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Aggiornato: 2 min 27 sec fa

Chirografo del Santo Padre sulla collaborazione tra i Dicasteri della Curia Romana e la Segreteria Generale del Sinodo (16 febbraio 2024)

Ven, 16/02/2024 - 12:00

Nel cammino di rinnovamento che sta compiendo secondo la «missione d’amore propria di Cristo» (Praedicate evangelium [PE], 2), la Chiesa esprime il suo essere, «in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium [LG], 1). Essa si manifesta con maggiore chiarezza e credibilità al mondo nelle diverse culture come mistero di comunione missionaria (cfr. LG, 7), unico Corpo, partecipe del Suo Spirito che la rinnova e guida nell’annuncio del Vangelo a tutte le genti (cfr. LG, 17).

In questa luce, nella Costituzione Apostolica sulla Curia Romana Praedicate evangelium ho sottolineato che la «vita di comunione dona alla Chiesa il volto della sinodalità» (PE, 4). In particolare, il reciproco ascolto e la dinamica di reciprocità nel porsi a servizio della missione del Popolo di Dio qualificano l’opera di ausilio della Curia Romana al ministero del Vescovo di Roma, dei singoli Vescovi e del Collegio episcopale. Le competenze pastorali da essa espletate trovano il loro fine e la loro efficacia nel servizio alla collegialità episcopale e alla comunione ecclesiale in unione e sotto la guida del Vescovo di Roma (cfr. PE, 8-9).

Si colloca in tale contesto il compito della Segreteria Generale del Sinodo (cfr. Episcopalis communio [EC], 9). Direttamente sottoposta al Vescovo di Roma in quanto Pastore della Chiesa universale e al tempo stesso distinta dalla Curia Romana in quanto «istituzione permanente al servizio del Sinodo dei Vescovi» (EC, art. 22 § 1), essa sostiene e accompagna il processo sinodale di volta in volta stabilito (cfr. EC, art. 23 § 1). In questo modo presta un ausilio specifico alla promozione in spirito sinodale delle mutue relazioni dei Vescovi e delle Chiese particolari cui essi presiedono, tra loro e in comunione con il Vescovo di Roma nella Chiesa una e cattolica (cfr. LG, 23).

Dispongo pertanto che, secondo quanto stabilito dall’art. 33 di Praedicate evangelium, i Dicasteri della Curia Romana collaborino, «secondo le rispettive specifiche competenze, all’attività della Segreteria Generale del Sinodo», costituendo dei gruppi di studio che avviino, con metodo sinodale, l’approfondimento di alcuni tra i temi emersi nella Prima Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Questi gruppi di studio siano costituiti di comune accordo tra i Dicasteri della Curia Romana competenti e la Segreteria Generale del Sinodo, a cui è affidato il coordinamento.

Dal Vaticano, 16 febbraio 2024

FRANCESCO

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Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, 17 febbraio 2024

Alla Comunità del Seminario Arcivescovile di Napoli (16 febbraio 2024)

Ven, 16/02/2024 - 10:30

Discorso del Santo Padre consegnato

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Vi ringrazio per essere venuti qui stamani e per aver desiderato questo incontro nel 90° anniversario dell’inaugurazione del vostro Seminario “Alessio Ascalesi”. Saluto l’Arcivescovo, Mons. Domenico Battaglia, e i fratelli Vescovi, il Rettore, gli Educatori e i Padri Spirituali, tutti ringraziando per il prezioso servizio. Con gioia saluto quanti, in forme diverse, contribuiscono alla vostra formazione: il Preside e il Decano della Facoltà, le Suore e anche le coppie di sposi, la cui presenza è un segno importante, che ci ricorda la complementarietà tra Ordine sacro e Sacramento del matrimonio: nella formazione sacerdotale abbiamo bisogno del contributo di coloro che hanno scelto la via del matrimonio. Grazie per quello che fate! E grazie anche ai consulenti psicologici, al personale amministrativo e di servizio.

Mi rivolgo con affetto a voi seminaristi. Sento di dovervi esprimere gratitudine per aver risposto alla chiamata del Signore e per la disponibilità a servire la sua Chiesa; e di dovervi incoraggiare a coltivare ogni giorno la bellezza della fedeltà, con entusiasmo e impegno, consegnando la vostra vita all’incessante opera dello Spirito Santo, che vi aiuta ad assumere la forma di Cristo. Ricordiamoci questo: che la formazione non finisce mai, dura tutta la vita, e che se si interrompe non si rimane dove si era, ma si torna indietro. Proprio pensando a questo continuo lavoro interiore che è la formazione sacerdotale e alla ricorrenza del vostro Seminario, mi viene in mente l’immagine del cantiere.

La Chiesa è anzitutto un cantiere sempre aperto. Essa, cioè, rimane costantemente in cammino, aperta alla novità dello Spirito, vincendo la tentazione di preservare sé stessa e i propri interessi. Il lavoro principale del “cantiere Chiesa” è camminare in compagnia del Crocifisso Risorto portando agli uomini la bellezza del suo Vangelo. Questo è l’essenziale. È quanto ci sta insegnando il cammino sinodale, è quanto ci chiede, senza compromessi, l’ascolto dello Spirito e degli uomini del nostro tempo; ma è anche ciò che viene richiesto a voi: essere servitori – questo significa ministri – che sanno adottare uno stile di discernimento pastorale in ogni situazione, sapendo che tutti, preti e laici, siamo in cammino verso la pienezza e siamo operai di un cantiere in costruzione. Non possiamo offrire alla realtà complessa di oggi risposte monolitiche e preconfezionate, ma dobbiamo investire le nostre energie annunciando l’essenziale, che è la misericordia di Dio, e manifestandola attraverso la vicinanza, la paternità, la mitezza, affinando l’arte del discernimento.

Per questo motivo, anche il cammino di formazione al presbiterato è un cantiere. Non bisogna mai commettere l’errore di sentirsi arrivati, di ritenersi già pronti davanti alle sfide. La formazione sacerdotale è un cantiere nel quale ognuno di voi è chiamato a mettersi in gioco nella verità, per lasciare che sia Dio ad edificare nel corso degli anni la sua opera. Non abbiate dunque paura di lasciar agire il Signore nella vostra vita; come in un cantiere, lo Spirito verrà dapprima a demolire quegli aspetti, quelle convinzioni, quello stile e perfino quelle idee incoerenti sulla fede e sul ministero che vi impediscono di crescere secondo il Vangelo; poi lo stesso Spirito, dopo aver ripulito le falsità interiori, vi darà un cuore nuovo, edificherà la vostra vita secondo lo stile di Gesù, vi farà diventare nuove creature e discepoli missionari. Farà maturare il vostro entusiasmo attraverso la croce, come fu per gli Apostoli. Ma non abbiate paura di questo: può essere certamente un lavoro faticoso, però se rimanete docili e veri, disponibili all’azione dello Spirito senza irrigidirvi e difendervi, scoprirete la tenerezza del Signore dentro le vostre fragilità e nella gioia pura del servizio. In questo cantiere che è la vostra formazione, scavate dunque a fondo, “facendo la verità” in voi con sincerità, coltivando la vita interiore, meditando la Parola, approfondendo nello studio le domande del nostro tempo e le questioni teologiche e pastorali. E permettetemi di raccomandarvi una cosa: lavorare sulla maturità affettiva e umana. Senza non si va da nessuna parte!

Infine, la stessa struttura del Seminario è come un grande cantiere. E non mi riferisco ovviamente all’ambito edilizio. Sulla formazione sacerdotale è in atto un processo che comprende nuove domande e nuove acquisizioni: gli itinerari di formazione stanno subendo molte trasformazioni, in ascolto delle sfide che attendono il ministero sacerdotale e richiedono da parte di tutti impegno, passione e sana creatività. Si sperimentano nuove esperienze pastorali e missionarie, con l’intento di favorire il graduale inserimento nella futura vita ministeriale; si ipotizzano tempi di interruzione nel percorso per favorire la maturazione individuale. È bello accogliere e vagliare queste novità, vivendole come opportunità di grazia e di servizio, cogliendovi la presenza di Dio.

Abbiamo appena iniziato il cammino quaresimale che, come ho avuto modo di dire, è «tempo di piccole e grandi scelte controcorrente […] in cui ripensare gli stili di vita» (Messaggio per la Quaresima 2024). Possa anche la vostra comunità percorrere questa strada di conversione e rinnovamento. Come? Lasciandosi conquistare con rinnovato stupore dall’amore di Dio, fondamento della vocazione che si accoglie e si riscopre in particolare nell’adorazione e a contatto con la Parola; riscoprendo con gioia il gusto della sobrietà ed evitando gli sprechi; apprendendo uno stile di vita che vi servirà per essere sacerdoti capaci di donarsi agli altri e di essere attenti ai più poveri; non lasciandovi ingannare dal culto dell’immagine e dell’apparire, ma curando la vita interiore; prendendovi cura della giustizia e del creato, temi attuali e scottanti nella vostra terra, che attende in questo senso dalla Chiesa parole coraggiose e segni profetici; vivendo nella pace e nella concordia, superando le divisioni e imparando a vivere nella fraternità con umiltà. E la fraternità è, specialmente oggi, una delle più grandi testimonianze che possiamo offrire al mondo.

I “lavori in corso” del vostro cantiere siano accompagnati dall’intercessione dei santi: dal vostro Patrono Gennaro, la cui presenza e il cui sangue continuano ad irrorare le terre che abitate, da San Vincenzo Romano, parroco che si è formato nel vostro Seminario, modello di zelo apostolico e di spirito missionario, e dal Beato Mariano Arciero, che ne è stato padre spirituale, di cui oggi ricorre la memoria liturgica. Vi auguro ogni bene nel cammino e vi accompagno con la preghiera. Anche voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

Alla Delegazione del Movimento "La Diaconie de la Beauté" (15 febbraio 2024)

Gio, 15/02/2024 - 10:15

Cari amici,

vi incontro nuovamente in occasione del vostro Simposio a Roma, e mi rallegro con voi per il decimo anniversario di questi “Festival” che organizzate ogni anno. Ringrazio Monsignor Le Gall per la sua dedizione a questa associazione.

Vorrei riflettere brevemente sulle tre dimensioni che la caratterizzano: spirituale, evenemenziale e residenziale.

La prima dimensione è quella spirituale. La vostra vocazione è quella di aiutare gli artisti a creare un ponte tra cielo e terra. Volete risvegliare in loro la ricerca della verità, siano essi musicisti, poeti o cantanti, pittori, architetti o registi, scultori, attori o ballerini o altro ancora. Perché la bellezza ci invita a un modo diverso di stare al mondo. Si tratta di contemplazione. Infatti, «la bellezza ci fa sentire che la vita è orientata alla pienezza. Nella vera bellezza si comincia così a provare la nostalgia di Dio» (Discorso agli artisti, 23 giugno 2023). Credere in Dio non può che incoraggiare la creatura a superare sé stessa, a proiettarsi nella vita divina attraverso l’ispirazione artistica.

La seconda dimensione – con un francesismo nella parola – la chiamiamo evenemenziale. L’associazione Diaconia della bellezza aiuta gli artisti a riannodare un dialogo fruttuoso con la Chiesa, attraverso incontri, spettacoli, concerti, rappresentazioni. È un modo per voi di rendere visibile la prossimità della Chiesa agli artisti entrando in dialogo con la loro cultura e la loro vita, che siano credenti o no.

E la terza dimensione è quella residenziale. Grazie al vostro fecondo apostolato, la vostra opera si moltiplica con la realizzazione di case di artisti nel mondo. La vita di un artista è spesso segnata dalla solitudine, a volte da depressione e grande sofferenza interiore. La vostra sfida è di far emergere la bellezza che è nascosta in lui o in lei, perché a sua volta diventi apostolo di questa bellezza che genera speranza e sete di felicità. Una missione che contribuisce a valorizzare la dignità dell’artista che non si sente rifiutato, incompreso, emarginato ed escluso. Andate avanti con questo!

Fratelli e sorelle, vi esorto ad essere cantori dell’armonia tra i popoli, cantori di armonia tra le culture e le religioni. La nostra umanità è scossa da violenze di ogni sorta, dalle guerre, dalle crisi sociali. In questo contesto, abbiamo bisogno di uomini e donne capaci di farci sognare un mondo diverso, un mondo bello. Fate sognare le persone, perché aspirino a una vita in pienezza!

Inoltre, oggi è urgente per noi ricreare l’armonia tra l’uomo e l’ambiente. Le grandi crisi climatiche ci impongono di rivedere le nostre abitudini e i nostri comportamenti. E l’arte è un mezzo molto potente per trasmettere il messaggio della bellezza della natura. Infatti, «prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune» (Enc. Fratelli tutti, 17). Chiediamoci: qual è il nostro apporto alla costruzione di un mondo in armonia? È una domanda che dobbiamo farci, ognuno di noi. La cultura della bellezza ci rimette sempre in movimento. Incontrare la bellezza di Dio ci permette di ripartire, di ricominciare, nel cammino verso società più umane e più fraterne.

Cari amici, vi ringrazio e auguro ogni bene per la vostra “diaconia”. Vi benedico di cuore. E vi chiedo per favore di pregare per me.

Santa Messa, benedizione e imposizione delle Ceneri (14 febbraio 2024)

Mer, 14/02/2024 - 17:00

Quando fai l’elemosina, quando preghi, quando digiuni, abbi cura che ciò sia fatto nel segreto: il Padre tuo, infatti, vede nel segreto (cfr Mt 6,4). Entra nel segreto: questo è l’invito che Gesù rivolge ad ognuno di noi all’inizio del cammino della Quaresima.

Entrare nel segreto significa ritornare al cuore, come ammonisce il profeta Gioele (cfr Gl 2,12). Si tratta di un viaggio dall’esterno all’interno, perché tutto ciò che viviamo, anche la nostra relazione con Dio, non si riduca ad esteriorità, a una cornice senza quadro, a un rivestimento dell’anima, ma nasca da dentro e corrisponda ai movimenti del cuore, cioè ai nostri desideri, ai nostri pensieri, al nostro sentire, al nucleo sorgivo della nostra persona.

La Quaresima ci immerge allora in un bagno di purificazione e di spoliazione: vuole aiutarci a togliere ogni “trucco”, tutto ciò di cui ci rivestiamo per apparire adeguati, migliori di come siamo. Ritornare al cuore significa ritornare al nostro vero io e presentarlo così com’è, nudo e spoglio, davanti a Dio. Significa guardarci dentro e prendere coscienza di chi siamo davvero, togliendoci le maschere che spesso indossiamo, rallentando la corsa delle nostre frenesie, abbracciando la vita e la verità di noi stessi. La vita non è una recita, e la Quaresima ci invita a scendere dal palcoscenico della finzione, per tornare al cuore, alla verità di ciò che siamo. Tornare al cuore, tornare alla verità.

Per questo, stasera, con spirito di preghiera e di umiltà, riceviamo sul capo la cenere. È un gesto che vuole riportarci alla realtà essenziale di noi stessi: noi siamo polvere, la nostra vita è come un soffio (cfr Sal 39,6; 144,4), ma il Signore – Lui e soltanto Lui, non altri – non permette che essa svanisca; Egli raccoglie e plasma la polvere che siamo, perché non venga dispersa dai venti impetuosi della vita e non si dissolva nell’abisso della morte.

Le ceneri poste sul nostro capo ci invitano a riscoprire il segreto della vita. Ci dicono: fino a quando continuerai a indossare un’armatura che copre il cuore, fino a quando a camuffarti con la maschera delle apparenze, a esibire una luce artificiale per mostrarti invincibile, resterai vuoto e arido. Quando invece avrai il coraggio di chinare il capo per guardarti dentro, allora potrai scoprire la presenza di un Dio che ti ama e ti ama da sempre; finalmente si frantumeranno le corazze che tu ti sei costruito e potrai sentirti amato di un amore eterno.

Sorella, fratello, io, tu, ognuno di noi, siamo amati di amore eterno. Siamo cenere su cui Dio ha soffiato il suo alito di vita, siamo terra che Egli ha plasmato con le sue mani (cfr Gen 2,7; Sal 119,73), siamo polvere da cui risorgeremo per una vita senza fine preparata da sempre per noi (cfr Is 26,19). E se, nella cenere che siamo, arde il fuoco dell’amore di Dio, allora scopriamo che di questo amore siamo impastati e che all’amore siamo chiamati: amare i fratelli che abbiamo accanto, essere attenti agli altri, vivere la compassione, esercitare la misericordia, condividere ciò che siamo e ciò che abbiamo con chi è nel bisogno. Perciò l’elemosina, la preghiera e il digiuno non possono ridursi a pratiche esteriori, ma sono vie che ci riconducono al cuore, all’essenziale della vita cristiana. Ci fanno scoprire che siamo cenere amata da Dio e ci rendono capaci di spargere lo stesso amore sulle “ceneri” di tante situazioni quotidiane, perché in esse rinascano speranza, fiducia, gioia.

Sant’Anselmo d’Aosta ci ha lasciato questa esortazione, che stasera possiamo fare nostra: «Fuggi via per breve tempo dalle tue occupazioni, lascia per un po’ i tuoi pensieri tumultuosi. Allontana in questo momento i gravi affanni e metti da parte le tue faticose attività. Attendi un poco a Dio e riposa in lui. Entra nell’intimo della tua anima, escludi tutto tranne Dio e quello che ti aiuta a cercarlo, e, richiusa la porta, cercalo. O mio cuore, di’ ora con tutto te stesso, di’ ora a Dio: Cerco il tuo volto. II tuo volto, Signore, io cerco» (Proslogion, 1).

Ascoltiamo allora, in questa Quaresima, la voce del Signore che non si stanca di ripeterci: entra nel segreto. Entra nel segreto, ritorna al cuore. È un invito salutare, per noi che spesso viviamo in superficie, che ci agitiamo per essere notati, che abbiamo sempre bisogno di essere ammirati e apprezzati. Senza accorgercene, ci ritroviamo a non avere più un luogo segreto in cui fermarci e custodire noi stessi, immersi in un mondo in cui tutto, anche le emozioni e i sentimenti più intimi, deve diventare “social” – ma come può essere sociale ciò che non sgorga dal cuore? –. Persino le esperienze più tragiche e dolorose rischiano di non avere un luogo segreto che le custodisca: tutto dev’essere esposto, ostentato, dato in pasto alla chiacchiera del momento. Ed ecco che il Signore ci dice: entra nel segreto, ritorna al centro di te stesso. Proprio lì, dove albergano anche tante paure, sensi di colpa e peccati, lì il Signore è disceso, è disceso per sanarti e purificarti. Entriamo nella nostra camera interiore: lì abita il Signore, la nostra fragilità è accolta e siamo amati senza condizioni.

Ritorniamo, fratelli e sorelle. Ritorniamo a Dio con tutto il cuore. In queste settimane di Quaresima diamo spazio alla preghiera di adorazione silenziosa, nella quale rimanere in ascolto alla presenza del Signore, come Mosè, come Elia, come Maria, come Gesù. Ci siamo accorti che abbiamo perso il senso dell’adorazione? Ritorniamo all’adorazione. Prestiamo l’orecchio del cuore a Colui che, nel silenzio, vuole dirci: «Io sono il tuo Dio: Dio di misericordia e di compassione, il Dio del perdono e dell’amore, il Dio della tenerezza e della sollecitudine. […] Non giudicare te stesso. Non condannarti. Non rifiutare te stesso. Lascia che il mio amore tocchi i più profondi e nascosti recessi del tuo cuore e ti riveli la tua stessa bellezza, una bellezza che hai perso di vista, ma che ti diventerà nuovamente visibile nella luce della mia misericordia». Il Signore ci chiama: «Vieni, vieni, lascia che io possa asciugare le tue lacrime e lascia che la mia bocca venga più vicino al tuo orecchio e ti dica: Io ti amo, ti amo, ti amo» (H. Nouwen, In cammino verso l’alba, Brescia 1997, 233). Noi crediamo che il Signore ci ama, che il Signore mi ama?

Fratelli e sorelle, non abbiamo paura di spogliarci dei rivestimenti mondani e di tornare al cuore, ritornare all’essenziale. Pensiamo a San Francesco, che dopo essersi spogliato abbracciò con tutto sé stesso il Padre che è nei cieli. Riconosciamoci per quello che siamo: polvere amata da Dio, chiamata a essere polvere innamorata di Dio. Grazie a Lui rinasceremo dalle ceneri del peccato alla vita nuova in Gesù Cristo e nello Spirito Santo.

Udienza Generale del 14 febbraio 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 8. <i>L'accidia</i>

Mer, 14/02/2024 - 09:00

Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

 

Catechesi. I vizi e le virtù. 8. L'accidia

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Tra tutti i vizi capitali ce n’è uno che spesso passa sotto silenzio, forse a motivo del suo nome che a molti risulta poco comprensibile: sto parlando dell’accidia. Per questo, nel catalogo dei vizi, il termine accidia viene spesso sostituito da un altro di uso molto più comune: la pigrizia. In realtà, la pigrizia è più un effetto che una causa. Quando una persona se ne sta inoperosa, indolente, apatica, noi diciamo che è pigra. Ma, come insegna la saggezza degli antichi padri del deserto, spesso la radice di questa pigrizia è l’accidia, che letteralmente dal greco significa “mancanza di cura”.

Si tratta di una tentazione molto pericolosa, con cui non bisogna scherzare. Chi ne cade vittima è come fosse schiacciato da un desiderio di morte: prova disgusto per tutto; il rapporto con Dio gli diventa noioso; e anche gli atti più santi, quelli che in passato gli avevano scaldato il cuore, gli appaiono ora del tutto inutili. Una persona comincia a rimpiangere il tempo che scorre, e la gioventù che è irreparabilmente alle spalle.

L’accidia è definita come il “demone del mezzogiorno”: ci coglie nel mezzo delle giornate, quando la fatica è al suo apice e le ore che ci stanno davanti ci appaiono monotone, impossibili da vivere. In una celebre descrizione il monaco Evagrio rappresenta così questa tentazione: «L’occhio dell’accidioso è continuamente fisso alle finestre, e nella sua mente fantastica sui visitatori […] Quando legge, l’accidioso sbadiglia spesso ed è facilmente vinto dal sonno, si stropiccia gli occhi, si sfrega le mani e, ritirando gli occhi dal libro, fissa il muro; poi di nuovo rivolgendoli al libro, legge ancora un poco […]; infine, chinata la testa, vi pone sotto il libro, si addormenta di un sonno leggero, finché la fame non lo risveglia e lo spinge a occuparsi dei suoi bisogni»; in conclusione, «l’accidioso non compie con sollecitudine l’opera di Dio» [1].

I lettori contemporanei intravedono in queste descrizioni qualcosa che ricorda molto il male della depressione, sia da un punto di vista psicologico che filosofico. Infatti, per chi è preso dall’accidia, la vita perde di significato, pregare risulta noioso, ogni battaglia appare priva di senso. Se anche in gioventù abbiamo nutrito passioni, adesso ci appaiono illogiche, sogni che non ci hanno reso felici. Così ci si lascia andare e la distrazione, il non pensare, appaiono come le uniche vie d’uscita: si vorrebbe essere storditi, avere la mente completamente vuota… È un po’ un morire in anticipo, ed è brutto.

Davanti a questo vizio, che ci accorgiamo essere tanto pericoloso, i maestri di spiritualità prevedono diversi rimedi. Vorrei segnalare quello che mi sembra il più importante e che chiamerei la pazienza della fede. Benché sotto la sferza dell’accidia il desiderio dell’uomo sia di essere “altrove”, di evadere dalla realtà, bisogna invece avere il coraggio di rimanere e di accogliere nel mio “qui e ora”, nella mia situazione così com’è, la presenza di Dio. I monaci dicono che per loro la cella è la miglior maestra di vita, perché è il luogo che concretamente e quotidianamente ti parla della tua storia d’amore con il Signore. Il demone dell’accidia vuole distruggere proprio questa gioia semplice del qui e ora, questo stupore grato della realtà; vuole farti credere che è tutto vano, che nulla ha senso, che non vale la pena di prendersi cura di niente e di nessuno. Nella vita incontriamo gente “accidiosa”, gente di cui diciamo: “Ma questo è noioso!” e non ci piace stare con lui; gente che ha pure un atteggiamento di noia che contagia. Ecco l’accidia.

Quanta gente, in preda all’accidia, mossa da un’inquietudine senza volto, ha stupidamente abbandonato la via di bene che aveva intrapreso! Quella dell’accidia è una battaglia decisiva, che bisogna vincere a tutti i costi. Ed è una battaglia che non ha risparmiato nemmeno i santi, perché in tanti loro diari c’è qualche pagina che confida momenti tremendi, di vere e proprie notti della fede, dove tutto appariva buio. Questi santi e queste sante ci insegnano ad attraversare la notte nella pazienza accettando la povertà della fede. Hanno raccomandato, sotto l’oppressione dell’accidia, di tenere una misura di impegno più piccola, di fissare traguardi più a portata di mano, ma nello stesso tempo di resistere e di perseverare appoggiandoci a Gesù, che mai abbandona nella tentazione.

La fede, tormentata dalla prova dell’accidia, non perde di valore. È anzi la vera fede, l’umanissima fede, che nonostante tutto, nonostante l’oscurità che la acceca, ancora umilmente crede. È quella fede che rimane nel cuore, come rimane la brace sotto la cenere. Sempre rimane. E se qualcuno di noi cade in questo vizio o in una tentazione di accidia, cerchi di guardarsi dentro e di custodire la brace della fede: così si va avanti.

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[1] Evagrio Pontico, Gli otto spiriti della malvagità, 14.

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Saluti

Je salue cordialement les pèlerins de langue française venus de Belgique et de France, en particulier le groupe de jeunes du Diocèse de Créteil, accompagné par leur Évêque. Je vous invite, au début de ce Carême, à combattre le vice de l’acédie par l’enthousiasme de la foi, confiants dans la présence puissante de Jésus en nous. Que Dieu vous bénisse !

[Porgo un caloroso benvenuto ai pellegrini di lingua francese venuti dal Belgio e dalla Francia, in particolare il gruppo dei giovani della Diocesi di Créteil, accompagnato dal loro Vescovo. Vi invito, all’inizio di questa Quaresima, a combattere il vizio dell’accidia con l’entusiasmo della fede, fiduciosi nella potente presenza di Gesù in noi. Dio vi benedica tutti!]

I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from England, Wales, Nigeria, Korea and the United States of America. As we begin this season of Lent, I invoke upon all of you the joy and peace of our Lord Jesus Christ. God bless you!

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese che partecipano all’udienza di oggi, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, Galles, Nigeria, Corea e Stati Uniti d’America. All’inizio di questo tempo di Quaresima, invoco su tutti voi la gioia e la pace di nostro Signore Gesù Cristo. Dio vi benedica!]

Einen herzlichen Gruß richte ich an die Pilger deutscher Sprache, besonders an die Ministranten aus der Diözese Bozen-Brixen, die von ihrem Bischof Mons. Ivo Muser begleitet werden. In der Fastenzeit, in die wir heute eintreten, sind wir aufgerufen, uns von den schlechten Gewohnheiten abzuwenden, um wieder neu in Einklang mit Gott und den Mitmenschen zu leben. Der Herr begleite uns mit seiner Gnade auf diesem Weg.

[Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua tedesca, in particolare ai chierichetti della Diocesi di Bolzano-Bressanone, accompagnati dal loro Vescovo Mons. Ivo Muser. Nella Quaresima che oggi iniziamo siamo chiamati a convertirci dai vizi per ritornare ad una vita in armonia con Dio e con i fratelli. La grazia del Signore ci accompagni in questo cammino!]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española. Hoy, Miércoles de ceniza, comenzamos la Cuaresma. Los invito durante este tiempo a acompañar a Jesús en el desierto con la oración, el ayuno y la limosna, dando testimonio de la fe con alegría y humildad. Que Dios los bendiga y la Virgen Santa los cuide. Muchas gracias.

Saúdo cordialmente os fiéis de língua portuguesa. Começamos hoje o nosso caminho quaresmal até a Páscoa. Somos chamados ao deserto. Através das práticas do jejum, da esmola e da oração, Jesus nos convida à conversão. Que Deus nos acompanhe e nos abençoe nesta caminhada!

[Saluto cordialmente i fedeli di lingua portoghese. Iniziamo oggi il nostro cammino quaresimale verso la Pasqua. Siamo chiamati al deserto. Attraverso le pratiche del digiuno, l’elemosina e la preghiera, Gesù ci invita alla conversione. Che Dio ci accompagni e ci benedica in questo percorso!]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العربِيَّة. معَ بدايةِ الزَّمنِ الأربعينيّ، أتمنَّى لكم جميعًا أنْ يكونَ زمنَ توبةٍ حقيقيّ وتجدُّدٍ داخلِيّ في الايمانِ والرَّجاءِ والمحبَّة. بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِنْ كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. All’inizio della Quaresima, vorrei augurare a tutti voi che essa sia un tempo di vera conversione e di rinnovamento interiore nella fede, nella speranza e nella carità. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga ‎sempre da ogni male‎!]

Serdecznie pozdrawiam Polaków. Na początku Wielkiego Postu, we wszystkich kościołach w waszej ojczyźnie prowadzona jest dziś zbiórka funduszy na pomoc Ukrainie. W obliczu tak wielu wojen nie zamykajmy naszych serc na potrzebujących. Modlitwa, post i jałmużna niech będą drogą budowania pokoju. Z serca błogosławię wam i waszym rodzinom!

[Saluto cordialmente i polacchi. Per l’inizio della Quaresima, si tiene oggi in tutte le chiese del vostro Paese una raccolta fondi per aiutare l'Ucraina. Di fronte a tante guerre, non chiudiamo il nostro cuore a chi ha bisogno. La preghiera, il digiuno e l'elemosina siano la via per costruire la pace. Di cuore, benedico voi e le vostre famiglie!]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.

In particolare, agli studenti del Liceo Marconi di Pescara, dell’Istituto “Aldo Moro” di Sutri e della scuola “Gianna Beretta Molla” di Corbetta. Saluto con affetto i bambini ospiti dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano, accompagnati dai familiari e dagli operatori sanitari. Accolgo con gratitudine i membri dell’Associazione “Motor Terapia” di Lecce, che aiutano le persone con diversa abilità motoria.

Tutti noi abbiamo letto, abbiamo sentito le storie dei primi martiri della Chiesa, che furono tanti. Qui, dove adesso sorge il Vaticano, c’è un cimitero e molti che erano stati giustiziati sono qui sepolti; scavando, se ne trovano le tombe. Ma anche oggi ci sono tanti martiri in tutto il mondo: tanti, forse più che agli inizi. Ci sono tanti perseguitati per la fede. E oggi mi permetto di salutare in modo speciale un “martire vivente”, il Cardinale Simoni. Lui, da prete, da Vescovo, ha vissuto 28 anni in carcere, nelle carceri dell’Albania comunista, la persecuzione forse più crudele. E continua a dare testimonianza. E come lui, tanti, tanti, tanti. Adesso ha 95 anni e continua a lavorare per la Chiesa senza scoraggiarsi. Caro fratello, ti ringrazio della testimonianza. Grazie.

Il mio pensiero infine è per i giovani, gli anziani, gli ammalati e gli sposi novelli. Oggi inizia la Quaresima, disponiamoci a percorrere questo tempo come occasione di conversione e di rinnovamento interiore nell’ascolto della Parola di Dio, nella cura dei fratelli che più necessitano. E non dimentichiamo mai la martoriata Ucraina, la Palestina e Israele che soffrono tanto. Preghiamo per questi fratelli e sorelle che soffrono a causa della guerra. Andiamo avanti nel processo di conversione, nell’ascolto della Parola di Dio, nella cura dei fratelli che necessitano e andiamo avanti nell’intensificare la preghiera, soprattutto per chiedere la pace nel mondo.

A tutti voi la mia benedizione!

Ai Membri della Pontificia Accademia per la Vita (12 febbraio 2024)

Lun, 12/02/2024 - 09:30

Human. Meanings and Challenges

Illustri Signore e Signori!

Saluto S.E. Mons. Paglia, le vostre Eccellenze, Sua Eminenza e il nuovo Arcivescovo di Santiago del Cile, e vi ringrazio per il vostro impegno nel campo della ricerca delle scienze della vita, della salute e della cura; un impegno che la Pontificia Accademia per la Vita porta avanti da trent’anni.

La questione che affrontate in questa Assemblea Generale è della massima importanza: quella, cioè, di come si possa comprendere ciò che qualifica l’essere umano. Si tratta di un interrogativo antico e sempre nuovo, che le sorprendenti risorse possibili grazie alle nuove tecnologie ripropongono in forma ancora più complessa. Il contributo degli studiosi da sempre ci dice che non è possibile essere a priori “pro” o “contro” le macchine e le tecnologie, perché questa alternativa, riferita all’esperienza umana, non ha senso. E anche oggi, non è plausibile ricorrere solamente alla distinzione tra processi naturali e processi artificiali, considerando i primi come autenticamente umani e i secondi come estranei o addirittura contrari all’umano: questo non va. Quello che occorre fare, piuttosto, è inscrivere i saperi scientifici e tecnologici all’interno di un più ampio orizzonte di significato, scongiurando così l’egemonia tecnocratica (cfr Lett. enc. Laudato si’, 108).

Consideriamo, ad esempio, il tentativo di riprodurre l’essere umano con i mezzi e la logica della tecnica. Un tale approccio implica la riduzione dell’umano a un aggregato di prestazioni riproducibili a partire di un linguaggio digitale, che pretende di esprimere, attraverso codici numerici, ogni tipo di informazione. La stretta consonanza con il racconto biblico della Torre di Babele (cfr Gen 11,1-11) mostra che il desiderio di darsi un linguaggio unico è inscritto nella storia dell’umanità; e l’intervento di Dio, che troppo frettolosamente viene inteso solo come una punizione distruttiva, contiene invece una benedizione propositiva. Esso, infatti, manifesta il tentativo di correggere la deriva verso un “pensiero unico” attraverso la molteplicità delle lingue. Gli esseri umani vengono così messi di fronte al limite e alla vulnerabilità e richiamati al rispetto dell’alterità e alla cura reciproca.

Certo, le crescenti capacità della scienza e della tecnica conducono gli esseri umani a sentirsi protagonisti di un atto creatore affine a quello divino, che produce l’immagine e la somiglianza della vita umana, inclusa la capacità del linguaggio, di cui le “macchine parlanti” sembrano essere dotate. Sarebbe allora nel potere dell’uomo infondere lo spirito nella materia inanimata? La tentazione è insidiosa. Ci viene quindi chiesto di discernere come la creatività dell’uomo affidato a sé stesso possa esercitarsi in modo responsabile. Si tratta di investire i talenti ricevuti impedendo che l’umano sia sfigurato e che siano annullate le differenze costitutive che danno ordine al cosmo (cfr Gen 1-3).

Il compito principale si pone quindi a livello antropologico e richiede di sviluppare una cultura che, integrando le risorse della scienza e della tecnica, sia capace di riconoscere e promuovere l’umano nella sua specificità irripetibile. Occorre esplorare se tale specificità non sia da collocare addirittura a monte del linguaggio, nella sfera del pathos e delle emozioni, del desiderio e dell’intenzionalità, che solo un essere umano può riconoscere, apprezzare e convertire in senso relazionale a favore degli altri, assistito dalla grazia del Creatore. Un compito culturale, dunque, perché la cultura plasma e orienta le forze spontanee della vita e le pratiche sociali.

Cari amici, come è impegnativo l’argomento che affrontate, impegnative sono anche le due modalità con cui intendete farlo. In primo luogo, perché vedo in voi lo sforzo di attuare un effettivo dialogo, uno scambio transdisciplinare in quella forma che Veritatis gaudium descrive «come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio» (n. 4c). Apprezzo che la vostra riflessione si svolga nella logica di un vero e proprio «laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo e che si nutre dei doni della Sapienza e della Scienza di cui lo Spirito Santo arricchisce […] il Popolo di Dio» (ivi, 3). Per questo, incoraggio tale forma di dialogo, e questo dialogo permetterà a ciascuno di esporre le proprie considerazioni interagendo con gli altri in un reciproco scambio. È questa la via per andare oltre la giustapposizione dei saperi, avviando una rielaborazione delle conoscenze attraverso il vicendevole ascolto e la riflessione critica.

In secondo luogo, nella dinamica del vostro incontro si vede un modo di procedere sinodale, giustamente adattato per affrontare gli argomenti al centro della missione dell’Accademia. Si tratta di uno stile di ricerca esigente, perché comporta attenzione e libertà di spirito, apertura a inoltrarsi su sentieri inesplorati e sconosciuti, affrancandosi da ogni sterile “indietrismo”. Per chi si impegna in un serio ed evangelico rinnovamento del pensiero, è indispensabile mettere in questione anche opinioni acquisite e presupposti non criticamente vagliati.

In questa linea, il cristianesimo ha sempre offerto contributi di rilievo, riprendendo da ogni cultura in cui si è inserito le tradizioni di senso che vi trovava inscritte: reinterpretandole alla luce della relazione con il Signore, che nel Vangelo si rivela, e avvalendosi delle risorse linguistiche e concettuali presenti nei singoli contesti. Un cammino di elaborazione lungo e sempre da riprendere, che richiede un pensiero capace di abbracciare più generazioni: come quello di chi pianta alberi, i cui frutti saranno mangiati dai figli, o di chi costruisce cattedrali, che verranno completate dai nipoti.

È questo atteggiamento aperto e responsabile, docile allo Spirito il quale, come il vento, «non sai da dove viene né dove va» (Gv 3,8), che desidero invocare dal Signore per tutti voi, augurandovi un lavoro proficuo e fecondo. Di cuore vi benedico. E vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie!

Angelus, 11 febbraio 2024

Dom, 11/02/2024 - 12:00

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo oggi ci presenta la guarigione di un lebbroso (cfr Mc 1,40-45). Al malato, che lo implora, Gesù risponde: «Lo voglio, sii purificato!» (v. 41). Pronuncia una frase semplicissima, che mette immediatamente in pratica. Infatti «subito la lebbra scomparve ed egli guarì» (v. 42). Ecco lo stile di Gesù con chi soffre: poche parole e fatti concreti.

Tante volte, nel Vangelo, lo vediamo comportarsi così nei confronti di chi soffre: sordomuti (cfr Mc 7,31-37), paralitici (cfr Mc 2,1-12) e tanti altri bisognosi (cfr Mc 5). Sempre fa così: parla poco e alle parole fa seguire prontamente le azioni: si china, prende per mano, risana. Non indugia in discorsi o interrogatori, tanto meno in pietismi e sentimentalismi. Dimostra piuttosto il pudore delicato di chi ascolta attentamente e agisce con sollecitudine, preferibilmente senza dare nell’occhio.

È un modo meraviglioso di amare, e come ci fa bene immaginarlo e assimilarlo! Pensiamo anche a quando ci succede di incontrare persone che si comportano così: sobrie di parole, ma generose nell’agire; restie a mettersi in mostra, ma pronte a rendersi utili; efficaci nel soccorrere perché disposte ad ascoltare. Amici e amiche a cui si può dire: “Vuoi ascoltarmi?” “Vuoi aiutarmi?”, con la fiducia di sentirsi rispondere, quasi con le parole di Gesù: “Sì, lo voglio, sono qui per te, per aiutarti!”. Questa concretezza è tanto più importante in un mondo, come il nostro, in cui sembra farsi sempre più strada una evanescente virtualità delle relazioni.

Ascoltiamo invece come ci provoca la Parola di Dio: «Se un fratello o una sorella sono nudi e mancanti del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, scaldatevi e saziatevi”, ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che giova?» (Gc 2,15-16). Questo lo dice l’apostolo Giacomo. L’amore ha bisogno di concretezza, l’amore ha bisogno di presenza, di incontro, ha bisogno di tempo e spazio donati: non può ridursi a belle parole, a immagini su uno schermo, a selfie di un momento o a messaggini frettolosi. Sono strumenti utili, che possono aiutare, ma non bastano all’amore, non possono sostituirsi alla presenza concreta.

Chiediamoci oggi: io so mettermi in ascolto delle persone, sono disponibile alle loro buone richieste? Oppure accampo scuse, rimando, mi nascondo dietro parole astratte e inutili? Concretamente, quand’è stata l’ultima volta che sono andato a visitare una persona sola o malata – ognuno si risponda nel cuore –, o quando è stata l’ultima volta che ho cambiato i miei programmi per venire incontro alle necessità di chi mi domandava aiuto?

Maria, sollecita nel prendersi cura, ci aiuti ad essere pronti e concreti nell’amore.

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Dopo l'Angelus

Oggi è stata canonizzata María Antonia de Paz y Figueroa, una santa argentina. Un applauso alla nuova santa!

Si celebra oggi, nella memoria della Beata Vergine di Lourdes, la Giornata Mondiale del Malato, che quest’anno richiama l’attenzione sull’importanza delle relazioni nella malattia. La prima cosa di cui abbiamo bisogno quando siamo malati è la vicinanza delle persone care, degli operatori sanitari e, nel cuore, la vicinanza di Dio. Siamo tutti chiamati a farci prossimo a chi soffre, a visitare i malati, come ci insegna Gesù nel Vangelo. Per questo oggi voglio esprimere a tutte le persone ammalate o più fragili la mia vicinanza e quella di tutta la Chiesa. Non dimentichiamo lo stile di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza.

Ma in questa Giornata, fratelli e sorelle, non possiamo tacere il fatto che ci sono tante persone, oggi, alle quali è negato il diritto alle cure, e dunque il diritto alla vita! Penso a quanti vivono in povertà estrema; ma penso anche ai territori di guerra: lì sono violati ogni giorno diritti umani fondamentali! È intollerabile. Preghiamo per la martoriata Ucraina, per la Palestina e Israele, preghiamo per il Myanmar e per tutti i popoli martoriati dalla guerra.

Saluto tutti voi, romani e pellegrini di vari Paesi. In particolare, saluto i fedeli di Moral de Calatrava e Burgos (Spagna), quelli di Brasilia e del Portogallo; il Coro e l’Orchestra di giovani di Mostar; la Scuola di Vila Pouca de Aguiar (Portogallo).

Saluto i fedeli di Enego e di Rogno, i volontari del Santuario di Sant’Anna di Vinadio, il Coro di Eraclèa e l’Associazione Santa Paola Frassinetti di San Calogero. Saluto i giovani di Lodi, Petosino e Torri di Quartesòlo; i cresimandi di Malta, Lallio e Almenno San Salvatore; gli alunni dell’Istituto “Sant’Ambrogio” dei Salesiani di Milano e il Coretto Bimbi di Piovène Rocchette; come pure il gruppo di “Radio Mater”, in occasione del suo 30° anniversario.

A tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci.

VI domenica del Tempo Ordinario – Santa Messa e canonizzazione della Beata Maria Antonia di San Giuseppe de Paz y Figueroa (11 febbraio 2024)

Dom, 11/02/2024 - 09:30

La prima Lettura (cfr Lv 13,1-2.45-46) e il Vangelo (cfr Mc 1,40-45) parlano della lebbra: una malattia che comporta la progressiva distruzione fisica della persona e a cui spesso, purtroppo, vengono ancora oggi associati, in alcuni luoghi, atteggiamenti di emarginazione. Lebbra ed emarginazione: sono due mali da cui Gesù vuole liberare l’uomo che incontra nel Vangelo. Vediamo la sua situazione.

Quel lebbroso è costretto a vivere fuori della città. Fragile per la sua malattia, invece di essere aiutato dai suoi concittadini è abbandonato a sé stesso, anzi è ferito ulteriormente dall’allontanamento e dal rifiuto. Perché? Per paura, prima di tutto, la paura di essere contagiati e di fare la sua stessa fine: “Che non accada anche a noi! Non rischiamo, stiamo alla larga!”. La paura. Poi per pregiudizio: “Se ha una malattia tanto orribile – era l’opinione comune – certamente è perché Dio lo sta punendo per qualche colpa che ha commesso: e allora se lo merita, ben gli sta!”.         Questo è il pregiudizio. E infine per falsa religiosità: a quel tempo, infatti, si riteneva che toccare un morto rendesse impuri, e i lebbrosi erano gente a cui la carne “moriva addosso”. Dunque – si pensava – sfiorarli voleva dire diventare impuri come loro: ecco una religiosità distorta, che alza barriere e affossa la pietà.

Paura, pregiudizio e falsa religiosità: ecco tre cause di una grande ingiustizia, tre “lebbre dell’anima” che fanno soffrire un debole, scartandolo come un rifiuto. Fratelli, sorelle, non pensiamo che siano solo cose del passato. Quante persone sofferenti incontriamo sui marciapiedi delle nostre città! E quante paure, pregiudizi e incoerenze, pure tra chi crede e si professa cristiano, continuano a ferirle ulteriormente! Anche nel nostro tempo c’è tanta emarginazione, ci sono barriere da abbattere, “lebbre” da curare. Ma come? Come possiamo farlo? Cosa fa Gesù? Gesù compie due gesti: tocca e guarisce.

Primo gesto: toccare. Gesù, al grido di aiuto di quell’uomo (cfr v. 40), sente compassione, si ferma, stende la mano e lo tocca (cfr v. 41) pur sapendo che, facendolo, diventerà a sua volta un “rifiutato”. Anzi, paradossalmente, le parti si invertiranno: il malato, quando sarà guarito, potrà andare dai sacerdoti ed essere riammesso nella comunità; Gesù, invece, non potrà più entrare in nessun centro abitato (cfr v. 45). Il Signore poteva allora evitare di toccare quella persona, sarebbe bastato “guarirla a distanza”. Ma Cristo non è così, la sua via è quella dell’amore che si fa vicino a chi soffre, che entra in contatto, che ne tocca le ferite. La vicinanza di Dio. Gesù è vicino, Dio è vicino. Il nostro Dio, cari fratelli e sorelle, non è rimasto distante in cielo, ma in Gesù si è fatto uomo per toccare la nostra povertà. E di fronte alla “lebbra” più grave, quella del peccato, non ha esitato a morire in croce, fuori dalle mura della città, rigettato come un peccatore, come un lebbroso, per toccare fino in fondo la nostra realtà umana. Un santo scriveva: “Si è fatto lebbroso per noi”.

E noi, che amiamo e seguiamo Gesù, sappiamo fare nostro il suo “tocco”? Non è facile e dobbiamo vigilare quando nel cuore si affacciano gli istinti contrari al suo “farsi vicino” e al suo “farsi dono”: ad esempio quando prendiamo le distanze dagli altri per pensare a noi stessi, quando riduciamo il mondo alle mura del nostro “star bene”, quando crediamo che il problema siano sempre e solo gli altri… In questi casi stiamo attenti, perché la diagnosi è chiara, è “lebbra dell’anima”: malattia che ci rende insensibili all’amore, alla compassione, che ci distrugge attraverso le “cancrene” dell’egoismo, del preconcetto, dell’indifferenza e dell’intolleranza. Stiamo attenti, fratelli e sorelle, anche perché, come per le prime macchioline di lebbra, che compaiono sulla pelle nella fase iniziale del male, se non si interviene subito, l’infezione cresce e diventa devastante. Davanti a questo rischio, alla possibilità di questa malattia dell’anima nostra, qual è la cura?

Ci aiuta il secondo gesto di Gesù, che guarisce (cfr v. 42). Il suo “toccare” infatti non indica solo vicinanza, ma è l’inizio della guarigione. E la vicinanza è lo stile di Dio: Dio sempre è vicino, compassionevole e tenero. Vicinanza, compassione e tenerezza. Questo è lo stile di Dio. E noi siamo aperti a questo? Perché è lasciandoci toccare da Gesù che guariamo dentro, nel cuore. Se ci lasciamo toccare da Lui nella preghiera, nell’adorazione, se gli permettiamo di agire in noi attraverso la sua Parola e i Sacramenti, il suo contatto ci cambia realmente, ci risana dal peccato, ci libera dalle chiusure, ci trasforma al di là di quanto possiamo fare da soli, con i nostri sforzi. Le nostre parti ferite – quelle del cuore e dell’anima nostra – le malattie dell’anima vanno portate a Gesù: la preghiera fa questo; ma non una preghiera astratta, fatta solo di formule da ripetere, bensì una preghiera sincera e viva, che depone ai piedi di Cristo le miserie, le fragilità, le falsità, le paure. Pensiamoci e chiediamoci: io faccio toccare a Gesù le mie “lebbre” perché mi guarisca?

Al “tocco” di Gesù, infatti, rinasce il meglio di noi stessi: i tessuti del cuore si rigenerano; il sangue delle nostre spinte creative riprende a fluire carico di amore; le ferite degli errori del passato si rimarginano e la pelle delle relazioni ritrova la sua consistenza sana e naturale. Ritorna così la bellezza che abbiamo, la bellezza che siamo; la bellezza di essere amati da Cristo, riscopriamo la gioia di donarci agli altri, senza paure e senza pregiudizi, liberi da forme di religiosità anestetizzanti e prive della carne del fratello; riprende forza in noi la capacità di amare, al di là di ogni calcolo e convenienza.

Allora, come dice una bellissima pagina della Scrittura (cfr Ez 37,1-14), da quella che sembrava una valle di ossa inaridite risorgono dei corpi viventi e rinasce un popolo di salvati, una comunità di fratelli. Ma sarebbe ingannevole pensare che questo miracolo richieda forme grandiose e spettacolari per realizzarsi. Esso avviene principalmente nella carità nascosta di ogni giorno: quella che si vive in famiglia, al lavoro, in parrocchia e a scuola; per strada, negli uffici e nei negozi; quella che non cerca pubblicità e non ha bisogno di applausi, perché all’amore basta l’amore (cfr S. Agostino, Enarr. in Ps. 118, 8, 3). Lo sottolinea Gesù oggi, quando ordina all’uomo guarito di «non dire niente a nessuno» (v. 44): vicinanza e discrezione. Fratelli e sorelle, Dio ci ama così e se ci lasciamo toccare da Lui, anche noi, con la forza del suo Spirito, potremo diventare testimoni dell’amore che salva!

E oggi pensiamo a María Antonia de San José, “Mama Antula”. È stata una viandante dello Spirito. Ha percorso migliaia di chilometri a piedi, attraverso deserti e strade pericolose, per portare Dio. Oggi è per noi un modello di fervore e audacia apostolica. Quando i Gesuiti furono espulsi, lo Spirito accese in lei una fiamma missionaria basata sulla fiducia nella Provvidenza e sulla perseveranza. Invocò l’intercessione di San Giuseppe e, per non stancarlo troppo, pure quella di San Gaetano Thiene. Per questo motivo introdusse la devozione a quest’ultimo, e la sua prima immagine arrivò a Buenos Aires nel secolo XVIII. Grazie a Mama Antula questo santo, intercessore della Divina Provvidenza, si fece strada nelle case, nei quartieri, nei trasporti, nei negozi, nelle fabbriche, e nei cuori, per offrire una vita dignitosa attraverso il lavoro, la giustizia, il pane quotidiano sulla tavola dei poveri. Preghiamo oggi María Antonia, Santa María Antonia de Paz de San José, che ci aiuti tanto. Il Signore ci benedica tutti.

Alle Delegazioni della Confartigianato (10 febbraio 2024)

Sab, 10/02/2024 - 09:45

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Sono contento di accogliervi così numerosi, imprenditori e rappresentanti della Confederazione, venuti da ogni parte d’Italia. Saluto il Presidente e tutti voi che fate parte di Confartigianato.

Nata nel 1946 sulle ceneri della seconda guerra mondiale, la vostra Associazione ha contribuito alla rinascita e allo sviluppo dell’economia nazionale. In questi decenni l’artigianato ha conosciuto notevoli trasformazioni, passando dalle piccole botteghe ad aziende che producono beni e servizi anche su larga scala. L’uso delle tecnologie ha accresciuto le possibilità del settore, ma è importante che non finiscano per sostituire la fantasia dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio. Le macchine replicano, anche con una rapidità eccezionale, mentre le persone inventano!

Le vostre attività valorizzano l’ingegno e la creatività umana. In particolare, vorrei sottolineare quanto il vostro lavoro sia connesso con tre membra del corpo: le mani, gli occhi e i piedi.

Le mani. Il lavoro manuale rende partecipe l’artigiano dell’opera creatrice di Dio. Fare non equivale a produrre. Mette in gioco la capacità creativa che sa tenere insieme l’abilità delle mani, la passione del cuore e le idee della mente. Le vostre mani sanno realizzare moltissime cose che vi rendono collaboratori di Dio. Dice il Signore: «Come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani» (Ger 18,6). Benedite e ringraziate il Signore per il dono delle mani e per il lavoro che vi consente di esprimere. Sappiamo che non tutti hanno questa fortuna: c’è chi sta con le mani in mano, c’è chi è disoccupato e chi è in cerca di occupazione. Tutte situazioni umane che hanno bisogno di essere guarite. A volte capita anche che le vostre aziende siano in ricerca di personale qualificato e non lo trovino: non scoraggiatevi nell’offrire posti di lavoro e non abbiate timore a includere le categorie più fragili, ossia i giovani, le donne e i migranti. Vi ringrazio per il contributo che date per abbattere i muri dell’esclusione verso chi ha gravi disabilità o è invalido magari proprio a causa di un incidente sul lavoro, verso chi è tenuto ai margini e sfruttato. Ogni persona va riconosciuta nella sua dignità di lavoratrice e lavoratore. Non tarpiamo mai le ali ai sogni di chi intende migliorare il mondo attraverso il lavoro e servirsi delle mani per esprimere sé stesso.

Gli occhi. Le mani, adesso gli occhi. L’artigiano ha uno sguardo originale sulla realtà. Ha la capacità di riconoscere nella materia inerte un capolavoro prima ancora di realizzarlo. Quello che per tutti è un blocco di marmo, per l’artigiano è un elemento di arredo; quello che per tutti è un pezzo di legno, per un artigiano è un violino, una sedia, una cornice! L’artigiano arriva prima di tutti a intuire il destino di bellezza che può avere la materia. E questo lo avvicina al Creatore. Nel Vangelo di Marco Gesù è definito «il falegname» (6,3): il figlio di Dio è stato artigiano, ha imparato il mestiere da San Giuseppe nella bottega di Nazaret. Ha vissuto per diversi anni tra pialle, scalpelli e attrezzi di carpenteria. Ha imparato il valore delle cose e del lavoro. Il consumismo ha diffuso una brutta mentalità: la mentalità dell’“usa e getta”. Ma il creato non è una somma di cose, è dono, «un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode» (Enc. Laudato si’, 12). E voi artigiani ci aiutate ad avere occhi diversi sulla realtà, a riconoscere il valore e la bellezza della materia che Dio ha messo nelle nostre mani.

I piedi. Le mani, gli occhi… e ora i piedi. I prodotti che escono dalle vostre attività camminano per il mondo intero e lo abbelliscono, rispondendo ai bisogni della gente. L’artigianato è una strada per lavorare, per sviluppare la fantasia, per migliorare gli ambienti, le condizioni di vita, le relazioni. Per questo mi piace pensarvi anche come artigiani di fraternità. La parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,29-37) ci ricorda questo artigianato delle relazioni, del condividere insieme. Il samaritano si è fatto prossimo, si è chinato e ha rialzato l’uomo ferito rimettendolo in piedi e ungendolo di dignità attraverso i gesti della cura. Così «la parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune» (Enc. Fratelli tutti, 67). I nostri piedi ci consentono di incontrare molte persone cadute lungo la strada: attraverso il lavoro possiamo permettere loro di camminare con noi. Possiamo diventare compagni di strada, in mezzo alla cultura dell’indifferenza. Ogni volta che facciamo un passo per avvicinarci al fratello, diventiamo artigiani di una nuova umanità.

Vi incoraggio ad essere artigiani di pace in un tempo in cui le guerre mietono vittime e i poveri non trovano ascolto. Le vostre mani, i vostri occhi, i vostri piedi siano segno di un’umanità creativa e generosa. E il vostro cuore sia sempre appassionato della bellezza. Grazie per il bene che realizzate. Vi affido alla protezione di San Giuseppe, che custodisca voi, le vostre famiglie e il vostro lavoro. Vi benedico di cuore. E vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie!

Ai Dirigenti e al Personale dell'Ispettorato di Pubblica Sicurezza "Vaticano" (10 febbraio 2024)

Sab, 10/02/2024 - 09:15

Signor Capo della Polizia,
Signor Prefetto e Signor Dirigente,
cari Funzionari e Agenti, benvenuti!

Sono contento di incontrarvi in questo consueto appuntamento d’inizio d’anno. Saluto tutti voi, i vostri familiari e i Cappellani, che vi seguono nel vostro cammino di vita cristiana.

E voglio dirvi “grazie”. Prima di tutto grazie per il lavoro fedele e paziente con cui garantite a tutti coloro che vengono in Vaticano, dall’Italia e dall’estero, e gli date la possibilità di vivere momenti di fede e di preghiera, come pellegrini, o semplicemente di svago, come turisti, in un clima sereno di ordine e di sicurezza. È un impegno delicato questo, che merita tanto più apprezzamento in quanto svolto quotidianamente, tutti i giorni – e le notti! – dell’anno. Grazie!

Voglio poi ringraziarvi, assieme alle vostre famiglie, anche per la disponibilità e la capacità di adattamento con cui provvedete all’incolumità mia e dei miei collaboratori in occasione di viaggi e spostamenti a Roma e in altre località italiane, spesso facendovi carico di orari ed esigenze logistiche scomode e disagevoli: grazie di cuore!

Il vostro è un lavoro dai molti risvolti, fatto di paziente prevenzione, di vigilanza sul campo, di gestione di situazioni impreviste, a volte pericolose, nella maggior parte dei casi affrontate in modo discreto e senza dare nell’occhio. Un lavoro che richiede coraggio, tatto, nervi saldi, attenzione e comprensione per i bisogni e le criticità di chi domanda il vostro aiuto e anche di chi rende necessario il vostro intervento con comportamenti problematici di vario tipo.

San Giovanni XXIII diceva che quello delle Forze dell’Ordine è un compito gravoso, che richiede grandi qualità morali e soprattutto dedizione e abnegazione per il conseguimento del bene comune. Per questo vi definiva “buoni servitori della comunità umana e artefici di pace nella società” (cfr Alocución a los participantes en el XVI “Rallye” internacional de la Policía, Castelgandolfo, 8 settembre 1961).

Sono parole cariche di significato che ben esprimono sia le attese – a volte molto esigenti – di cui siete oggetto, sia gli ideali a cui vi ispirate. Eppure è così. Il bene comune e la pace nella società non si improvvisano e non fioriscono sempre spontaneamente. Le luci e le ombre della nostra natura umana, limitata e ferita dal peccato, comportano la necessità che ci sia chi, di fronte al male, non resti a guardare, ma si assuma la responsabilità di intervenire, per tutelare le vittime e riportare all’ordine i trasgressori, sempre avendo a cuore il bene di tutti.

Ed è forse proprio per questo vostro impegno in prima persona che le “auto azzurre” diventano spesso punto di riferimento anche per tanti altri bisogni meno istituzionali, ma non meno importanti a livello umano, di cui pure vi fate carico: dalla richiesta di informazioni, ai piccoli imprevisti, o a chi si rivolge a voi per manifestare un disagio, o perché, sentendosi emarginato, cerca un po’ di comprensione ed empatia. Sì, perché la gente sa che “dove c’è la divisa, ci si può fidare”. E questo è molto importante.

Perciò, carissimi, vi rinnovo il mio grazie e benedico voi e le vostre famiglie, affidandovi all’intercessione di Maria Santissima e di San Michele Arcangelo, vostro Patrono. Io prego per voi, e voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

 

Ai Pellegrini dall'Argentina per la Canonizzazione della Beata Maria Antonia di San Giuseppe de Paz y Figueroa (9 febbraio 2024)

Ven, 09/02/2024 - 09:30

Cari fratelli e sorelle,

Buongiorno, e grazie per essere qui oggi. Sono felice di avere questo incontro con tutti voi in occasione della canonizzazione di María Antonia de San José, la nostra Madre Antula, alla quale siete venuti a manifestare la vostra devozione.

Saluto i miei fratelli Vescovi provenienti dall’Argentina — dalla diocesi primaziale, che poi hanno lasciato senza nulla — e tutti i sacerdoti, religiosi, religiose e fedeli che li accompagnano. La carità di Mama Antula, soprattutto nel servizio ai più bisognosi, oggi si impone con grande forza, in mezzo a questa società che corre il rischio di dimenticare che «l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Un virus che inganna. Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni» (Lettera enciclica Fratelli tutti, n. 105). In questa beata troviamo un esempio e un’ispirazione che ravviva «l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via» (Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 195). Che il Signore ci dia la grazia di seguire il suo esempio e che questo esempio ci aiuti a essere questo segno di amore e di tenerezza tra i nostri fratelli.

Ricordiamo anche che il cammino della santità implica fiducia, abbandono, come quando la beata María Antonia giunse soltanto con un crocifisso e scalza a Buenos Aires, perché non aveva posto la sua sicurezza in sé stessa, ma in Dio, confidava che il suo arduo apostolato fosse opera di Lui. Lei sperimentò ciò che Dio vuole da ognuno di noi, che possiamo scoprire la sua chiamata, ognuno nel proprio stato di vita, poiché qualunque esso sia, si sintetizzerà sempre nel realizzare “tutto per la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime”. Questa premessa, che è alla base della spiritualità ignaziana, della quale la beata Mama Antula si nutrì, la mosse sempre in ogni sua opera. Tanto è vero che una delle sue principali preoccupazioni quando fu soppressa la Compagnia di Gesù fu di impartire lei stessa gli esercizi spirituali, cercando così di aiutare tutti a scoprire la bellezza della sequela di Cristo. Ma ciò non fu facile, poiché, per l’avversione che si era creata contro i Gesuiti, giunsero a proibirle di dare gli esercizi, di modo che decise di impartirli clandestinamente. Questa dimensione della clandestinità non possiamo dimenticarla, è molto importante. In tal senso, un altro messaggio che ci dà la beata nel nostro mondo di oggi è di non arrenderci di fronte alle avversità, di non desistere dai nostri buoni propositi di portare il Vangelo a tutti, nonostante le sfide che questo può rappresentare. Spesso anche la «propria famiglia o il proprio luogo di lavoro possono essere quell’ambiente arido dove si deve conservare la fede e cercare di irradiarla» (Ibidem, n. 86). Saldamente radicati nel Signore, dobbiamo vedere in questo un’occasione in cui possiamo sfidare il nostro ambiente per portare la gioia del Vangelo.

Oltre alla devozione che la Beata nutriva per san Giuseppe, da cui prese il nome, mi piacerebbe sottolineare il suo grande fervore per l’Eucaristia, la quale deve essere il centro della nostra vita, e dalla quale scaturisce la forza per realizzare il nostro apostolato (cfr. Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 10). Vi invito a partecipare seriamente, domenica, alla celebrazione di Cristo, morto e risorto, nella quale proclameremo santa Mama Antula. Vi invito a essere testimoni di questo dono per il popolo argentino, ma anche per tutta la Chiesa. A lei, che tanto promosse i pellegrinaggi, chiediamo che ci aiuti nel nostro peregrinare insieme verso la casa del Padre.

Che la Vergine di Luján interceda per tutti i fedeli che peregrinano in Argentina, e per la Chiesa universale. E non dimenticatevi di pregare per me. Che Dio vi benedica. Grazie.

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 33, venerdì 9 febbraio 2024, p. 8.

Messaggio del Santo Padre per la X Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone (8 febbraio 2024)

Gio, 08/02/2024 - 13:15

Camminare per la dignità: ascoltare, sognare, agire
 

Care sorelle e cari fratelli!

Oggi, nella memoria liturgica di Santa Giuseppina Bakhita, ricorre la decima Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone. Con tutto il cuore mi unisco a voi, soprattutto ai giovani, che in tutto il mondo vi state impegnando per contrastare questo dramma globale.

Insieme camminiamo sui passi di Santa Bakhita, la Suora sudanese che da bambina fu venduta come schiava ed è stata vittima della tratta. Ricordiamo l’ingiustizia che ha subito, la sua sofferenza, ma anche la sua forza e il suo percorso di liberazione e di rinascita a una nuova vita. Santa Bakhita ci incoraggia ad aprire gli occhi e le orecchie, per vedere gli invisibili e ascoltare chi non ha voce, per riconoscere la dignità di ciascuno e per agire contro la tratta e ogni forma di sfruttamento.

La tratta è spesso invisibile. I media, grazie anche a reporter coraggiosi, gettano luce sulle schiavitù del nostro tempo, ma la cultura dell’indifferenza ci anestetizza. Aiutiamoci insieme a reagire, ad aprire le nostre vite, i nostri cuori a tante sorelle e tanti fratelli che sono trattati come schiavi. Non è mai troppo tardi per decidere di farlo.

E grazie a Dio sono numerosi i giovani che si sono coinvolti nell’impegno di questa Giornata mondiale. Il loro slancio ci indica la strada, ci dice che contro la tratta dobbiamo ascoltare, sognare e agire.

È fondamentale avere la capacità di ascoltare chi sta soffrendo. Penso alle vittime dei conflitti, delle guerre, a quanti sono colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, alle moltitudini di migranti forzati, a chi oggetto di sfruttamento sessuale o lavorativo, in particolare le donne e le bambine. Ascoltiamo il loro grido di aiuto, lasciamoci interpellare dalle loro storie; e insieme con le vittime e con i giovani ritorniamo a sognare un mondo in cui le persone possano vivere con libertà e dignità.

E poi, sorelle e fratelli, con la forza dello Spirito di Gesù Cristo dobbiamo trasformare questo sogno in realtà, mediante azioni concrete di contrasto alla tratta. Impegniamoci a pregare e agire per questa causa di dignità: pregare e agire sia personalmente, sia nelle famiglie, sia nelle comunità parrocchiali e religiose, nelle associazioni e nei movimenti ecclesiali, e anche nei vari ambiti sociali e nella politica.

Sappiamo che è possibile contrastare la tratta, ma bisogna arrivare alla radice del fenomeno, sradicandone le cause. Vi incoraggio pertanto a rispondere a questo appello alla trasformazione, in memoria di Santa Giuseppina Bakhita, simbolo di coloro che, purtroppo ridotti in schiavitù, possono ancora riconquistare la libertà. È una chiamata a non rimanere fermi, a mobilitare tutte le nostre risorse nella lotta contro la tratta e nel restituire piena dignità a quanti ne sono stati vittime. Se chiuderemo occhi e orecchie, se resteremo inerti, saremo complici.

Di cuore ringrazio e benedico voi che lavorate per questa Giornata, e benedico tutti coloro che vogliono impegnarsi contro la tratta e ogni forma di sfruttamento per costruire un mondo di fraternità e di pace.

Roma, San Giovanni in Laterano, 8 febbraio 2024,
memoria di Santa Giuseppina Bakhita.
 

FRANCESCO

Ai partecipanti alla Plenaria del Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (8 febbraio 2024)

Gio, 08/02/2024 - 09:00

Cari fratelli e sorelle!

Vi incontro in occasione della vostra Assemblea Plenaria. Saluto il Cardinale Prefetto e tutti voi, Membri, Consultori e Collaboratori del Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

A sessant’anni dalla promulgazione della Sacrosanctum Concilium, non smettono di entusiasmare le parole che leggiamo nel suo Proemio, con le quali i Padri dichiaravano la finalità del Concilio. Sono obiettivi che descrivono una precisa volontà di riforma della Chiesa nelle sue dimensioni fondamentali: far crescere ogni giorno di più la vita cristiana dei fedeli; adattare meglio alle esigenze del nostro tempo le istituzioni soggette a mutamenti; favorire ciò che può contribuire all’unione di tutti i credenti in Cristo; rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa (cfr SC, 1). Si tratta di un lavoro di rinnovamento spirituale, pastorale, ecumenico e missionario. E per poterlo realizzare i Padri conciliari sapevano bene da dove dover cominciare, sapevano «di doversi occupare in modo speciale anche della riforma e della promozione della liturgia» (ibid.). È come dire: senza riforma liturgica non c’è riforma della Chiesa.

Possiamo fare una tale affermazione solo comprendendo che cos’è la liturgia in senso teologico, così come i primi numeri della Costituzione sintetizzano in modo mirabile. Una Chiesa che non sente la passione per la crescita spirituale, che non cerca di parlare in modo comprensibile agli uomini e alle donne del suo tempo, che non prova dolore per la divisione tra i cristiani, che non freme per l’ansia di annunciare Cristo alle genti, è una Chiesa malata, e questi ne sono i sintomi.

Ogni istanza di riforma della Chiesa è sempre questione di fedeltà sponsale: la Chiesa Sposa sarà sempre più bella quanto più amerà Cristo Sposo, fino ad appartenergli totalmente, fino alla piena conformazione a Lui. E su questo, dico una cosa sulle ministerialità della donna. La Chiesa è donna, la Chiesa è madre, la Chiesa ha la sua figura in Maria e la Chiesa-donna, la cui figura è Maria, è più che Pietro, cioè è un’altra cosa. Non si può ridurre tutto alla ministerialità. La donna in sé stessa ha un simbolo molto grande nella Chiesa come donna, senza ridurla alla ministerialità. Per questo ho detto che ogni istanza di riforma della Chiesa è sempre questione di fedeltà sponsale, perché è donna. I Padri conciliari sanno di dover mettere al centro la liturgia, perché è il luogo per eccellenza in cui incontrare Cristo vivo. Lo Spirito Santo, che è la preziosa dote che lo Sposo stesso, con la sua croce, ha provveduto per la Sposa, rende possibile quella actuosa participatio che continuamente anima e rinnova la vita battesimale.

Lo scopo della riforma liturgica – nel quadro più ampio del rinnovamento della Chiesa – è proprio di «suscitare quella formazione dei fedeli e promuovere quell’azione pastorale che abbia come suo culmine e sua sorgente la sacra Liturgia (Istr. Inter oecumenici, 26 settembre 1964, 5).

Perché tutto questo possa accadere è, dunque, necessaria la formazione liturgica, cioè alla liturgia e dalla liturgia, sulla quale state riflettendo in questi giorni. Non si tratta di una specializzazione per pochi esperti, ma di una disposizione interiore di tutto il popolo di Dio. Ciò naturalmente non esclude che vi sia una priorità nella formazione di coloro che, in forza del sacramento dell’Ordine, sono chiamati ad essere mistagoghi, cioè a prendere per mano e accompagnare i fedeli nella conoscenza dei santi misteri. Vi incoraggio a proseguire in questo vostro impegno affinché i pastori sappiano condurre il popolo al buon pascolo della celebrazione liturgica, dove l’annuncio di Cristo morto e risorto diventa esperienza concreta della sua presenza che trasforma la vita.

Nello spirito di collaborazione sinodale tra i Dicasteri – auspicata nella Praedicate Evangelium (cfr n. 8) – desidero che la questione della formazione liturgica dei ministri ordinati sia trattata anche con il Dicastero per la Cultura e l’Educazione, con il Dicastero per il Clero e con il Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, così che ciascuno offra il proprio specifico contributo. Se «la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia» (SC, 10), occorre fare in modo che anche la formazione dei ministri ordinati abbia sempre più un’impronta liturgico-sapienziale, sia nel curriculum degli studi teologici sia nell’esperienza di vita dei seminari.

Infine, mentre prepariamo nuovi percorsi formativi per i ministri, dobbiamo contemporaneamente pensare a quelli destinati al popolo di Dio. A partire dalle assemblee che si radunano nel giorno del Signore e nelle feste dell’anno liturgico: esse costituiscono la prima concreta opportunità di formazione liturgica. E così pure possono esserlo altri momenti in cui la gente maggiormente partecipa alle celebrazioni e alla loro preparazione: penso alle feste patronali, o ai Sacramenti dell’iniziazione cristiana. Preparate con cura pastorale, diventano occasioni favorevoli perché la gente possa riscoprire e approfondire il senso del celebrare oggi il mistero della salvezza.

«Andate a preparare per noi […] la Pasqua» (Lc 22,8): queste parole di Gesù, che ispirano le vostre riflessioni in questi giorni, esprimono il desiderio del Signore di averci attorno alla mensa del suo Corpo e del suo Sangue. Sono un imperativo che ci raggiunge come un’amorevole supplica: impegnarsi nella formazione liturgica vuol dire corrispondere a questo invito perché “possiamo mangiare la Pasqua” e vivere un’esistenza pasquale, personale e comunitaria.

Cari fratelli e sorelle, il vostro compito è grande e bello: lavorare perché il popolo di Dio cresca nella consapevolezza e nella gioia di incontrare il Signore celebrando i santi misteri e, incontrandolo, abbia vita nel suo nome. Vi ringrazio tanto per il vostro impegno e vi benedico di cuore. La Vergine Santa vi custodisca. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

Ai partecipanti al Convegno Internazionale sulla formazione permanente dei sacerdoti (8 febbraio 2024)

Gio, 08/02/2024 - 08:00

“Ravviva il dono di Dio che è in te” (cfr 2 Tm 1,6).
La bellezza di essere discepoli oggi.
Una formazione unica, integrale, comunitaria e missionaria
 

Cari fratelli e sorelle!

Vi ringrazio di cuore per questo momento che posso trascorrere con voi. Grazie di essere venuti a Roma in occasione Convegno internazionale per la formazione permanente dei sacerdoti, promosso dal Dicastero per il Clero – soprattutto dal grande capo coreano! – e anche dai Dicasteri per l’Evangelizzazione e per le Chiese Orientali. Ringrazio i Prefetti dei Dicasteri coinvolti e tutti coloro che si sono prodigati per la preparazione di questo appuntamento. Per tanti di voi non è stato facile venire a Roma; ma soprattutto voglio esprimervi la mia gratitudine per quanto fate nelle vostre diocesi e nei vostri Paesi, per il servizio che portate avanti e che anche il sondaggio condotto in vista di questo Convegno ha messo in luce.

In questi giorni avete la grazia di condividere le buone pratiche, di confrontarvi sulle sfide e sui problemi e di scrutare gli orizzonti futuri della formazione sacerdotale in questo cambiamento d’epoca, guardando sempre avanti, sempre pronti a gettare nuovamente le reti sulla Parola del Signore (cfr Lc 5,4-5; Gv 21,6). Si tratta di camminare alla ricerca di strumenti e linguaggi che aiutino la formazione sacerdotale, non pensando di avere in mano tutte le risposte – io ho paura di coloro che hanno in mano tutte le risposte, ne ho paura –, ma confidando di poterle trovare strada facendo. In questi giorni, allora, ascoltatevi a vicenda, e lasciatevi ispirare dall’invito che l’apostolo Paolo rivolge a Timoteo e che dà il titolo al vostro Convegno: «Ravviva il dono di Dio che è in te» (cfr 2 Tm 1,6). Ravvivare il dono, riscoprire l’unzione, riaccendere il fuoco perché non si spenga lo zelo del ministero apostolico.

E come possiamo ravvivare il dono ricevuto? Vorrei indicarvi tre strade per il cammino che state facendo: la gioia del Vangelo, l’appartenenza al popolo, la generatività del servizio.

Primo: la gioia del Vangelo. Al centro della vita cristiana c’è il dono dell’amicizia con il Signore, che ci libera dalla tristezza dell’individualismo e dal rischio di una vita senza significato, senza amore e senza speranza. La gioia del Vangelo, la buona notizia che ci accompagna è proprio questa: siamo amati da Dio con tenerezza e misericordia. E questo annuncio gioioso siamo chiamati a farlo risuonare nel mondo, testimoniandolo con la vita, perché tutti possano scoprire la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto (cfr Evangelii gaudium, 36). Ricordiamoci di ciò che diceva San Paolo VI: essere testimoni prima che maestri (cfr Evangelii nuntiandi, 41), testimoni dell’amore di Dio, che è l’unica cosa che conta. E quando uno non è capace di essere testimone è triste, è molto triste.

Qui troviamo un caposaldo della formazione permanente, non soltanto dei preti ma di ogni cristiano, che anche la Ratio fundamentalis sottolinea: solo se siamo e rimaniamo discepoli, possiamo diventare ministri di Dio e missionari del suo Regno. Solo accogliendo e custodendo la gioia del Vangelo, possiamo portare questa gioia agli altri. Nel fare formazione permanente, dunque, non dimentichiamo che siamo sempre discepoli in cammino e che ciò costituisce, in ogni momento, la cosa più bella che ci è capitata, per grazia! E quando noi troviamo sacerdoti che non hanno quella capacità di servizio, forse egoisti, sacerdoti che hanno preso un po’ la via “imprenditoriale”, allora hanno perso questa capacità di sentirsi discepoli, si sentono padroni.

La grazia suppone sempre la natura, e per questo abbiamo bisogno di una formazione umana integrale. Infatti, l’essere discepoli del Signore non è un travestimento religioso, ma è uno stile di vita, e dunque richiede la cura della nostra umanità. Il contrario di questo è il prete “mondano”. Quando la mondanità entra nel cuore del prete si rovina tutto. Su questo aspetto vi chiedo di impiegare tutte le vostre energie e risorse: la cura della formazione umana. E anche la cura per vivere umanamente. Una volta un vecchio prete mi ha detto: “Quando un prete è incapace di giocare con i bambini, ha perso”. È interessante: è un test. C’è bisogno di sacerdoti pienamente umani, che giochino con i bambini e che accarezzino i vecchi, capaci di buone relazioni, maturi nell’affrontare le sfide del ministero, perché la consolazione del Vangelo giunga al popolo di Dio attraverso la loro umanità trasformata dallo Spirito di Gesù. Non dimentichiamo mai la forza umanizzante del Vangelo! Un sacerdote amaro, un sacerdote che ha l’amarezza nel cuore è uno “zitellone”!

Una seconda strada da percorrere: l’appartenenza al popolo di Dio. Discepoli missionari si può essere solo insieme. Possiamo vivere bene il ministero sacerdotale solo immersi nel popolo sacerdotale, dal quale anche noi proveniamo. Questa appartenenza al popolo – non sentirci mai separati dal cammino del santo popolo fedele di Dio – ci custodisce, ci sostiene nelle fatiche, ci accompagna nelle ansie pastorali e ci preserva dal rischio di staccarci dalla realtà e di sentirci onnipotenti. Stiamo attenti, perché questa è anche la radice di ogni forma di abuso.

Per restare immersi nella storia reale del popolo, c’è bisogno che la formazione sacerdotale non sia concepita come “separata”, ma possa servirsi dell’apporto del popolo di Dio: di sacerdoti e fedeli laici, di uomini e donne, di persone celibi e coppie sposate, di anziani e giovani, senza dimenticare i poveri e i sofferenti che hanno tanto da insegnare. Nella Chiesa, infatti, vi è una reciprocità e una circolarità tra gli stati di vita, le vocazioni, tra i ministeri e i carismi. E questo ci chiede la sapienza umile di imparare a camminare insieme, facendo della sinodalità uno stile della vita cristiana e della stessa vita sacerdotale. Ai sacerdoti, soprattutto oggi, è richiesto l’impegno di fare “esercizi di sinodalità”. Ricordiamolo sempre: camminare insieme. Il prete sempre insieme con il popolo a cui appartiene, ma anche insieme al vescovo e al presbiterio. Non trascuriamo mai la fraternità sacerdotale! E su questo aspetto, di essere unito al popolo di Dio, Paolo avverte Timoteo: “Ricordati di tua mamma e di tua nonna”. Ricordati delle tue radici, della tua storia, della storia della tua famiglia, della storia del tuo popolo. Il sacerdote non nasce per generazione spontanea. O è del popolo di Dio è un aristocratico che finisce nevrotico.

Infine, una terza via è quella della generatività del servizio. Servire è il distintivo dei ministri di Cristo. Ce lo ha mostrato il Maestro, in tutta la sua vita e, in particolare, durante l’Ultima Cena quando ha lavato i piedi dei discepoli. Nell’ottica del servizio, la formazione non è un’operazione estrinseca, la trasmissione di un insegnamento, ma diventa l’arte di mettere l’altro al centro, facendo emergere la sua bellezza, il bene che è che porta dentro, mettendo in luce i suoi doni e anche le sue ombre, le sue ferite e i suoi desideri. E così formare i sacerdoti significa servirli, servire la loro vita, incoraggiare il loro percorso, aiutarli nel discernimento, accompagnarli nelle difficoltà e sostenerli nelle sfide pastorali.

Il prete che viene formato così, a sua volta si mette a servizio del popolo di Dio, è vicino alla gente e, come Gesù ha fatto sulla croce, si fa carico di tutti. Guardiamo a questa cattedra, fratelli e sorelle: la Croce. Da lì, amandoci fino alla fine (cfr Gv 13,1), il Signore ha generato un popolo nuovo. E anche noi, quando ci mettiamo a servizio degli altri, quando diventiamo padri e madri per coloro che ci sono affidati, generiamo la vita di Dio. Questo è il segreto di una pastorale generativa: non una pastorale in cui siamo noi al centro, ma una pastorale che genera figlie e figli alla vita nuova, che porta l’acqua viva del Vangelo nel terreno del cuore umano e del tempo presente.

A tutti voi auguro ogni bene. Voi – questo voglio aggiungere e anche riprendere una cosa che ho detto prima – per favore, non stancatevi di essere misericordiosi. Perdonate sempre. Quando la gente viene a confessarsi, viene a chiedere il perdono e non a sentire una lezione di teologia o delle penitenze. Siate misericordiosi, per favore. Perdonare sempre, perché il perdono ha questa grazia della carezza, dell’accogliere. Il perdono sempre è generativo dentro. Questo mi raccomando: perdonate sempre. Vi auguro ogni bene per il vostro convegno; e vi lascio le tre parole-chiave: la gioia del Vangelo che è alla base della nostra vita, l’appartenenza a un popolo che ci custodisce e ci sostiene, al santo popolo fedele di Dio, la generatività del servizio che ci rende padri e pastori. Che la Madonna vi accompagni sempre. La Madonna dà una cosa a noi sacerdoti: la grazia della tenerezza. Quella tenerezza che si vede anche con le persone in difficoltà, i vecchi, gli ammalati, i bambini che sono piccolissimi… Chiedete questa grazia, e non abbiate paura di essere teneri. La tenerezza è forte. Grazie! 

Udienza Generale del 7 febbraio 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 7. <i>La tristezza</i>

Mer, 07/02/2024 - 09:00

Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

 

Catechesi. I vizi e le virtù. 7. La tristezza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel nostro itinerario di catechesi sui vizi e le virtù, oggi ci soffermiamo su un vizio piuttosto brutto, la tristezza, intesa come un abbattimento dell’animo, un’afflizione costante che impedisce all’uomo di provare gioia per la propria esistenza.

Anzitutto bisogna notare che, a proposito della tristezza, i Padri avevano elaborato un’importante distinzione. Vi è infatti una tristezza che conviene alla vita cristiana e che con la grazia di Dio si muta in gioia: questa, ovviamente, non va respinta e fa parte del cammino di conversione. Ma vi è anche una seconda figura di tristezza che si insinua nell’anima e che la prostra in uno stato di abbattimento: è questo secondo genere di tristezza che deve essere combattuto risolutamente e con tutta forza, perché essa viene dal Maligno. Questa distinzione la troviamo anche in San Paolo, che scrivendo ai Corinzi dice così: «La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte» (2 Cor 7,10).

C’è dunque una tristezza amica, che ci porta alla salvezza. Pensiamo al figlio prodigo della parabola: quando tocca il fondo della sua degenerazione prova grande amarezza, e questa lo spinge a rientrare in sé stesso e a decidere di tornare a casa di suo padre (cfr Lc 15,11-20). È una grazia gemere sui propri peccati, ricordarsi dello stato di grazia da cui siamo decaduti, piangere perché abbiamo perduto la purezza in cui Dio ci ha sognati.

Ma c’è una seconda tristezza, che invece è una malattia dell’anima. Nasce nel cuore dell’uomo quando svanisce un desiderio o una speranza. Qui possiamo fare riferimento al racconto dei discepoli di Emmaus. Quei due discepoli se ne vanno da Gerusalemme con il cuore deluso, e allo sconosciuto che a un certo punto li affianca confidano: «Noi speravamo che fosse lui – cioè Gesù – a liberare Israele» (Lc 24,21). La dinamica della tristezza è legata all’esperienza della perdita. Nel cuore dell’uomo nascono speranze che vengono a volte deluse. Può essere il desiderio di possedere una cosa che invece non si riesce ad ottenere; ma anche qualcosa di importante, come una perdita affettiva. Quando questo capita, è come se il cuore dell’uomo cadesse in un precipizio, e i sentimenti che prova sono scoraggiamento, debolezza di spirito, depressione, angoscia. Tutti attraversiamo prove che generano in noi tristezza, perché la vita ci fa concepire sogni che poi vanno in frantumi. In questa situazione, qualcuno, dopo un tempo di turbamento, si affida alla speranza; ma altri si crogiolano nella malinconia, permettendo che essa incancrenisca il cuore. Si sente piacere in questo? Vedete: la tristezza è come il piacere del non piacere; è come prendere una caramella amara, senza zucchero, cattiva, e succhiare quella caramella. La tristezza è un piacere del non piacere.

Il monaco Evagrio racconta che tutti i vizi hanno di mira un piacere, per quanto effimero esso possa essere, mentre la tristezza gode del contrario: del cullarsi in un dolore senza fine. Certi lutti protratti, dove una persona continua ad allargare il vuoto di chi non c’è più, non sono propri della vita nello Spirito. Certe amarezze rancorose, per cui una persona ha sempre in mente una rivendicazione che le fa assumere le vesti della vittima, non producono in noi una vita sana, e tanto meno cristiana. C’è qualcosa nel passato di tutti che dev’essere guarito. La tristezza, da emozione naturale può trasformarsi in uno stato d’animo malvagio.

È un demone subdolo, quello della tristezza. I padri del deserto lo descrivevano come un verme del cuore, che erode e svuota chi l’ha ospitato. Questa immagine è bella, ci fa capire. E allora che cosa devo fare quando sono triste? Fermarti e vedere: questa è una tristezza buona? È una tristezza non buona? E reagire secondo la natura della tristezza. Non dimenticatevi che la tristezza può essere una cosa molto brutta che ci porta al pessimismo, ci porta a un egoismo che difficilmente guarisce.

Fratelli e sorelle, dobbiamo stare attenti a questa tristezza e pensare che Gesù ci porta la gioia della risurrezione. Per quanto la vita possa essere piena di contraddizioni, di desideri sconfitti, di sogni irrealizzati, di amicizie perdute, grazie alla risurrezione di Gesù possiamo credere che tutto sarà salvato. Gesù non è risorto solo per sé stesso, ma anche per noi, per riscattare tutte le felicità che nella nostra vita sono rimaste incompiute. La fede scaccia la paura, e la risurrezione di Cristo rimuove la tristezza come la pietra dal sepolcro. Ogni giorno del cristiano è un esercizio di risurrezione. Georges Bernanos, nel suo celebre romanzo Diario di un curato di campagna, così fa dire al parroco di Torcy: «La Chiesa dispone della gioia, di tutta quella gioia che è riservata a questo triste mondo. Ciò che avete fatto contro di lei, lo avete fatto contro la gioia». E un altro scrittore francese, León Bloy, ci ha lasciato quella stupenda frase: «Non c’è che una tristezza, […] quella di non essere santi». Che lo Spirito di Gesù risorto ci aiuti a vincere la tristezza con la santità.

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Saluti

Je salue cordialement les pèlerins de langue française en particulier les collégiens et lycéens venus de France. Frères et sœurs, que l’Esprit de Jésus aide toutes les personnes plongées dans une solitude profonde et dans la nuit du désespoir à vaincre la tristesse par la joie de la résurrection. Que Dieu vous bénisse !

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese. Fratelli e sorelle, lo Spirito di Gesù aiuti tutte le persone immerse in una profonda solitudine e nella notte della disperazione a vincere la tristezza con la gioia della risurrezione. Dio vi benedica!]

I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from England, Denmark, Malta and the United States of America. Upon all of you, and upon your families, I invoke the joy and peace of our Lord Jesus Christ. God bless you!

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, Danimarca, Malta e Stati Uniti d’America. Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo. Dio vi benedica!]

Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, nehmen wir im Kampf gegen die Traurigkeit vertrauensvoll Zuflucht zum Heiligen Geist, dem höchsten Tröster. Er befreit uns von der Einsamkeit, indem er in unsere Herzen die Liebe Gottes eingießt, welche uns befähigt, auch unsererseits die Trauernden und Bedürftigen zu trösten.

[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, nella lotta contro la tristezza ricorriamo con fiducia allo Spirito Santo che è il consolatore perfetto. Egli ci libera dalla solitudine infondendo nei nostri cuori l’amore di Dio che ci rende capaci di consolare a nostra volta gli afflitti e i bisognosi.]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española. El próximo domingo celebramos la Jornada Mundial del Enfermo. Pidamos a María, Salud de los enfermos, por todos los que sufren, para que sepan poner su confianza en Dios, experimentando la alegría de saberse amados por Él. Que Dios los bendiga y la Virgen Santa los cuide. Muchas gracias.

Saúdo cordialmente os grupos vindos do Brasil e todos os peregrinos de língua portuguesa. Desejo que cada dia da vossa vida seja um exercício de ressurreição, iluminando tudo e todos com a alegria que Cristo Ressuscitado nos traz. Deus vos abençoe!

[Saluto cordialmente i gruppi provenienti dal Brasile e tutti i pellegrini di lingua portoghese. Auguro che ogni giorno della vostra vita sia un esercizio di risurrezione, illuminando tutto e tutti con la gioia che Cristo Risorto ci porta. Dio vi benedica!]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العربِيَّة. مَنْ يؤمِنُ باللهِ لا يَسمَحُ لحُزنِهِ بأنْ يَخنُقَهُ، أيًّا كان سبَبُهُ. بل يتغلَّبُ عليه بقوَّةِ الرُّوحِ القدس، ويُحَوِّلُه إلى حياةٍ جديدة. بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِنْ كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Chi crede in Dio non si lascia soffocare dal suo pianto, qualunque ne sia la ragione. Ma, lo vince con la forza dello Spirito Santo e lo trasforma in una vita nuova. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga ‎sempre da ogni male‎!]

Pozdrawiam serdecznie Polaków. Każdy z Was nosi w swoim sercu pragnienie szczęścia, poczucia bezpieczeństwa i własnej wartości. Niech wierność Bogu i Jego przykazaniom oraz pielęgnowanie w sobie czystego serca, otwartego na Boga i drugiego człowieka, wzmacniają nadzieję i męstwo w życiu osobistym, rodzinnym i społecznym. Z serca Wam błogosławię.

[Saluto cordialmente i polacchi. Ognuno di voi porta nel cuore il desiderio di felicità, senso di sicurezza e di stima di sé. La fedeltà a Dio e ai suoi comandamenti e la cura di un cuore puro, aperto a Dio e agli altri, rafforzino la speranza e il coraggio d'animo nella vita personale, familiare e sociale. Vi benedico di cuore.]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Pie Discepole di Divin Maestro, che celebrano il Centenario di fondazione: possa questa ricorrenza essere uno stimolo per rinsaldare gli ideali religiosi e per esprimere in modo sempre più generoso la dedizione a Dio e ai fratelli. Saluto i sacerdoti, accompagnati dall’Arcivescovo Giovanni Tani, che ricordano il 25° di Ordinazione e auspico che il giubileo sacerdotale sia per ciascuno fonte di rinnovata dedizione a Cristo e alla Chiesa.

Accolgo con affetto i Seminaristi dei Padri di Schoenstatt, i fedeli di Casal di Principe, la Delegazione della Fiaccola benedettina e le Associazioni Spe Salvi e Insuperabile: a tutti auguro di saper crescere e operare, con l’aiuto del Signore, testimoniando la fraternità e la solidarietà.

E non dimentichiamo le guerre, non dimentichiamo la martoriata Ucraina, la Palestina, Israele, i Rohingya, tante, tante guerre che sono dappertutto. Preghiamo per la pace. La guerra sempre è una sconfitta, sempre. Preghiamo per la pace. Ci vuole la pace.

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. La Vergine di Lourdes, che festeggeremo domenica prossima, vi accompagni con tenerezza materna nel vostro cammino. A tutti la mia Benedizione!

Messaggio del Santo Padre ai partecipanti al IV Congresso Internazionale della Piattaforma Universitaria di Ricerca sull'Islam (PLURIEL) [Abu Dhabi, 4-7 febbraio 2024] (4 febbraio 2024)

Dom, 04/02/2024 - 15:00

Cari fratelli e sorelle!

Porgo i miei cordiali saluti a voi che partecipate ad Abu Dhabi a questo Congresso internazionale di pluriel, la Piattaforma Universitaria di Ricerca sull’Islam, in occasione dei cinque anni dal Documento sulla Fratellanza Umana per la pace mondiale e la convivenza comune, che ho co-firmato con il mio amico e fratello, il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb. In quella occasione abbiamo chiesto che «questo Documento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione, al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace e difendano ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi». Mi congratulo dunque vivamente con gli organizzatori di questo incontro accademico per il luogo e il tema che hanno scelto, «Impatto e prospettive del Documento», in un momento in cui la fratellanza e il vivere insieme sono rimessi in discussione dalle ingiustizie e dalle guerre che — lo ricordo — sono sempre sconfitte dell’umanità. Le radici di questi mali sono tre: la non conoscenza dell’altro, l’assenza di ascolto e la mancanza di flessibilità intellettuale. Tre mancanze dello spirito umano che distruggono la fratellanza e che è opportuno identificare bene per ritrovare la saggezza e la pace.

La non conoscenza dell’altro prima di tutto. Poiché i problemi di oggi e di domani resteranno insoluti se non impareremo a conoscerci, a stimarci e se resteremo isolati. Conoscere l’altro, costruire una fiducia reciproca, cambiare l’immagine negativa che possiamo avere di questo «altro», che è mio fratello in umanità, nelle pubblicazioni, nei discorsi e nell’insegnamento, è il modo per iniziare processi di pace accettabili per tutti. La pace senza una educazione basata sul rispetto e sulla conoscenza dell’altro, di fatto, non ha né valore né futuro. Se non vogliamo costruire una civiltà dell’anti-fratello, dove «l’altro diverso» è banalmente percepito come un nemico, se vogliamo al contrario costruire quel mondo tanto desiderato dove il dialogo è assunto come cammino, la collaborazione comune come condotta ordinaria, la conoscenza reciproca come metodo e criterio (cfr. Documento), allora la via da seguire oggi è quella dell’educazione al dialogo e all’incontro. Come ho detto nel mio ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, dedicato all’intelligenza artificiale, «la pace, infatti, è il frutto di relazioni che riconoscono e accolgono l’altro nella sua inalienabile dignità» (Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace 2024, 8 dicembre 2023). L’intelligenza umana, da parte sua, è fondamentalmente razionale: si può sviluppare solo se resta curiosa e aperta a tutti i campi del reale, e se sa comunicare liberamente il frutto delle sue scoperte

Perciò, è necessario trovare il tempo per ascoltare, ascoltare mio fratello diverso, che non ho scelto, per poter vivere con lui sulla stessa terra. L’assenza di ascolto è la seconda trappola che nuoce alla fratellanza. Al contrario: ascoltare prima di parlare. «Sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira. Perché l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio», dice san Giacomo (Gc 1, 19-20). Quanti mali si potrebbero evitare se ci fosse più ascolto, silenzio e al contempo parole vere, nelle famiglie, nelle comunità politiche o religiose, all’interno stesso delle università e tra i popoli e le culture! Il fatto di creare spazi di accoglienza dell’opinione diversa non è una perdita di tempo, ma un guadagno in umanità. Ricordiamoci che «senza il rapporto e il confronto con chi è diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa di sé stessi e della propria terra, poiché le altre culture non sono nemici da cui bisogna difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza inesauribile della vita umana» (Fratelli tutti, n. 147). Per dibattere occorre imparare ad ascoltare, ossia fare silenzio e rallentare, l’opposto della direzione attuale del nostro mondo postmoderno sempre agitato, pieno di immagini e di rumori. Dibattere sapendo però ascoltare e senza cedere all’emotività, senza temere neppure i «malintesi», che saranno sempre presenti e che fanno parte del gioco dell’incontro: ecco che cosa permetterà di giungere a una visione comune pacifica per costruire la fratellanza.

Ma dibattere presuppone un’educazione alla flessibilità intellettuale . La formazione e la ricerca devono mirare a rendere gli uomini e le donne dei nostri popoli non rigidi, ma duttili, vivi, aperti all’alterità, fraterni. Come ho detto durante la Conferenza internazionale per la Pace organizzata ad Al-Azhar, «la sapienza ricerca l’altro, superando la tentazione di irrigidirsi e di chiudersi; aperta e in movimento, umile e indagatrice al tempo stesso, essa sa valorizzare il passato e metterlo in dialogo con il presente, senza rinunciare a un’adeguata ermeneutica» (Discorso ai partecipanti alla Conferenza internazionale per la Pace, 28 aprile 2017). Cari fratelli e sorelle, facciamo in modo che il nostro sogno di fratellanza nella pace non si fermi alle parole! La parola «dialogo», in effetti, è di una ricchezza immensa e non può limitarsi a discutere attorno a un tavolo. «Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”» (Fratelli tutti, n. 198). Non abbiate paura di uscire dalle vostre discipline, restate curiosi, coltivate la flessibilità, ascoltate il mondo, non abbiate timore di questo mondo, ascoltate il fratello che non avete scelto, ma che Dio ha messo accanto a voi per insegnarvi ad amare. “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4, 20).

Grazie per ciò che già fate, come ricercatori, studenti, voi uomini e donne curiosi che desiderate capire e cambiare il mondo. Vi incoraggio nel lavoro che intraprenderete durante questo Congresso e invoco la benedizione di Dio su voi tutti e sulle vostre famiglie.

Dal Vaticano, 4 febbraio 2024

Francesco

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 29, lunedì 5 febbraio 2023. p. 11.

Angelus, 4 febbraio 2024

Dom, 04/02/2024 - 12:00

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia ci mostra Gesù in movimento: Egli, infatti, ha appena finito di predicare e, uscito dalla sinagoga, si reca nella casa di Simon Pietro, dove guarisce la suocera; poi, verso sera, esce di nuovo verso la porta della città, dove incontra tanti ammalati e indemoniati e li risana; la mattina dopo, si alza presto ed esce per ritirarsi a pregare; e infine si rimette in cammino attraverso la Galilea (cfr Mc 1,29-39). Gesù in movimento.

Soffermiamoci su questo continuo movimento di Gesù, che ci dice una cosa importante su Dio e, al contempo, ci interpella con alcune domande sulla nostra fede.

Gesù che va incontro all’umanità ferita ci manifesta il volto del Padre. Può darsi che dentro di noi ci sia ancora l’idea di un Dio distante, freddo, indifferente alla nostra sorte. Il Vangelo, invece, ci fa vedere che Gesù, dopo aver insegnato nella sinagoga, esce fuori, perché la Parola che ha predicato possa raggiungere, toccare e guarire le persone. Così facendo ci rivela che Dio non è un padrone distaccato che ci parla dall’alto; al contrario, è un Padre pieno d’amore che si fa vicino, che visita le nostre case, che vuole salvare e liberare, guarire da ogni male del corpo e dello spirito. Dio sempre è vicino a noi. L’atteggiamento di Dio si può dire in tre parole: vicinanza, compassione e tenerezza. Dio che si fa vicino per accompagnarci, tenero, e per perdonarci. Non dimenticate questo: vicinanza, compassione e tenerezza. Questo è l’atteggiamento di Dio.

Questo incessante camminare di Gesù ci interpella. Possiamo chiederci: abbiamo scoperto il volto di Dio come Padre della misericordia oppure crediamo e annunciamo un Dio freddo, un Dio distante? La fede ci mette l’inquietudine del cammino oppure per noi è una consolazione intimista, che ci lascia tranquilli? Preghiamo solo per sentirci in pace oppure la Parola che ascoltiamo e predichiamo fa uscire anche noi, come Gesù, incontro agli altri, per diffondere la consolazione di Dio? Queste domande, ci farà bene farle a noi stessi.

Guardiamo, allora, al cammino di Gesù e ricordiamoci che il nostro primo lavoro spirituale è questo: abbandonare il Dio che pensiamo di conoscere e convertirci ogni giorno al Dio che Gesù ci presenta nel Vangelo, che è il Padre dell’amore e il Padre della compassione. Il Padre vicino, compassionevole e tenero. E quando scopriamo il vero volto del Padre, la nostra fede matura: non restiamo più “cristiani da sacrestia”, o “da salotto”, ma ci sentiamo chiamati a diventare portatori della speranza e della guarigione di Dio.

Maria Santissima, Donna in cammino, ci aiuti ad annunciare e testimoniare il Signore che è vicino, compassionevole e tenero.

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DOPO ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Il prossimo 10 febbraio, in Asia orientale e in diverse parti del mondo, milioni di famiglie celebreranno il capodanno lunare. Giunga loro il mio cordiale saluto, con l’augurio che questa festa sia occasione per vivere relazioni di affetto e gesti di attenzione, che contribuiscano a creare una società solidale e fraterna, dove ogni persona sia riconosciuta e accolta nella sua inalienabile dignità. Mentre invoco su tutti la benedizione del Signore, invito a pregare per la pace, alla quale il mondo tanto anela e che, oggi più che mai, è messa a rischio in molti luoghi. Essa non è una responsabilità di pochi, ma dell’intera famiglia umana: cooperiamo tutti a costruirla con gesti di compassione e coraggio!

E continuiamo a pregare per le popolazioni che soffrono per la guerra, specialmente in Ucraina, in Palestina e in Israele.

Oggi, in Italia, si celebra la Giornata per la Vita, sul tema “La forza della vita ci sorprende”. Mi unisco ai Vescovi italiani nell’auspicare il superamento di visioni ideologiche per riscoprire che ogni vita umana, anche quella più segnata da limiti, ha un valore immenso ed è capace di donare qualcosa agli altri.

Saluto i giovani di tanti Paesi venuti per la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta, che si celebrerà l’8 febbraio prossimo, memoria di Santa Giuseppina Bakhita, la suora sudanese che da ragazza era stata schiava. Anche oggi tanti fratelli e sorelle vengono ingannati con false promesse e poi sottoposti a sfruttamenti e abusi. Uniamoci tutti per contrastare il drammatico fenomeno globale della tratta di persone umane.

Preghiamo anche per i morti e feriti dei devastanti incendi che hanno colpito il centro del Cile.

E saluto tutti voi che siete venuti da Roma, dall’Italia e da tante parti del mondo. Saluto in particolare i consacrati e le consacrate di oltre 60 Paesi che partecipano all’incontro “Pellegrini di speranza sulla via della pace”, promosso dal Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Saluto gli studenti di Badajoz (Spagna) e quelli della Scuola Salesiana “Sévigné” di Marsiglia; come pure i fedeli polacchi di Varsavia e di altre città; e i gruppi di San Benedetto del Tronto, Ostra e Cingoli. E vedo lì bandiere giapponesi, saluto i giapponesi! E vedo bandiere polacche, saluto i polacchi, e tutti voi, e i ragazzi dell’Immacolata.

Auguro a tutti una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

 

Messaggio del Santo Padre Francesco al Segretario Generale del Premio Zayed per la Fratellanza Umana (4 febbraio 2024)

Dom, 04/02/2024 - 08:00

Al Signor Mohammed Abdelsalam
Segretario Generale
del Premio Zayed
per la Fratellanza Umana

In occasione della Giornata Mondiale della Fratellanza Umana 2024, in cui ricorre anche il quinto anniversario della firma del Documento sulla Fratellanza Umana, invio cordiali saluti e sentimenti di calorosa amicizia a tutti i presenti al conferimento del Premio Zayed di quest’anno.

È incoraggiante constatare che il cammino di dialogo, amicizia e stima reciproca iniziato cinque anni fa ad Abu Dhabi continua a recare frutto. In modo particolare desidero ribadire la mia gratitudine al dottor Ahmad Al-Tayyeb, Grande Imam di Al-Azhar, e a Sua Altezza lo Sceicco Mohamed bin Zayed Al Nahyan, Presidente degli Emirati Arabi Uniti, per il loro vitale sostegno a iniziative volte a promuovere i valori della fratellanza e dell’amicizia sociale, fondato sulla verità che tutti gli esseri umani non sono solo creati uguali, ma sono anche intrinsecamente connessi come fratelli e sorelle, figli del nostro unico Dio in cielo.

In modo speciale, mi congratulo con i tre co-vincitori del Premio di quest’anno: le organizzazioni Nahdlatul Ulama e Muhammadiyah dell’Indonesia, il dottor Magdi Yacoub dell’Egitto e suor Nelly León del Cile. Il fatto che questi tre premiati siano stati scelti tra un gran numero di candidati è un ulteriore segno che i valori celebrati e promossi in questa Giornata risuonano nella nostra famiglia umana.

Al tempo stesso, però, non possiamo non riconoscere gli effetti della mancanza di solidarietà fraterna, sentiti in maniera fin troppo intensa da uomini e donne ovunque e dal nostro mondo naturale. L’impatto negativo della distruzione ambientale e del degrado sociale continua a causare immensa sofferenza a un gran numero di fratelli e sorelle in tutto il mondo. Quanto è opportuno, quindi, attirare l’attenzione sui principi che possono guidare l’umanità attraverso le ombre oscure dell’ingiustizia, dell’odio e della guerra verso la luminosità di una comunità mondiale caratterizzata da quei valori che vediamo espressi nei diversi sforzi dei premiati di quest’anno.  Tra questi vi sono l’amore tollerante per coloro che sono diversi, la cura autentica per i poveri e i malati, specialmente i bambini, e il desiderio di aiutare la riabilitazione dei detenuti e il loro reinserimento nella società. Tutti i vincitori, nei loro modi peculiari, gettano una luce importante sul cammino verso una solidarietà sociale e un amore fraterno più grandi.

Tuttavia, nessuno sforzo individuale o umano può aiutare il progresso in questo cammino. Di fatto, lo stesso Premio Zayed è un promemoria che «senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. [...] Perché “la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità”» (Fratelli tutti, n. 272). È quindi mia preghiera che tutti coloro che partecipano a questa Giornata Internazionale possano essere incoraggiati non soltanto dall’esempio delle buone opere dei premiati, ma anche dalle intuizioni e dalle credenze religiose che  hanno ispirato in loro una tale generosità di cuore.

Infine, rivolgendomi a quanti sono collegati al Premio Zayed, porgo i miei saluti e oranti buoni auspici a tutti e a ognuno dei nostri fratelli e sorelle, specialmente a coloro che soffrono in qualche modo. Possano essi conoscere la vicinanza e la preoccupazione di persone di fede in tutto il mondo. Con questi sentimenti e con grande affetto invoco volentieri su tutti un’abbondanza di benedizioni divine.

Dal Vaticano, 4 febbraio 2024

Francesco

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 29, lunedì 5 febbraio 2023. p. 11.

A Docenti e Alunni del Collegio Rotondi, di Gorla Minore (Varese) (3 febbraio 2024)

Sab, 03/02/2024 - 09:45

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Do il benvenuto a tutti voi, ragazzi, genitori e docenti del Collegio Rotondi di Gorla. Saluto in particolare il vostro Rettore, don Andrea Cattaneo. State celebrando il 425° anniversario di fondazione della vostra scuola, nata nel lontano 1599: più di quattro secoli di storia, e mi sembra che li portate bene!

È un piacere vedervi qui. Soprattutto voi, ragazzi, che con i vostri volti giovani e pieni di vita, con i sogni, i progetti e i desideri che portate nel cuore date senso e valore a una eredità così antica. Con la vostra presenza, testimoniate come il Collegio Rotondi, fedele alla sua tradizione educativa, è cresciuto nel tempo, cambiando e adattandosi tante volte di fronte alle necessità di diversi momenti storici: dalle origini, con la donazione del Canonico Giovanni Terzaghi, alle trasformazioni avvenute sotto i governi austriaco e sabaudo, quest’ultima ad opera del Rettore Rotondi – da cui prendete il nome attuale –, al travaglio delle due guerre mondiali, alle sfide del dopo-guerra, fino ad essere oggi la più antica scuola cattolica “paritaria” d’Italia. E tutto questo contiene un messaggio importante, su cui vi invito a riflettere: è necessario saper cambiare per rimanere fedeli alla propria identità e missione.

Vi incoraggio a impegnarvi intensamente nelle vostre attività scolastiche, ma sempre con una mente aperta alla novità. In particolare voi, ragazzi, ricercate in tutto la verità, senza lasciarvi condizionare dalle mode del momento o dal pensare comune, dai like o dal consenso dei followers: non sono queste le cose più importanti, anzi dipendere troppo da esse ci può togliere la libertà. Al tempo stesso però, non temete, quando necessario, di cambiare e di accettare opinioni e modi di pensare diversi dal vostro in tutto quello che non è essenziale: siate veri amanti della verità, e per questo sempre disponibili all’ascolto e al confronto.

Gesù ci ha insegnato che la verità ci rende liberi (cfr Gv 8,32), e lo diceva a persone che facevano fatica ad accogliere il suo modo nuovo di leggere le Scritture, perché in realtà non le conoscevano abbastanza (cfr Mc 12,24-27) e avevano paura di mutare i propri schemi. Vedete? L’ignoranza genera paura e la paura genera intolleranza. Voi non fate così. Studiate facendo “squadra”, insieme, e sempre in allegria! La conoscenza, infatti, cresce nella condivisione con gli altri. Si studia per crescere, e crescere vuol dire maturare insieme, dialogare: dialogare con Dio, con gli insegnanti e gli altri educatori, con i genitori; dialogare tra di voi e anche con chi la pensa in modo diverso, per imparare sempre cose nuove e permettere a tutti di dare il meglio di sé. Del resto, questo dice il motto della vostra scuola: «Erudire et edocere», cioè fornire a ciascuno gli strumenti necessari a leggere la realtà e ad esprimersi con libertà creativa.

Carissimi, grazie di essere venuti, e grazie per l’impegno che mettete nel portare avanti la vostra comunità educativa. Continuate così, custodendo e attualizzando l’eredità che avete ricevuto. Vi benedico tutti cuore. E vi raccomando, non dimenticatevi di pregare per me! Grazie!

Alla Comunità del Seminario di Madrid (3 febbraio 2024)

Sab, 03/02/2024 - 08:45

Caro fratello, cari seminaristi,

Ci troviamo qui grazie a una felice coincidenza: Sua Eminenza don José prenderà possesso della chiesa di Santiago y Montserrat, che unisce nei suoi santi titolari la fede apostolica e l’amore per Maria che caratterizza tutta la Spagna.

E don José viene inoltre accompagnato dal suo tesoro più prezioso, che siete voi, il suo seminario. Molti santi vescovi della Spagna si sono confrontati con la difficile realtà in cui si trovavano le loro chiese, e hanno pensato al seminario come al luogo in cui il loro sogno pastorale poteva gettare solide radici ed espandersi. In realtà, se vogliamo fare Chiesa, Corpo di Cristo, è facile perché, come disse Dio a Mosè, dobbiamo solo fissare il modello che abbiamo visto sul monte (cfr. Es 26, 30), il Cristo Trasfigurato presente nell’Eucaristia.

Mi viene in mente un detto di uno di questi santi vescovi, che probabilmente conoscete, lui voleva «un seminario in cui l’Eucaristia fosse: nell’ordine pedagogico, lo stimolo più efficace; in quello scientifico, il primo maestro e la prima materia; in quello disciplinare l’ispettore più vigile; in quello ascetico il modello più vivo; in quello economico la grande provvidenza; e in quello architettonico la pietra angolare» (San Manuel González, Un sueño pastoral).

Ripassiamo questi punti per porre Dio al centro, ossia, per lasciare che sia Lui il fondamento, il progetto e l’architetto, pietra angolare. Ciò si ottiene solo con l’adorazione. Gesù — ci dice il nostro santo — ci farà da pedagogo, paziente, severo, dolce e fermo a seconda di ciò di cui abbiamo bisogno nel nostro discernimento, perché ci conosce meglio di noi stessi, e ci aspetta, ci incoraggia e ci sostiene in tutto il nostro cammino. È il nostro stimolo più grande, perché noi abbiamo consacrato la nostra vita a seguirlo.

Mi sembra fondamentale che nel campo scientifico san Manuel unisca l’essere il maestro con l’essere la materia. Dio vuole dare al suo Popolo pastori secondo il suo cuore (cfr. Ger 13, 15), da Gesù non impariamo cose, lo accogliamo, ci afferriamo a Lui, per poterlo portare agli altri. E la grande lezione che il Signore ci dà è l’umanità, l’essersi fatto carne, terra, uomo, humus per noi, per amore. E in questa materia non c’è altro esempio che Lui stesso; di altre virtù e circostanze Gesù presenterà parabole, confronti, fichi, semi e tempeste, ma la grande lezione della sua vita possiamo impararla solo da chi è «mite e umile di cuore» (Mt 11, 29).

Per la disciplina, confrontarci ogni mattina con l’Eucaristia — l’ispettore più vigile — ci fa riflettere sulla futilità delle nostre idee mondane, dei nostri desideri di ascendere, di apparire, di risaltare. Colui che è immenso si fa dono totale di sé e nelle mie mani, prima di comunicare, m’interpella: ti sei riconciliato con tuo fratello? Ti sei vestito con l’abito da festa? Sei pronto a entrare nel mio banchetto eterno?

Finora abbiamo visto discernimento, scienza e vigilanza; sicuramente sono aspetti chiave nel vostro seminario, ma non servirebbero a nulla senza l’ascesi; copiare un modello presuppone uno sforzo, fare un’opera d’arte richiede ispirazione, ma anche lavoro, Gesù non ha eluso tutto ciò. È necessario entrare nel deserto, affinché Lui parli al nostro cuore, se questo sarà colmo di mondanità, di cose, per quanto si possano chiamare “religiose”, Dio non troverà posto, né noi lo udiremo quando busserà alla nostra porta. Perciò silenzio, preghiera, digiuno, penitenza, ascesi sono necessari per liberarci da ciò che ci schiavizza ed essere completamente di Dio. E questo non solo all’interno, ma anche all’esterno, nel lavoro, nei progetti, abbandonandoci a Gesù; il Signore sarà la grande provvidenza, lasciamo che sia Lui a proporre e a realizzare, mettiamoci solo ai suoi ordini con docilità di spirito.

Cari fratelli, abbiate fiducia in colui che vi ha chiamati per questo bel compito, e prostratevi in adorazione per poter costruire con docilità il tempio di Dio nelle vostre persone e nelle vostre comunità. E quando comunicate, e un giorno quando celebrerete, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

 

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 28, sabato 3 febbraio 2024.

 

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