste azioni disumane, che offendono Dio, il quale ha comandato: «Non ucciderai» (Es 20,13).

Saluto tutti voi, fedeli di Roma e pellegrini di vari Paesi. In particolare saluto la delegazione della città di Sanremo, che anche quest’anno, fedele a una tradizione di quattro secoli, ha offerto le foglie di palma intrecciate per questa celebrazione. Grazie, Sanremesi! Il Signore vi benedica.

Cari fratelli e sorelle, Gesù è entrato in Gerusalemme come Re umile e pacifico: apriamo a Lui i nostri cuori! Solo Lui ci può liberare dall’inimicizia, dall’odio, dalla violenza, perché Lui è la misericordia e il perdono dei peccati. Preghiamo per tutti i fratelli e le sorelle che soffrono a causa della guerra; in modo speciale penso alla martoriata Ucraina, dove tantissima gente si trova senza elettricità a causa degli intensi attacchi contro le infrastrutture che, oltre a causare morti e sofferenze, comportano il rischio di una catastrofe umanitaria di ancora più ampie dimensioni. Per favore, non dimentichiamo la martoriata Ucraina! E pensiamo a Gaza, che soffre tanto, e a tanti altri luoghi di guerra.

Ed ora ci rivolgiamo in preghiera alla Vergine Maria: impariamo da Lei a stare vicino a Gesù nei giorni della Settimana Santa, per arrivare alla gioia della Risurrezione.

Ai dirigenti e al personale della RAI-Radiotelevisione Italiana (23 marzo 2024)

Sab, 23/03/2024 - 09:45

Cari amici, buongiorno e benvenuti!

Saluto l’Amministratore delegato, il Direttore generale, i membri del Consiglio di Amministrazione, i dirigenti, i giornalisti, i collaboratori, gli artisti, i tecnici, e le vostre famiglie. È bello che siate qui come una grande comunità. Sono contento di incontrarvi e auguro a tutti voi un buon anniversario!

Settant’anni di televisione, cento di radio: un doppio compleanno, che da un lato vi invita a guardare indietro, alla vostra storia, tanto intrecciata con quella italiana; e dall’altro vi sfida a guardare avanti, al futuro, al ruolo che avrete in un tempo tutto da costruire, dove ogni vita è sempre più connessa con le altre, a livello globale. Inoltre, siamo in Vaticano, e molti di voi conoscono bene questi luoghi, perché la RAI fin dalla sua nascita ha sempre seguito da vicino i passi dei Successori di Pietro.

Essa, però, in tutti questi anni, non è stata solo testimone dei processi di cambiamento della nostra società: in parte, li ha anche costruiti, e da protagonista. I media, infatti, influiscono sulle nostre identità, nel bene e nel male. E qui è il senso del servizio pubblico che svolgete. Perciò vorrei riflettere con voi proprio su queste due parole – servizio e pubblico –, perché esse descrivono molto bene il fondamento della vostra missione: la comunicazione come dono alla comunità.

La prima parola, su cui mi soffermerò di più, è servizio. È una parola che spesso riduciamo al suo significato strumentale, finendo per confondere il servire con il servirsi, la dedizione con l’uso.

Il vostro lavoro, invece, vuole essere soprattutto una risposta ai bisogni dei cittadini, in spirito di apertura universale, con un’azione capace di articolarsi sul territorio senza diventare localista, nel rispetto e nella promozione della dignità di ogni persona. Un contributo alla verità e al bene comune che assume risvolti precisi nell’informazione, nell’intrattenimento, nella cultura e nella tecnologia.

Nel campo dell’informazione, servire significa essenzialmente cercare e promuovere la verità, tutta la verità, ad esempio contrastando il diffondersi delle fake news e il subdolo disegno di chi cerca di influenzare l’opinione pubblica in modo ideologico, mentendo e disgregando il tessuto sociale. La verità è una, è armonica, non si può dividere con gli interessi personali.

Significa evitare ogni riduzione ingannevole, ricordando che la verità è “sinfonica” e che la si coglie meglio imparando ad ascoltare la varietà delle voci – come in un coro – piuttosto che gridando sempre e soltanto la propria idea. Ho voluto sottolineare questo.

Significa, ancora, servire il diritto dei cittadini a una corretta informazione, trasmessa senza pregiudizi, non traendo conclusioni affrettate ma prendendo il tempo necessario per capire e per riflettere e combattendo l’inquinamento cognitivo,perché anche l’informazione dev’essere “ecologica”.

Significa, infine, garantire un pluralismo rispettoso delle diverse opinioni e fonti perché, come già affermava San Giovanni Paolo II, «la verità […], anche quando la si è raggiunta — e ciò avviene sempre in modo limitato e perfettibile — non può mai essere imposta. La verità è proposta, mai imposta. Il rispetto della coscienza altrui, nella quale si riflette l’immagine stessa di Dio (cfr Gen 1,26-27), consente solo di proporre la verità all'altro, al quale spetta poi di responsabilmente accoglierla» (Messaggio per la XXXV Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2002). Per questo vi esorto a coltivare il dialogo, tessendo trame di unità. E per coltivare il dialogo bisogna ascoltare. Tante volte vediamo che l’ascolto serve a prepararmi per dare la risposta, ma non è vero ascolto pensare alla mia posizione senza ricevere quella degli altri.

Il vostro servizio pubblico però non riguarda solo l’informazione. Il pluralismo riguarda anche i linguaggi della comunicazione. Penso al cinema, alla fiction, alle serie tv, ai programmi culturali e di intrattenimento, al racconto dello sport, ai programmi per bambini. In proposito, nella nostra epoca ricca di tecnica ma a volte povera di umanità, è importante promuovere la ricerca della bellezza, avviare dinamiche di solidarietà, custodire la libertà, lavorare perché ogni espressione artistica aiuti tutti e ciascuno ad elevarsi, a riflettere, a emozionarsi, a sorridere e anche a piangere di commozione, per trovare nella vita un senso, una prospettiva di bene, un significato che non sia quello di arrendersi al peggio.

Quanto alla tecnica e alla tecnologia, poi, sono tante le domande che ci interpellano. In particolare oggi «è necessario agire preventivamente, proponendo modelli di regolamentazione etica per arginare i risvolti dannosi e discriminatori, socialmente ingiusti, dei sistemi di intelligenza artificiale e per contrastare il loro utilizzo nella riduzione del pluralismo, nella polarizzazione dell’opinione pubblica o nella costruzione di un pensiero unico» (Messaggio per la LVIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2024).

Dunque, tutto questo era riferito al servizio. Veniamo ora alla seconda parola: pubblico.Essa sottolinea prima di tutto che il vostro lavoro è connesso al bene comune di tutti e non solo di qualcuno. Ciò comporta in primo luogo l’impegno a considerare e a dar voce specialmente agli ultimi, ai più poveri, a chi non ha voce, a chi è scartato.

Implica inoltre la vocazione ad essere strumento di crescita nella conoscenza, a far riflettere e non ad alienare, ad aprire nuovi sguardi sulla realtà e non ad alimentare bolle di indifferenza autosufficiente, a educare i giovani a sognare in grande, con la mente e gli occhi aperti. Questa parola può spaventarci: sognare. Non perdere mai le capacità di sognare, ma sognare alla grande!

L’intero sistema dei media, in questo senso, a livello globale, ha bisogno di essere provocato e stimolato a uscire da sé e a mettersi in discussione, per guardare al di là, oltre. Ed è, questa, una responsabilità alla quale non potete sottrarvi, se volete tenere alto il livello della comunicazione. Non bisogna inseguire gli ascolti a scapito dei contenuti: si tratta piuttosto di costruire, attraverso la vostra offerta, una domanda diffusa di qualità. Del resto la comunicazione, proprio in quanto dialogo per il bene di tutti, può svolgere nel nostro tempo un ruolo fondamentale anche nel ritessere valori socialmente vitali come la cittadinanza e la partecipazione.

Cari fratelli e sorelle, la RAI entra ogni giorno in tante case italiane, praticamente in tutte, ed è bello pensare alla sua presenza non come a una “cattedra di tuttologi”, ma a un gruppo di amici che bussano alla porta per fare una sorpresa – non dimenticare questo: la vera comunicazione è sempre una sorpresa, ti sorprende: tu aspetti una cosa e ti sorprende –, per offrire compagnia, per condividere gioie e dolori, per promuovere in famiglia e nella società unità e riconciliazione, ascolto e dialogo, per informare e anche per mettersi in ascolto, con rispetto e umiltà. Vi incoraggio a camminare su questa strada, è bella!

Invoco su di voi la benedizione di Dio, affidando ciascuno alla materna intercessione di Maria Santissima. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

Dopo la benedizione:

Un tempo i Papi usavano la sedia gestatoria, oggi le cose sono andate avanti e uso questa, che è molto pratica!

Messaggio del Santo Padre nel 420° anniversario della Confraternita di Gesù Nazareno di Sonsonate (El Salvador) (22 marzo 2024)

Ven, 22/03/2024 - 08:00

A Sua Eccellenza Reverendissima
Mons. Constantino Barrera
Vescovo di Sonsonate
e a tutti i devoti di Gesù Nazareno

Cari fratelli e sorelle,

Vi ringrazio per avermi reso partecipe della commemorazione dell’arrivo dell’immagine di Gesù Nazareno in queste terre, nel 1604, e per l’opportunità di unirmi alla vostra celebrazione in questo solenne santo Venerdì.

È significativo vedere come il Signore si avvale del nostro povero linguaggio per farci giungere il messaggio divino. Anche oggi attendiamo, come fecero i nostri antenati più di 400 anni fa, di vedere apparire l’immagine di Gesù Nazareno. Ma, che cosa vogliamo vedere? Una bella statua? Un’opera d’arte preziosa? Il trambusto della gente? Niente di tutto ciò, come ogni anno, se ci affacciamo alla porta delle nostre case è per vedere giungere Gesù, ricordando, in qualche modo, l’atteggiamento del Popolo d’Israele, quando, ognuno all’ingresso della propria tenda, seguiva con lo sguardo Mosè che andava incontro alla Gloria di Dio (cfr. Es 33, 8).

Come Mosè, anche noi possiamo salire alla presenza del Signore per conversare con Lui, “faccia a faccia, come un uomo parla con un amico” (cfr. 11). Lo possiamo fare nella preghiera, se imitiamo la sua fede. In quella preghiera Mosè chiedeva al Signore qualcosa che anche noi cerchiamo, che “gli indicasse la sua via” (cfr. Es 33, 13). Dio gli promise: “o camminerò con te e ti darò riposo” (v. 14), e con quella fiducia il profeta attraversò il deserto. Tuttavia, essendo Dio così grande, Mosè non ebbe l’opportunità di vedere il suo volto (cfr. v. 20) e dinanzi alle prove della vita spesso la sua fiducia venne meno. Noi, invece, sì possiamo contemplare il volto divino e sentire i suoi piedi camminare al nostro fianco. È questa la promessa che Dio ci fa quando il Nazareno devia i propri passi per entrare nel nostro quartiere, attraversare la nostra strada e fermarsi alla porta delle nostre case. Il suo sguardo di amore spogliato ci scruta e c’interpella, come fa con san Pietro, dicendoci: “mi ami?” (cfr. Lc 22, 61; Gv 21, 15-17).

Fratelli, nonostante la nostra indegnità, le nostre continue ingratitudini, rispondiamogli sempre con generosità: “Signore, tu lo sai che ti amo”. Perché, rispondendo così, replichiamo nella nostra vita l’atteggiamento degli israeliti, che restavano “prostrati”, ognuno all’ingresso della propria tenda, quando la Gloria di Dio discendeva su di loro (cfr. 10). In questo atteggiamento di adorazione, mostriamoci docili alle mozioni del suo Spirito che, come la nube di fuoco, guida i nostri passi in questo deserto (cfr. Es 40, 37).

Che triste sarebbe se ogni anno, in questo santo Venerdì, i nostri cuori rimanessero semplicemente a “guardare dal balcone” una curiosa scena, senza prostrarsi al passaggio di Gesù, senza sentire come Pietro il suo invito a seguirlo (cfr. Gv 21, 19). Che peccato se non comprendessimo che è aggrappati alla sua Croce che siamo capaci di camminare con Lui, e non percepissimo che è Lui che porta questo giogo affinché noi possiamo trovare il nostro riposo.

Fratelli, oggi il Signore, come ogni anno, come ogni istante, ci viene incontro, seguiamolo, portandolo sulle nostre spalle, consolandolo nella piaga aperta dei nostri fratelli che soffrono. Chiediamogli di mostrarci come dobbiamo “glorificare Dio” con la nostra vita, facendo del nostro servizio una lode, nel lavoro quotidiano, in famiglia, nell’impegno per creare una società più fraterna, in sostanza, nella testimonianza di bene che tutti possiamo dare, indipendentemente dalla vocazione a cui siamo stati chiamati (cfr. Gv 21, 19).

Che Gesù Nazareno dal Calvario vi benedica e sua Madre Addolorata vi custodisca. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

Fraternamente,

Roma, San Giovanni in Laterano, 22 marzo 2024, Venerdì di Dolore.

Francesco

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 72, giovedì 28 marzo 2024, p. 10.

Lettera del Santo Padre a un gruppo di migranti riuniti a Lajas Blancas, Panama (21 marzo 2024)

Gio, 21/03/2024 - 08:00

Cari migranti,

Vorrei essere lì con voi in questo momento. Anche io sono figlio di migranti che sono partiti alla ricerca di un futuro migliore. Ci sono stati momenti in cui sono rimasti senza nulla, fino a patire la fame; con le mani vuote, ma con il cuore pieno di speranza.

Ringrazio i miei fratelli vescovi e gli agenti di pastorale che mi rappresentano davanti a voi. Essi sono il volto di una Chiesa madre che cammina con i suoi figli e le sue figlie, nei quali scopre il volto di Cristo e, come la Veronica, con affetto, offre sollievo e speranza nella via crucis della migrazione. Grazie per esservi impegnati con i nostri fratelli e le nostre sorelle migranti che rappresentano la carne sofferente di Cristo, quando si vedono costretti ad abbandonare la propria terra, ad affrontare i rischi e le tribolazioni di un cammino duro, non trovando altra via d’uscita.

Fratelli e sorelle migranti, non dimenticatevi mai della vostra dignità umana. Non abbiate paura di guardare gli altri negli occhi, perché non siete uno scarto, ma fate parte anche voi della famiglia umana e della famiglia dei figli di Dio. E grazie per essere lì riuniti.

Che Gesù vi benedica e la Vergine Santa vi custodisca. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

Fraternamente,

Roma, San Giovanni in Laterano, 21 marzo 2024

FRANCESCO

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 66, giovedì 21 marzo 2024, p. 8.

Udienza Generale del 20 marzo 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 12. La prudenza

Mer, 20/03/2024 - 09:00

Catechesi. I vizi e le virtù. 12. La prudenza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La catechesi di oggi la dedichiamo alla virtù della prudenza. Essa, insieme a giustizia, fortezza e temperanza forma le virtù cosiddette cardinali, che non sono prerogativa esclusiva dei cristiani, ma appartengono al patrimonio della sapienza antica, in particolare dei filosofi greci. Perciò uno dei temi più interessanti nell’opera di incontro e di inculturazione fu proprio quello delle virtù.

Negli scritti medievali, la presentazione delle virtù non è una semplice elencazione di qualità positive dell’anima. Riprendendo gli autori classici alla luce della rivelazione cristiana, i teologi hanno immaginato il settenario delle virtù – le tre teologali e le quattro cardinali – come una sorta di organismo vivente, dove ogni virtù ha uno spazio armonico da occupare. Ci sono virtù essenziali e virtù accessorie, come pilastri, colonne e capitelli. Ecco, forse niente quanto l’architettura di una cattedrale medievale può restituire l’idea dell’armonia che c’è nell’uomo e della sua continua tensione verso il bene.

Dunque, partiamo dalla prudenza. Essa non è la virtù della persona timorosa, sempre titubante circa l’azione da intraprendere. No, questa è un’interpretazione sbagliata. Non è nemmeno solo la cautela. Accordare un primato alla prudenza significa che l’azione dell’uomo è nelle mani della sua intelligenza e libertà. La persona prudente è creativa: ragiona, valuta, cerca di comprendere la complessità del reale e non si lascia travolgere dalle emozioni, dalla pigrizia, dalle pressioni dalle illusioni.

In un mondo dominato dall’apparire, dai pensieri superficiali, dalla banalità sia del bene che del male, l’antica lezione della prudenza merita di essere recuperata.

San Tommaso, sulla scia di Aristotele, la chiamava “recta ratio agibilium”. È la capacità di governare le azioni per indirizzarle verso il bene; per questo motivo essa è soprannominata il “cocchiere delle virtù”. Prudente è colui o colei che è capace di scegliere: finché resta nei libri, la vita è sempre facile, ma in mezzo ai venti e alle onde del quotidiano è tutt’altra cosa, spesso siamo incerti e non sappiamo da che parte andare. Chi è prudente non sceglie a caso: anzitutto sa che cosa vuole, quindi pondera le situazioni, si fa consigliare e, con visione ampia e libertà interiore, sceglie quale sentiero imboccare. Non è detto che non possa sbagliare, in fondo restiamo sempre umani; ma almeno eviterà grosse sbandate. Purtroppo, in ogni ambiente c’è chi tende a liquidare i problemi con battute superficiali o a sollevare sempre polemiche. La prudenza invece è la qualità di chi è chiamato a governare: sa che amministrare è difficile, che i punti di vista sono tanti e bisogna cercare di armonizzarli, che si deve fare non il bene di qualcuno ma di tutti.

La prudenza insegna anche che, come si suol dire, “l’ottimo è nemico del bene”. Il troppo zelo, infatti, in qualche situazione può combinare disastri: può rovinare una costruzione che avrebbe richiesto gradualità; può generare conflitti e incomprensioni; può addirittura scatenare la violenza.

La persona prudente sa custodire la memoria del passato, non perché ha paura del futuro, ma perché sa che la tradizione è un patrimonio di saggezza. La vita è fatta di un continuo sovrapporsi di cose antiche e cose nuove, e non fa bene pensare sempre che il mondo cominci da noi, che i problemi dobbiamo affrontarli partendo da zero. E la persona prudente è anche previdente. Una volta decisa la meta a cui tendere, bisogna procurarsi tutti i mezzi per raggiungerla.

Tanti passi del Vangelo ci aiutano a educare la prudenza. Ad esempio: è prudente chi costruisce la sua casa sulla roccia e imprudente chi la costruisce sulla sabbia (cfr Mt 7,24-27). Sagge sono le damigelle che portano con sé l’olio per le loro lampade e stolte quelle che non lo fanno (cfr Mt 25,1-13). La vita cristiana è un connubio di semplicità e di scaltrezza. Preparando i suoi discepoli per la missione, Gesù raccomanda: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16). Come dire che Dio non ci vuole solo santi, ci vuole santi intelligenti, perché senza la prudenza è un attimo sbagliare strada!

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Saluti

Je salue cordialement les personnes de langue française, particulièrement les jeunes provenant des établissements scolaires de France et leurs accompagnateurs. Frères et sœurs, à l’école de saint Joseph, que nous venons de fêter, apprenons à redécouvrir les vertus de courage et de prudence afin d’accomplir efficacement notre mission de baptisés dans notre société actuelle. Que Dieu vous bénisse !

[Rivolgo il mio cordiale saluto alle persone di lingua francese, in particolare ai giovani provenienti dagli Istituti scolastici di Francia e ai loro accompagnatori. Fratelli e sorelle, alla scuola di San Giuseppe, che abbiamo appena celebrato, impariamo a riscoprire le virtù del coraggio e della prudenza per svolgere efficacemente la nostra missione di battezzati nella società odierna. Dio vi benedica!]

I greet all the English-speaking pilgrims, especially those coming from England, the Netherlands, Denmark, the Faroe Islands, Japan, Korea and the United States of America. May the Lentern journey bring us to Easter with hearts purified and renewed by the grace of the Holy Spirit. Upon you and your families, I invoke joy and peace in Christ!

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, Paesi Bassi, Danimarca, Isole Faroe, Giappone, Corea e Stati Uniti d’America. A tutti auguro che il cammino quaresimale porti alla gioia di Pasqua con cuori purificati e rinnovati dalla grazia dello Spirito Santo. Su voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace di Cristo!]

Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, bitten wir den Heiligen Geist, er möge uns erleuchten, auf dass unsere Entscheidungen immer von der Klugheit geleitet seien. Auf diese Weise werden wir den Willen des Herrn in jeder Lebenslage erkennen und ihm folgen können.

[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, chiediamo allo Spirito Santo di illuminarci perché le nostre scelte siano sempre guidate dalla prudenza. Così potremo discernere e seguire la volontà del Signore in ogni situazione della nostra vita.]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española. Pidamos al Señor que nos ayude a crecer en la virtud de la prudencia para que, en medio de las tormentas y los vientos que pueden sacudir nuestra vida, permanezcamos cimentados en Cristo, la piedra angular. Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide. Muchas gracias.

Saúdo cordialmente os fiéis de língua portuguesa. Na próxima semana celebraremos o mistério Pascal, a paixão, morte e ressurreição do Senhor, razão da nossa fé e da nossa esperança. Que Ele vos abençoe abundantemente e que Nossa Senhora vos guarde!

[Saluto cordialmente i fedeli di lingua portoghese. La prossima settimana celebreremo il mistero Pasquale, la passione, morte e risurrezione del Signore, ragione della nostra fede e della nostra speranza. Egli vi benedica abbondantemente e la Madonna vi custodisca!]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العَرَبِيَّة. اللهُ لا يُريدُنا أنْ نكون قِدِّيسينَ فقط، بل يُريدُنا أنْ نكون قِدِّيسينَ عاقِلِين، لأنَّهُ مِن دونِ الفِطنَةِ يُمكِنُنا أنْ نُخطِئَ الطَّريقَ في لَحظَةٍ واحدة! بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Dio non ci vuole solo santi, ci vuole santi intelligenti, perché senza la prudenza è un attimo sbagliare strada! Il Signore vi benedica tutti e vi protegga ‎sempre da ogni male‎‎‎‏!]

Serdecznie pozdrawiam Polaków. Co roku 24 marca obchodzicie w Polsce Narodowy Dzień Życia. Myśląc o waszej Ojczyźnie, chciałbym odnieść do niej moje marzenie, jakie kilka lat temu wyraziłem, pisząc o Europie. Niech Polska będzie ziemią, która chroni życie w każdym jego momencie, od chwili, gdy pojawia się w łonie matki, aż do jego naturalnego kresu. Nie zapominajcie, że nikt nie jest panem życia, czy to swojego, czy też innych. Z serca wam błogosławię.

[Saluto cordialmente i polacchi. Ogni anno il 24 marzo celebrate in Polonia la Giornata Nazionale della Vita. Pensando alla vostra patria, vorrei riferirvi il mio sogno, che ho espresso qualche anno fa scrivendo sull’Europa. Che la Polonia sia una terra che tuteli la vita in ogni suo istante, da quando sorge nel grembo materno fino alla sua fine naturale. Non dimenticate che nessuno è padrone della vita, né propria né di quella degli altri. Vi benedico di cuore.]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare alla Rete delle città legate al culto di Sant’Oronzo, Vescovo e martire. Cari fratelli e sorelle, la testimonianza del vostro celeste protettore, di cui sarò lieto di benedire l’immagine, susciti in ciascuno il desiderio di aderire sempre più generosamente a Cristo e al Vangelo.

Saluto altresì la parrocchia di San Pietro in Grignano di Prato, i podisti di Boves e gli alunni dell’Istituto comprensivo di Sora.

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Abbiamo celebrato ieri la solennità di San Giuseppe, Patrono della Chiesa universale. Vorrei insieme a voi affidare al suo patrocinio la Chiesa e il mondo intero, soprattutto tutti i papà che in lui hanno un modello singolare da imitare.

A San Giuseppe raccomandiamo anche le popolazioni della martoriata Ucraina e della Terra Santa – la Palestina, Israele –, che tanto soffrono l’orrore della guerra. E non dimentichiamo mai: la guerra sempre è una sconfitta. Non si può andare avanti in guerra. Dobbiamo fare tutti gli sforzi per trattare, per negoziare, per finire la guerra. Preghiamo per questo.

A tutti la mia Benedizione!

Chirografo di Sua Santità Francesco per l'approvazione dello Statuto e del Regolamento del Capitolo della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore (19 marzo 2024)

Mar, 19/03/2024 - 12:00

Il Capitolo della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore, da diversi secoli, custodisce la venerata effige della Salus Populi Romani e la insigne reliquia della Sacra Culla, cura il decoro delle celebrazioni liturgiche del Tempio liberiano e accoglie i fedeli che ivi si radunano.

Il 14 dicembre 2021 ho affidato a un Commissario Straordinario, affiancato da un’apposita Commissione, l’incarico di provvedere al riordino della vita del Capitolo e della Basilica, per il maggior bene del popolo di Dio.

Oggi, al termine del commissariamento, ritengo opportuno liberare i Canonici da ogni incombenza di carattere economico e amministrativo, affinché possano dedicarsi, pienamente e con rinnovato vigore, all’accompagnamento spirituale e pastorale che i pellegrini di tutto il mondo cercano e desiderano trovare, varcando le soglie del primo Santuario mariano d’Occidente.

Per questa ragione, ispirandosi ai Principi e ai Criteri della Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium, è stato stilato un nuovo Statuto e predisposto un nuovo Regolamento del Capitolo della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore che, come di seguito riportati, con il presente Chirografo, approvo.

Al contempo, conferisco a S.E.R. Mons. Rolandas Makrickas, Arciprete Coadiutore della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore, tutte le facoltà necessarie per la moderazione e l’applicazione della nuova normativa e per il governo del Capitolo. Dispongo, inoltre, che ne continui ad esercitare la Legale Rappresentanza, e che mantenga, fino all’insediamento del Consiglio di Amministrazione, la potestà di porre atti di ordinaria e straordinaria amministrazione. Infine, gli attribuisco le mansioni spettanti al Vicario dell’Arciprete, al Delegato per la Pastorale e al Delegato per l’Amministrazione, fino alle rispettive nomine.

Tutto quanto qui ho stabilito ha pieno e stabile vigore, nonostante qualsiasi disposizione contraria, anche degna di speciale menzione, entra in vigore con la pubblicazione su L’Osservatore Romano e, successivamente,sarà inserito negli Acta Apostolicae Sedis.

Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 19 marzo 2024, dodicesimo del Pontificato.

 

FRANCESCO

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Messaggio per la 61<sup>a</sup> Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni 2024

Mar, 19/03/2024 - 12:00

Chiamati a seminare la speranza e a costruire la pace

Cari fratelli e sorelle!

La Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni ci invita, ogni anno, a considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita. Ascoltare la chiamata divina, lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso; è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro: la nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo.

Così, questa Giornata è sempre una bella occasione per ricordare con gratitudine davanti al Signore l’impegno fedele, quotidiano e spesso nascosto di coloro che hanno abbracciato una chiamata che coinvolge tutta la loro vita. Penso alle mamme e ai papà che non guardano anzitutto a sé stessi e non seguono la corrente di uno stile superficiale, ma impostano la loro esistenza sulla cura delle relazioni, con amore e gratuità, aprendosi al dono della vita e ponendosi al servizio dei figli e della loro crescita. Penso a quanti svolgono con dedizione e spirito di collaborazione il proprio lavoro; a coloro che si impegnano, in diversi campi e modi, per costruire un mondo più giusto, un’economia più solidale, una politica più equa, una società più umana: a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che si spendono per il bene comune. Penso alle persone consacrate, che offrono la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano. E penso a coloro che hanno accolto la chiamata al sacerdozio ordinato e si dedicano all’annuncio del Vangelo e spezzano la propria vita, insieme al Pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio.

Ai giovani, specialmente a quanti si sentono lontani o nutrono diffidenza verso la Chiesa, vorrei dire: lasciatevi affascinare da Gesù, rivolgetegli le vostre domande importanti, attraverso le pagine del Vangelo, lasciatevi inquietare dalla sua presenza che sempre ci mette beneficamente in crisi. Egli rispetta più di ogni altro la nostra libertà, non si impone ma si propone: lasciategli spazio e troverete la vostra felicità nel seguirlo e, se ve lo chiederà, nel donarvi completamente a Lui.

Un popolo in cammino

La polifonia dei carismi e delle vocazioni, che la Comunità cristiana riconosce e accompagna, ci aiuta a comprendere pienamente la nostra identità di cristiani: come popolo di Dio in cammino per le strade del mondo, animati dallo Spirito Santo e inseriti come pietre vive nel Corpo di Cristo, ciascuno di noi si scopre membro di una grande famiglia, figlio del Padre e fratello e sorella dei suoi simili. Non siamo isole chiuse in sé stesse, ma siamo parti del tutto. Perciò, la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni porta impresso il timbro della sinodalità: molti sono i carismi e siamo chiamati ad ascoltarci reciprocamente e a camminare insieme per scoprirli e per discernere a che cosa lo Spirito ci chiama per il bene di tutti.

Nel presente momento storico, poi, il cammino comune ci conduce verso l’Anno Giubilare del 2025. Camminiamo come pellegrini di speranza verso l’Anno Santo, perché nella riscoperta della propria vocazione e mettendo in relazione i diversi doni dello Spirito, possiamo essere nel mondo portatori e testimoni del sogno di Gesù: formare una sola famiglia, unita nell’amore di Dio e stretta nel vincolo della carità, della condivisione e della fraternità.

Questa Giornata è dedicata, in particolare, alla preghiera per invocare dal Padre il dono di sante vocazioni per l’edificazione del suo Regno: «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (Lc 10,2). E la preghiera – lo sappiamo – è fatta più di ascolto che di parole rivolte a Dio. Il Signore parla al nostro cuore e vuole trovarlo aperto, sincero e generoso. La sua Parola si è fatta carne in Gesù Cristo, il quale ci rivela e ci comunica tutta la volontà del Padre. In quest’anno 2024, dedicato proprio alla preghiera in preparazione al Giubileo, siamo chiamati a riscoprire il dono inestimabile di poter dialogare con il Signore, da cuore a cuore, diventando così pellegrini di speranza, perché «la preghiera è la prima forza della speranza. Tu preghi e la speranza cresce, va avanti. Io direi che la preghiera apre la porta alla speranza. La speranza c’è, ma con la mia preghiera apro la porta» (Catechesi, 20 maggio 2020).

Pellegrini di speranza e costruttori di pace

Ma cosa vuol dire essere pellegrini? Chi intraprende un pellegrinaggio cerca anzitutto di avere chiara la meta, e la porta sempre nel cuore e nella mente. Allo stesso tempo, però, per raggiungere quel traguardo, occorre concentrarsi sul passo presente, per affrontare il quale bisogna essere leggeri, spogliarsi dei pesi inutili, portare con sé l’essenziale e lottare ogni giorno perché la stanchezza, la paura, l’incertezza e le oscurità non blocchino il cammino intrapreso. Così, essere pellegrini significa ripartire ogni giorno, ricominciare sempre, ritrovare l’entusiasmo e la forza di percorrere le varie tappe del percorso che, nonostante le fatiche e le difficoltà, sempre aprono davanti a noi orizzonti nuovi e panorami sconosciuti.

Il senso del pellegrinaggio cristiano è proprio questo: siamo posti in cammino alla scoperta dell’amore di Dio e, nello stesso tempo, alla scoperta di noi stessi, attraverso un viaggio interiore ma sempre stimolato dalla molteplicità delle relazioni. Dunque, pellegrini perché chiamati: chiamati ad amare Dio e ad amarci gli uni gli altri. Così, il nostro camminare su questa terra non si risolve mai in un affaticarsi senza scopo o in un vagare senza meta; al contrario, ogni giorno, rispondendo alla nostra chiamata, cerchiamo di fare i passi possibili verso un mondo nuovo, dove si viva in pace, nella giustizia e nell’amore. Siamo pellegrini di speranza perché tendiamo verso un futuro migliore e ci impegniamo a costruirlo lungo il cammino.

Questo è, alla fine, lo scopo di ogni vocazione: diventare uomini e donne di speranza. Come singoli e come comunità, nella varietà dei carismi e dei ministeri, siamo tutti chiamati a “dare corpo e cuore” alla speranza del Vangelo in un mondo segnato da sfide epocali: l’avanzare minaccioso di una terza guerra mondiale a pezzi; le folle di migranti che fuggono dalla loro terra alla ricerca di un futuro migliore; il costante aumento dei poveri; il pericolo di compromettere in modo irreversibile la salute del nostro pianeta. E a tutto ciò si aggiungono le difficoltà che incontriamo quotidianamente e che, a volte, rischiano di gettarci nella rassegnazione o nel disfattismo.

In questo nostro tempo, allora, è decisivo per noi cristiani coltivare uno sguardo pieno di speranza, per poter lavorare con frutto, rispondendo alla vocazione che ci è stata affidata, al servizio del Regno di Dio, Regno di amore, di giustizia e di pace. Questa speranza – ci assicura San Paolo – «non delude» (Rm 5,5), perché si tratta della promessa che il Signore Gesù ci ha fatto di restare sempre con noi e di coinvolgerci nell’opera di redenzione che Egli vuole compiere nel cuore di ogni persona e nel “cuore” del creato. Tale speranza trova il suo centro propulsore nella Risurrezione di Cristo, che «contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali. È vero che molte volte sembra che Dio non esista: vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono. Però è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 276). Ancora l’apostolo Paolo afferma che «nella speranza» noi «siamo stati salvati» (Rm 8,24). La redenzione realizzata nella Pasqua dona la speranza, una speranza certa, affidabile, con la quale possiamo affrontare le sfide del presente.

Essere pellegrini di speranza e costruttori di pace, allora, significa fondare la propria esistenza sulla roccia della risurrezione di Cristo, sapendo che ogni nostro impegno, nella vocazione che abbiamo abbracciato e che portiamo avanti, non cade nel vuoto. Nonostante fallimenti e battute d’arresto, il bene che seminiamo cresce in modo silenzioso e niente può separarci dalla meta ultima: l’incontro con Cristo e la gioia di vivere nella fraternità tra di noi per l’eternità. Questa chiamata finale dobbiamo anticiparla ogni giorno: la relazione d’amore con Dio e con i fratelli e le sorelle inizia fin d’ora a realizzare il sogno di Dio, il sogno dell’unità, della pace e della fraternità. Nessuno si senta escluso da questa chiamata! Ciascuno di noi, nel suo piccolo, nel suo stato di vita può essere, con l’aiuto dello Spirito Santo, seminatore di speranza e di pace.

Il coraggio di mettersi in gioco

Per tutto questo dico, ancora una volta, come durante la Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona: “Rise up! – Alzatevi!”. Svegliamoci dal sonno, usciamo dall’indifferenza, apriamo le sbarre della prigione in cui a volte ci siamo rinchiusi, perché ciascuno di noi possa scoprire la propria vocazione nella Chiesa e nel mondo e diventare pellegrino di speranza e artefice di pace! Appassioniamoci alla vita e impegniamoci nella cura amorevole di coloro che ci stanno accanto e dell’ambiente che abitiamo. Ve lo ripeto: abbiate il coraggio di mettervi in gioco! Don Oreste Benzi, un infaticabile apostolo della carità, sempre dalla parte degli ultimi e degli indifesi, ripeteva che nessuno è così povero da non aver qualcosa da dare, e nessuno è così ricco da non aver bisogno di ricevere qualcosa.

Alziamoci, dunque, e mettiamoci in cammino come pellegrini di speranza, perché, come Maria fece con Santa Elisabetta, anche noi possiamo portare annunci di gioia, generare vita nuova ed essere artigiani di fraternità e di pace.

Roma, San Giovanni in Laterano, 21 aprile 2024, IV Domenica di Pasqua.

FRANCESCO

Lettera del Santo Padre per il 30° Anniversario dell'uccisione di Don Giuseppe Diana (19 marzo 2024)

Mar, 19/03/2024 - 12:00

Al Caro Fratello
Mons. Angelo SPINILLO
Vescovo di Aversa

Il ricordo del tragico evento consumatosi trent’anni orsono, quando Don Giuseppe Diana, Parroco di San Nicola di Bari a Casal di Principe, nella mattina del 19 marzo 1994, fu barbaramente ucciso, suscita nell’animo di quanti lo hanno conosciuto e amato commozione oltre che gratitudine a Dio Padre per aver donato alla Chiesa questo “servo buono e fedele” (Mt 25,14), che ha operato profeticamente calandosi nel deserto esistenziale di un popolo a lui tanto caro, servito e difeso fino al sacrificio della propria esistenza.

Desidero, dunque, rivolgere un pensiero paterno all’intera Comunità diocesana e specialmente ai fedeli della Parrocchia di Casal di Principe che, nel fare memoria di Don Peppe, come affettuosamente veniva chiamato, vuole vivere la sua stessa speranza di camminare insieme incarnando la profezia cristiana, che ci invita a costruire un mondo libero dal giogo del male e da ogni tipo di prepotenza malavitosa. La mia riconoscenza va anche a coloro che continuano l’opera pastorale che Don Diana ha avviato come assistente spirituale di associazioni e di gruppi di fedeli, in particolare di giovani e di realtà legate agli Scout.

Esprimo vicinanza e incoraggiamento a tutti Voi che, orientati dall’annuncio profetico “Per amore del mio popolo…” (Is 62,1), perseverate sulla via tracciata da Don Diana e, con impegno quotidiano, coltivate pazientemente il seme della giustizia e il sogno dello sviluppo umano e sociale per la vostra terra.

Ancora oggi si ripete la triste vicenda narrata dalla Sacra Scrittura del primo fratricidio di Caino contro il fratello Abele (cfr. Gen 4,8). Questa storia tragica conserva la sua attualità quando un essere umano alza la mano per colpire l’altro, così come avviene nelle tante forme di odio e di sopruso che feriscono l’uomo e talvolta bagnano di sangue le strade dei nostri quartieri e delle nostre città.  Pertanto, la commemorazione del sacrificio di Don Giuseppe ci sprona a ravvivare in noi quella evangelica inquietudine che ha animato il suo sacerdozio e lo ha portato senza alcuna esitazione a contemplare il volto del Padre in ogni fratello, testimoniando a chi si sente ferito il progetto di Dio, perché ciascuno potesse vivere nella giustizia, nella pace e nella libertà.

A fronte di quella violenza e della prepotenza disumana che nega la giustizia e annulla la dignità delle persone, i cristiani sono coloro che annunziano il Vangelo e vivono la vocazione ad essere con Cristo segno di un’umanità nuova, fecondata dalla fraternità e dalla comunione. Tale consapevolezza, già nel 1982, spinse i Vescovi della Campania a “levare alta la voce della denuncia e riproporre con forza il progetto dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella verità (cfr. Ef 4,24) … e sottolineare la contrapposizione stridente che esiste tra i falsi messaggi della camorra e il messaggio di Gesù Cristo” (Conferenza Episcopale Campana, Per amore del mio popolo non tacerò, 1982). Allo stesso tempo sentiamo forte l’attualità delle parole che Don Peppe Diana, con i Parroci della zona pastorale di Casal di Principe, pronunciò nel Natale del 1991: “Come battezzati in Cristo, come pastori… Dio ci chiama ad essere profeti. Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (cfr. Ez 3,16-18)” (Forania di Casal di Principe, Per amore del mio popolo, 1991).

In tale significativo anniversario dell’uccisione di questo coraggioso discepolo del Maestro, invito a rafforzare la fede e la speranza nella verità di Dio, ad accogliere la sua Parola e a custodire il proposito di edificare una società, finalmente purificata dalle ombre del peccato, capace di osare un avvenire di concordia e di fraternità.

Prima di concludere, mosso da sentimenti di fiducia, esorto Voi giovani, volto bello e limpido di codesta terra: non lasciatevi rubare la speranza, coltivate ideali alti e costruite un futuro diverso con mani non sporche di sangue ma di lavoro onesto, senza cedere a compromessi facili ma illusori, raccogliendo l’eredità spirituale di Don Peppe per divenire, a vostra volta, artigiani di pace.

Mentre affido tutti alla materna protezione della Beata Vergine Maria e all’intercessione di San Giuseppe, uomo giusto e padre nella tenerezza, di cuore Vi benedico, chiedendo per favore di non dimenticarVi di pregare per me.

Fraternamente

Roma, da San Giovanni in Laterano, 19 marzo 2024
Solennità di San Giuseppe Sposo della B.V.M.
Patrono della Chiesa Universale

Francesco

Messaggio del Santo Padre ai partecipanti all’Incontro dei Vescovi di Colombia e Costa Rica e di Panama [Panama, 19-22 marzo 2024] (19 marzo 2024)

Mar, 19/03/2024 - 09:00

Saluto cordialmente i partecipanti al convegno “Pasqua con i nostri fratelli migranti. Incontro dei Vescovi di frontiera di Colombia e Costa Rica e dei Vescovi di Panama”.

Sono lieto che il vostro convegno si aggiunga a iniziative come il ix incontro dei Vescovi di frontiera di Canada, Stati Uniti, Messico, America Centrale e Caraibi tenutosi a El Salvador; il ii Incontro dei Vescovi di frontiera di Colombia e Venezuela svoltosi a Cúcuta; e l’Incontro dei Vescovi di Frontiera tra Colombia ed Ecuador celebrato a Pasto.

L’evangelista Matteo ci dice che «il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: “Dove vuoi che ti prepariamo, per mangiare la Pasqua?”» (26, 17). Oggi, la Chiesa che peregrina in Colombia, Costa Rica e Panamá, unendosi al Signore, vuole rispondere: «Nel Darién, con i fratelli e le sorelle migranti». È lì che ci aspettano, sulla riva terrestre di un mare di lacrime e di morte che unisce uomini e donne, adulti e bambini delle più diverse latitudini.

La migrazione in questa regione include venezuelani, ecuadoregni, colombiani, haitiani che, lungo il cammino, si uniscono a gruppi di nicaraguensi e altri migranti centroamericani, come pure di altri continenti. Con il suo volto multiculturale, questa carovana umana passa per il Tapón del Darién, una giungla che è un trionfo della natura, ma che oggi sta diventando una vera e propria via crucis, che non solo mette in evidenza i limiti della gestione dei migranti nell’emisfero occidentale, ma alimenta anche un fiorente business che permette di accumulare profitti illeciti provenienti dalla tratta di esseri umani.

Né i pericoli che presuppongono il passaggio e i ricatti illegali, né i crescenti respingimenti o trattenimenti in Paesi dove questi fratelli e sorelle non sono desiderati riducono l’attrazione (reale o illusoria) di soddisfare i bisogni di lavoro e di migliori condizioni di vita o, persino, di una sperata riunificazione familiare.

La Chiesa in America Latina e nei Caraibi, come testimoniano le cinque conferenze generali del suo Consiglio Episcopale, ha sempre espresso la sua preoccupazione per il tema della migrazione, cercando di essere una Chiesa senza frontiere, Madre di tutti. È per questo che, come cristiani, ogni rifugiato o migrante che abbandona la sua patria c’interpella. Nei nostri popoli troviamo al tempo stesso la fratellanza ospitale che accoglie con sensibilità umana ma, purtroppo, anche l’indifferenza, che insanguina il Darién.

Vi incoraggio a lavorare instancabilmente affinché sia possibile sradicare questa indifferenza, di modo che quando un fratello o una sorella migrante giunge, trovi nella Chiesa un posto dove non si senta giudicato, bensì accolto; dove possa placare la fame e la sete, e ravvivare la speranza. Per questo la pastorale della mobilità umana ci spinge, come dice Isaia, ad allargare lo spazio della tenda (cfr. 54, 2) e così, riconoscendoci a nostra volta forestieri, con le nostre vulnerabilità e carenze, possiamo creare le condizioni necessarie per accogliere il prossimo come un fratello o una sorella, e renderlo partecipe della nostra quotidianità.

Riconosco con gratitudine che la Chiesa in America, da nord a sud, includendo i Caraibi, possiede un ampio e diversificato sistema di ministero pastorale, caritativo e di mobilità umana a livello nazionale e locale, che si manifesta attraverso una vasta e solida risposta nell’assistenza diretta ai migranti, e che si plasma in case di accoglienza, centri per rimpatriati, assistenza umanitaria di emergenza, assistenza medica, assistenza psicosociale, consulenza legale, sostegno spirituale, rafforzamento dei collettivi di migranti, mezzi di sussistenza e processi d’impatto politico. Per favore, non trascurate queste strutture, che sono opportunità di accoglienza e carità per i fratelli più bisognosi.

Un approccio regionale alla migrazione rappresenta inoltre un’opportunità pastorale. Nel mio messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2023 ho ricordato che il diritto a non migrare si presenta a noi come soluzione, sebbene a lungo termine, alla migrazione forzata, attraverso l’integrazione regionale dei Paesi che respingono e di quelli di passaggio, destinazione e ritorno di migranti. Vi esorto quindi a unire gli sforzi con tutte le istanze della comunità internazionale affinché tutti abbiano questo diritto a rimanere nella propria terra con una vita dignitosa e pacifica.

Il cammino della migrazione ha bisogno di pastori e di agenti di pastorale che osino superare i limiti di quanto stabilito, che non temano di riconoscere alcun sentiero, perché hanno perso la paura che paralizza, capaci di ritornare all’essenziale, abbandonando l’indifferenza, perché sono consapevoli che, solo camminando al ritmo di Dio con il suo popolo santo, si potranno superare le barriere del convenzionale, portando la Chiesa, insieme con i fratelli e le sorelle migranti, lungo vie di speranza.

Cari fratelli e sorelle, che possiamo formare una sola Chiesa disposta ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare tutti, senza distinzioni e senza escludere nessuno, riconoscendo il diritto che ognuno ha di offrire il proprio contributo, attraverso il lavoro e l’impegno personale, al bene di tutti e alla protezione della nostra casa comune.

Vi incoraggio a vivere questi giorni con gioia e speranza, e che la Pasqua che si avvicina sia il motivo che vi ricordi che tutti gli sforzi valgono la pena. Che Gesù vi benedica e la Vergine Santa vi custodisca e, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

Fraternamente,

Roma, San Giovanni in Laterano, 19 marzo 2024

Francesco

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 65, mercoledì 20 marzo 2024, p. 6.

Angelus, 17 marzo 2024

Dom, 17/03/2024 - 12:00

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, quinta Domenica di Quaresima, mentre ci avviciniamo alla Settimana Santa, Gesù nel Vangelo (cfr Gv 12,20-33) ci dice una cosa importante: che sulla Croce vedremo la gloria sua e del Padre (cfr vv. 23.28).

Ma com’è possibile che la gloria di Dio si manifesti proprio lì, sulla Croce? Verrebbe da pensare che ciò avvenga nella Risurrezione, non sulla Croce, che è una sconfitta, un fallimento! Invece oggi Gesù, parlando della sua Passione, dice: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (v. 23). Cosa vuole dirci?

Vuole dirci che la gloria, per Dio, non corrisponde al successo umano, alla fama o alla popolarità; la gloria, per Dio, non ha nulla di autoreferenziale, non è una manifestazione grandiosa di potenza cui seguono gli applausi del pubblico. Per Dio la gloria è amare fino a dare la vita. Glorificarsi, per Lui, vuol dire donarsi, rendersi accessibile, offrire il suo amore. E questo è avvenuto in modo culminante sulla Croce, proprio lì, dove Gesù ha dispiegato al massimo l’amore di Dio, rivelandone pienamente il volto di misericordia, donandoci la vita e perdonando i suoi crocifissori.

Fratelli e sorelle, dalla Croce, “cattedra di Dio”, il Signore ci insegna che la gloria vera, quella che non tramonta mai e rende felici, è fatta di dono e perdono. Dono e perdono sono l’essenza della gloria di Dio. E sono per noi la via della vita. Dono e perdono: criteri molto diversi da ciò che vediamo attorno a noi, e anche in noi, quando pensiamo alla gloria come a qualcosa da ricevere più che da dare; come qualcosa da possedere anziché da offrire. No, la gloria mondana passa e non lascia la gioia nel cuore; nemmeno porta al bene di tutti, ma alla divisione, alla discordia, all’invidia.

E allora possiamo chiederci: qual è la gloria che desidero per me, per la mia vita, che sogno per il mio futuro? Quella di impressionare gli altri per la mia bravura, per le mie capacità o per le cose che possiedo? Oppure la via del dono e del perdono, quella di Gesù Crocifisso, la via di chi non si stanca di amare, fiducioso che ciò testimonia Dio nel mondo e fa risplendere la bellezza della vita? Quale gloria voglio per me? Ricordiamo infatti che, quando doniamo e perdoniamo, in noi risplende la gloria di Dio. Proprio lì: quando doniamo e perdoniamo.

La Vergine Maria, che ha seguito con fede Gesù nell’ora della Passione, ci aiuti ad essere riflessi viventi dell’amore di Gesù.

Dopo l’Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Ho appreso con sollievo che ad Haiti sono stati liberati un’insegnante e quattro dei sei religiosi dell’Istituto Frères du Sacré-Cœur rapiti lo scorso 23 febbraio. Chiedo che siano liberati al più presto gli altri due religiosi e tutte le persone ancora sotto sequestro in quell’amato Paese provato da tanta violenza. Invito tutti gli attori politici e sociali ad abbandonare ogni interesse particolare e a impegnarsi in spirito solidale nella ricerca del bene comune, sostenendo una transizione serena verso un Paese che, con l’aiuto della Comunità internazionale, sia dotato di solide istituzioni capaci di riportare l’ordine e la tranquillità tra i suoi cittadini.

Continuiamo a pregare per le popolazioni martoriate dalla guerra, in Ucraina, in Palestina e in Israele, in Sudan. E non dimentichiamo la Siria, un Paese che soffre tanto per la guerra, da tempo.

Saluto tutti voi che siete venuti da Roma, dall’Italia e da tante parti del mondo. In particolare, saluto gli studenti spagnoli della rete di residenze universitarie “Camplus”, i gruppi parrocchiali di Madrid, Pescara, Chieti, Locorotondo e della parrocchia di San Giovanni Leonardi in Roma. Saluto la Cooperativa Sociale San Giuseppe di Como, i bambini di Perugia, i giovani di Bologna in cammino verso la Professione di Fede, e i ragazzi della Cresima di Pavia, Iolo di Prato e Cavaion Veronese.

Accolgo con piacere i partecipanti alla Maratona di Roma, tradizionale festa dello sport e della fraternità. Anche quest’anno, per iniziativa di Athletica Vaticana, numerosi atleti sono coinvolti nelle “staffette della solidarietà”, diventando testimoni di condivisione.

E a tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

Messaggio di cordoglio del Santo Padre per la scomparsa di Sua Santità Neofit, Metropolita di Sofia e Patriarca della Chiesa Ortodossa di Bulgaria (16 marzo 2024)

Sab, 16/03/2024 - 15:00

 

Ho appreso con profonda tristezza della morte del vostro amato Patriarca, Sua Santità Neofit, che è stato un grande testimone della fede della Chiesa ortodossa bulgara, e invio sentite condoglianze a lei, al Santo Sinodo che presiede, e all’intera Chiesa ortodossa bulgara. 

Sua Santità Neofit ha reso un prezioso servizio al Vangelo e al dialogo e, nonostante le sue molte sofferenze, è rimasto un uomo di umiltà e gioia, un esempio di una vita consacrata al Signore e alla sua Chiesa. Poiché il Corpo di Cristo sulla terra — la Chiesa — è la porta d’accesso alla vita del Signore risorto, così per i fedeli cristiani, la morte segna un passaggio da questo mondo alla Vita Eterna. Pertanto, è nostra orante speranza che Sua Santità Neofit stia ora vivendo «dove non vi è dolore né affanno né gemito» (Trisàghion per i defunti).

Assicuro Sua Eminenza, il Santo Sinodo e tutti i membri della Chiesa ortodossa bulgara di un ricordo speciale nelle mie preghiere; che Gesù Cristo — il quale «è risuscitato dai morti. Con la sua morte ha vinto la morte, ai morti ha dato la vita» (Tropario di Pasqua) — possa riempire i vostri cuori di consolazione e pace.

FRANCESCO

Roma, San Giovanni in Laterano, 15 marzo 2024

 


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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 63, sabato 16 marzo 2024, p. 10.

Ai Dirigenti e al Personale dell'Ospedale Pediatrico "Bambino Gesù" (16 marzo 2024)

Sab, 16/03/2024 - 09:30

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti tutti!

Sono molto contento di incontrarvi, mentre ricordate il primo centenario di fondazione dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Un secolo fa, esso veniva donato alla Santa Sede dalla famiglia Salviati: primo vero ospedale dedicato ai bambini. Il dono fu accolto da Pio XI, che vide nell’opera l’espressione della carità del Papa e della Chiesa verso i piccoli infermi, e da allora è conosciuto come “Ospedale del Papa”.

Fermiamoci allora un momento a riflettere, con riconoscenza, sulla ricchezza di questa istituzione, sviluppatasi in un secolo di storia, sottolineandone tre aspetti: il dono, la cura e la comunità.

Primo aspetto: il dono. Oggi il “Bambino Gesù” è un centro di ricerca e di cura pediatrica tra i più grandi in Europa, punto di riferimento per famiglie che vengono da tutto il mondo. Resta però fondamentale, nella sua storia e nella sua vocazione, l’elemento del dono, con i valori di gratuità, generosità, disponibilità e umiltà. È bello ricordare, in proposito, il gesto dei figli della duchessa Arabella Salviati che, all’inizio della vostra storia, regalarono alla mamma il loro salvadanaio per realizzare un ospedale per i bambini: esso ci dice che questa grande opera si fonda anche su doni umili, come quello di questi ragazzi a beneficio dei loro coetanei malati. E nella stessa ottica fa bene, ai nostri giorni, menzionare la generosità dei molti benefattori grazie a cui si è potuto realizzare, a Passoscuro, un Centro di Cure Palliative per giovanissimi pazienti affetti da malattie inguaribili. 

Solo in questa luce si può comprendere appieno il valore di ciò che fate, dalle cose più piccole alle più grandi, e si può continuare a sognare per il futuro. Pensiamo, ad esempio, alla prospettiva di una nuova sede a Roma, di cui sono state poste recentemente le premesse, con un accordo tra la Santa Sede e lo Stato Italiano. Come pure al notevole impegno economico ordinario e straordinario, legato alla tutela e manutenzione di strutture e apparecchiature; alla garanzia di qualità professionale di medici e operatori; alla ricerca scientifica; fino a giungere all’accoglienza di bambini bisognosi provenienti da ogni parte del mondo, offerta senza distinzione di condizione sociale, nazionalità o religione. In tutto questo il dono è un elemento indispensabile del vostro essere e del vostro agire.

Secondo aspetto: la cura. La scienza, e di conseguenza la capacità di cura, si può dire il primo dei compiti che caratterizza oggi l’Ospedale Bambino Gesù. Essa è la risposta concreta che date alle accorate richieste di aiuto di famiglie che domandano per i loro figli assistenza e, ove possibile, guarigione. L’eccellenza nella ricerca biomedica è dunque importante. Vi incoraggio a coltivarla con lo slancio di offrire il meglio di voi stessi e con un’attenzione speciale nei confronti dei più fragili, come i pazienti affetti da malattie gravi, rare o ultra-rare. Non solo, ma perché la scienza e la competenza non restino privilegio di pochi, vi esorto a continuare a mettere i frutti della vostra ricerca a disposizione di tutti, specialmente là dove ce n’è più bisogno, come fate ad esempio contribuendo alla formazione di medici e infermieri africani, asiatici e mediorientali.

A proposito di cura, sappiamo che la malattia di un bambino coinvolge tutti i suoi familiari. Per questo, è una grande consolazione sapere che sono tante le famiglie seguite dai vostri servizi, accolte in strutture legate all’ospedale e accompagnate dalla vostra gentilezza e vicinanza. Questo è un elemento qualificante, che non va mai trascurato, anche se so che a volte lavorate in condizioni difficili. Piuttosto sacrifichiamo qualcos’altro, ma non la gentilezza e la tenerezza. Non c’è cura senza relazione, prossimità e tenerezza, a tutti i livelli.

E infine veniamo al terzo punto: la comunità. Una delle più belle espressioni che descrivono la missione del “Bambino Gesù” è “Vite che aiutano la vita”. È bella, perché parla di una missione portata avanti insieme, con un agire comune in cui trova posto il dono di ciascuno. Questa è la vostra vera forza e il presupposto per affrontare anche le sfide più difficili. Il vostro infatti non è un lavoro come tanti altri: è una missione, che ognuno esercita in modo diverso. Per alcuni essa comporta la dedizione di una vita intera; per altri l’offerta del proprio tempo nel volontariato; per altri ancora il dono del proprio sangue, del proprio latte – per i neonati ricoverati le cui mamme non possono provvederlo –, fino al dono di organi, cellule e tessuti, offerti da persone viventi o prelevati dal corpo di persone decedute. L’amore spinge alcuni genitori al gesto eroico di acconsentire alla donazione degli organi dei loro bambini che non ce l’hanno fatta. In tutto questo ciò che emerge è un “fare insieme”, dove i diversi doni concorrono al bene dei piccoli pazienti.

Cari fratelli e sorelle, vi confesso che quando vengo al “Bambino Gesù” provo due sentimenti contrastanti: provo dolore per la sofferenza dei bambini malati e dei loro genitori; ma nello stesso tempo provo una grande speranza, vedendo tutto quello che lì si fa per curarli. Grazie! Grazie di tutto questo. Andate avanti in quest’opera benedetta. Vi benedico di cuore e prego per voi. E anche voi, per favore, pregate per me. Grazie.

Adesso darò la benedizione a tutti: ai malati, ai medici, agli infermieri e a tutte le persone che lavorano in questo Ospedale e per questo Ospedale. Preghiamo la Madonna perché ci aiuti ad andare avanti. Ave o Maria,…

[Benedizione]

Ai membri della Fondazione "Mons. Camillo Faresin", di Maragnole di Breganze (Vicenza) (16 marzo 2024)

Sab, 16/03/2024 - 09:00

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Sono contento di accogliervi in occasione del ventesimo anniversario della vostra Fondazione. Oggi portate qui con voi vent’anni ricchi di iniziative a servizio degli ultimi, percorsi sulle orme di Mons. Camillo Faresin, per lungo tempo Vescovo di Guiratinga nel Mato Grosso, esempio di sensibilità missionaria e di fede nella Provvidenza, e anche dei suoi due fratelli: don Santo, pure lui missionario salesiano, e don Giovanni Battista, sacerdote diocesano.

Vi siete proposti di raccogliere il testimone della loro carità facendone vostra la tenacia e l’ampiezza di vedute nel servire il prossimo. E questo vi ha portato a svolgere la vostra opera in Brasile, in Italia e in altre parti del mondo, estendendola a diversi campi: dalla formazione all’assistenza sociale, alla cura sanitaria, all’offerta di condizioni di vita dignitose e di opportunità di lavoro per tante persone.

Guardando al vostro impegno, vorrei sottolineare e incoraggiare due linee d’azione importanti: lavorare tra gli ultimi e lavorare insieme.

Primo: lavorare tra gli ultimi. Monsignor Faresin e i suoi fratelli erano persone di estrazione umile. Hanno imparato il valore della carità e il fervore missionario nel contesto di una famiglia semplice, devota, modesta e dignitosa, una famiglia come tante delle nostre. In quell’ambiente hanno saputo cogliere, con la grazia di Dio, un messaggio e un invito per il loro futuro a stare tra gli ultimi per aiutare gli ultimi, e lo hanno fatto con instancabile amore, con generosità e intelligenza, anche tra grandi difficoltà. Ricordiamo, in proposito, che il nome del Vescovo Camillo è annoverato, a Gerusalemme, tra quelli del “Giardino dei Giusti”, proprio perché, prima ancora di poter partire per il Brasile, bloccato a Roma a causa della seconda guerra mondiale, non si è lasciato fermare dalle circostanze, prodigandosi con carità e coraggio nell’assistere gli ebrei perseguitati.

Così è stato per tutta la sua vita, come sacerdote e poi come vescovo, con un impulso irresistibile a farsi vicino ai più sfortunati. Fino a quando, terminato il suo mandato episcopale, ha chiesto e ottenuto di poter rimanere fra la sua gente, nel Mato Grosso, fino alla sua morte, come umile servo degli umili, continuando così nel nascondimento, come amico e compagno di cammino, lo stesso ministero che per tanti anni aveva svolto come guida e pastore.

Quello che ci ha lasciato è un esempio grande da imitare: stare con gli ultimi, sempre! Ma in che modo? Scegliendo e privilegiando, nei vostri progetti, le realtà più povere e disprezzate come luoghi speciali in cui rimanere, e come “terre promesse” verso cui mettervi in marcia e in cui “piantare le vostre tende” per iniziare nuove opere (cfr Dt 1,8). E farlo con una presenza concreta e vicina alle comunità che servite, dal di dentro, in loco, lavorando tra i poveri e condividendone il più possibile la vita. Solo così, infatti, si sente “il polso” dei bisogni reali dei fratelli e delle sorelle che il Signore mette sulla nostra strada; e soprattutto ci si arricchisce della luce, della forza e della saggezza che vengono dallo stare con Gesù, presente in modo unico nelle membra più sofferenti del suo Corpo.

E veniamo al secondo punto: lavorare insieme. Nelle vostre attività vi esorto a cercare sempre di fare sinergia, tra voi e con altre realtà religiose e associative. So che già collaborate, in varie opere, con le Suore Missionarie della Divina Volontà di Bassano del Grappa e con altre organizzazioni. È la strada giusta. Fare insieme, infatti, è già in sé un annuncio di Vangelo vissuto; e per voi, oltre che un modo intelligente di ottimizzare le risorse, è una via di formazione alla carità e alla comunione. Lo avete sottolineato dando a un vostro recente evento questo titolo: Agire insieme per progredire insieme”. Proprio così: agire insieme, infatti, non significa solo fare del bene, ma anche e soprattutto crescere uniti nel bene, gli uni a servizio e sostegno degli altri.

Fare insieme, infine, è anche un’espressione di fede nella Divina Provvidenza. Mons. Faresin la definiva “la fonte che maggiormente garantisce le risorse” per le opere che Dio richiede. E le risorse più importanti per le opere del Signore non sono le cose, ma siamo noi, messi sapientemente gli uni vicino agli altri perché condividiamo ciò che siamo: la nostra passione, la nostra creatività, le nostre competenze ed esperienze, e anche le nostre debolezze e fragilità. Da questo paziente mettere in comune, nella valorizzazione del contributo di ciascuno, vengono frutti di grande dinamicità e concretezza, come testimonia la storia passata e presente della vostra Fondazione.

Cari fratelli e sorelle, grazie per ciò che fate e per come lo fate; e perché con esso mantenete viva la memoria del cuore pastorale grande e generoso di Mons. Camillo Faresin. La Madonna vi custodisca nella carità umile e coraggiosa. Benedico voi e le vostre famiglie; e vi chiedo, per favore, di pregare per me.

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